Una lettura del libro “Piccola enciclopedia precaria dai Quaderni di San Precario”, a cura di Cristina Morini e Paolo Vignola (Agenzia X Edizioni, 2015).

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Pochi giorni fa, il 15 aprile 2015, le strade di decine di città statunitensi sono state attraversate da cortei che chiedevano l’innalzamento del salario minimo a 15 $ all’ora. Le immagini più dirompenti sono quelle dei lavoratori e lavoratrici dei fast food, il simbolo stesso della precarizzazione del lavoro, che interrompono il lavoro ed escono dai ristoranti per unirsi alle manifestazioni. La politica nazionale ne discute e gli editorialisti spiegano che per vincere le primarie e le presidenziali Hillary Clinton dovrà confrontarsi non con la questione del salario minimo di per se, ma addirittura con quella cifra, 15 dollari, che è già realtà in alcune città progressiste come Seattle. Nel paese delle ingiustizie economiche estreme, per un partito non certo socialista come quello democratico sarebbe impensabile ignorare questo movimento o negare un dialogo, anche solo di facciata, con le richieste delle classi lavoratrici. Solo pochi giorni dopo, in Italia comincerà l’Expo, e migliaia di giovani volontari presteranno prestazioni lavorative gratuite per sostenere un evento sponsorizzato dalle multinazionali dell’agroalimentare, e lo faranno grazie a un accordo firmato dai sindacati confederali. Chi denuncia l’abuso di lavoro gratuito è un gufo, automaticamente espulso dal dibattito politico nazionale. Altro che 15 dollari all’ora!

Questo paragone azzardato non regge, certo. Ma potrebbe essere un indice della sconfitta subita dai movimenti di precari e precarie in Italia. Renzi, Poletti e un PD apertamente neoliberista, insieme al perdurare della crisi, non fanno che rendere ancora più netta la sensazione che i movimenti abbiano attraversato un passaggio epocale per approdare in un deserto anziché a Zion. Leggendo la “Piccola enciclopedia precaria dai Quaderni di San Precario,” appena pubblicata da Agenzia X e a cura di Cristina Morini e Paolo Vignola, ci si può interrogare su questo passaggio tramite la ricostruzione di almeno quindici anni di pensiero critico prodotto nel maelstrom della precarietà. Il libro raccoglie contenuti pubblicati sui cinque numeri dei Quaderni di San Precario, pubblicazione che ha per alcuni anni rappresentato uno dei luoghi di dibattito dei movimenti italiani. La prima parte, e la più vasta, raccoglie i lemmi di una piccola enciclopedia: Creatività, Eccedenza, Debito, Lavoro gratuito, Trappola della precarietà, per citarne alcuni. Gli autori sono parte di quel collettivo che ha animato i Quaderni dalla fondazione nel 2010: oltre ai curatori, Andrea Fumagalli, Gianni Giovannelli, Fant Precario, Alberto Mazzoni, ma compaiono anche nomi come Sergio Bologna, Carlo Vercellone o Toni Negri, insieme ad altre e altri che hanno fatto parte del gruppo di UniNomade.

Quello che colpisce è la distanza tra la potenza e lucidità dell’analisi emersa da lunghe frequentazioni con la precarietà più che con l’accademia, da un lato, e la situazione dei precari e delle precarie nel paese. Se possibile ancora meno tutelate, rappresentati o persino ascoltate di quanto non fossero vent’anni fa, quando gli scollamenti tra diverse forme di cittadinanza – precaria o garantita? – si fecero evidenti e di massa. I Quaderni rappresentavano il progetto di affinare una cassetta degli attrezzi che potesse essere messa al lavoro nel contesto di una soggettività politica, o protagonismo come lo chiamavamo, dei precari e delle precarie. Si tratta di un progetto riuscito? Con Foucault, gli stessi Quaderni sostengono che ogni sapere è in relazione con un sistema di rapporti e dispositivi di potere, e quindi il sapere precario si presenta come l’esito di un combattimento con le forme di comando e sfruttamento delle vite precarie. O vediamolo da un altro lato: il sapere precario è il prodotto dalla cooperazione sociale che eccede la messa al lavoro nel sistema capitalistico, come leggerete nei lemmi dell’enciclopedia.

In questo senso i Quaderni sono una raccolta dirompente per quanto sono attuali, radicati nel sapere e nelle lotte dei precari, nella sfide in tribunale, in piazza, al call center o in magazzino. Alcune voci dell’Enciclopedia mettono alcuni punti fermi che stabilizzano il dibattito avvenuto nel corso degli anni duemila all’interno dei movimenti italiani. Per esempio quella sulla Creatività, che traccia un’analisi dell’ideologia della creatività e della sua sottomissione al capitale mentre illustra le possibilità aperte dalle nuove forme di cooperazione in rete. Oppure quella sulla Trappola della precarietà, che avvolge le precarie e i precari costringendoli a un circolo vizioso di erosione dei diritti e della propria condizione di vita. Nella voce sul Comune si immagina la crisi come opportunità per destituire l’esistente e aprire un processo costituente per definire e costruire forme di cooperazione sociale liberatorie e basata su nuove forme di collettività.

Manca tuttavia dall’orizzonte quello su cui si è scommesso e lavorato a testa bassa per quindici anni: appunto l’emergere di una soggettività politica precaria. A chi resta allora in eredità questa cassetta degli attrezzi? Già nei Quaderni emerge che la frattura generazionale sta concludendo la sua parabola e nuove forme di comunità e mobilitazione sono per ora sommerse. Le eccezioni si trovano in settori cruciali per il modello di sviluppo italiano, come le lotte dei lavoratori della logistica nella pianura padana. Ma restano per ora minoritarie rispetto alle masse precarizzate. Inoltre la trasformazione ha subito un’accelerazione, con la diffusione del lavoro gratuito, l’istituzionalizzazione della precarietà a vita per tutti con il jobs act, e infine le leggi che hanno persino reso difficile rivalersi in sede giudiziaria facendo leva su un uso tattico di un’idea di progresso basato sulla giustizia. Infine, la crisi: causata dalla finanziarizzazione ma pagata dai lavoratori e in particolare dalle fasce deboli, anche anagraficamente. La disoccupazione giovanile che ha superato da un pezzo il 40%. In breve, le generazioni più giovani trovano una collocazione, un ruolo, nella società italiana solo in quanto consumatori e consumatrici. Questo non significa solo l’impossibilità di immaginare un riscatto attraverso il lavoro, sogno progressista del Novecento. La marginalizzazione dei giovani rappresenta anche la mancanza della possibilità di esercitare conflitto nella sfera produttiva e quindi di essere parte di processi di cambiamento basati sul lavoro o sull’opposizione al lavoro.

Secondo Gramsci – e molto più umilmente San Precario – non si può ridurre la sottomissione dei lavoratori al ricatto, alla paura di perdere il lavoro. L’altro polo è rappresentato dal consenso dei lavoratori e delle lavoratrici verso gli obiettivi dell’impresa. Ieri sembrava che questa doppia condizione spiegasse il perché i precari e le precarie faticassero a mobilitarsi e accettassero condizioni lavorative le più incredibili: altamente ricattabili, anche convinti che la precarietà fosse la porta di ingresso verso un futuro migliore tramite l’agognato tempo indeterminato. Oggi, all’epoca del lavoro gratuito, la prima parte del problema è svanita. Non c’è più nulla da perdere per chi lavora gratuitamente. Il ministro Poletti che invita i giovani a lavorare gratis d’estate, l’accordo sindacale per il lavoro gratuito firmato dai sindacati confederali per l’Expo, l’estensione di stage e tirocini che mascherano lavoro produttivo non ricompensato, incarnano un uso spregiudicato del consenso pur in mancanza della promessa più comune fino a pochi anni fa: un posto a tempo indeterminato per i più volenterosi, meno rompiscatole, più affezionate al brand aziendale e disposte allo straordinario non pagato.

Simbolicamente, l’uscita di questo libro coincide anche con la conclusione del ciclo della Mayday, il primo maggio di precari e precarie che per quasi quindici anni è stato parte importante del tentativo di introdurre la precarietà nell’agenda politica del paese costruendo autonomia dalle forze politiche istituzionali che avevano abbandonato le generazioni precarie e allo stesso tempo producendo quella che ha cercato di essere una comunità trasformativa. La Mayday del 2015, che è rivolta all’Expo criticandone l’idea di sviluppo, i contraccolpi ambientali, la corruzione, la crezione di nuove ingiustizie, ha abbandonato la centralità del problema del welfare e del lavoro. La precarietà è una variabile tra tante e non costituisce più ne la spinta propositiva ne il polo di attrazione verso le generazioni che hanno partecipato e costruito la Mayday negli anni passati.

Eppure solo cinque anni fa l’editoriale del primo numero dei Quaderni di San Precario, intitolato “Welcome to the jungle,” che resta uno dei testi più intensi del volume, parlava di una nuova scienza popolare al servizio di chi sguazza nella precarietà, cioè di chi vive nella precarietà ma sa anche trovarvi le occasioni di conflitto e di riscatto. Perché quella storia così produttiva e quel sapere emergente sono stati sconfitti, e cosa li sostituirà nei prossimi cicli di lotte? In questo libro ci sono certo alcuni attrezzi, ma le risposte dovremo cercarle di nuovo nei magazzini, negli uffici, sui furgoni e negli stand.

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