Presentiamo, pubblicandone l’introduzione, il libro di Maura Benegiamo, di recente uscita per Orthotes Editrice: “La terra dentro il capitale. Conflitti, crisi ecologica e sviluppo nel delta del Senegal” (2021, pp. 166).
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Fratture coloniali e margini di resistenza
Quasi duecento anni fa il barone Jacques-François Roger si insediava nella sua nuova casa sul bordo del fiume Senegal, un maestoso ed eccentrico edificio in stile neoclassico molto più principesco di quello in cui risiedeva precedentemente nel vicino centro urbano di Saint Louis. Era arrivato in Senegal qualche anno prima per prendere possesso del palazzo che il re di Francia aveva fatto costruire sul modello delle lussuose residenze dei funzionari coloniali e proprietari di piantagioni di Santo Domingo,11 al tempo tra le più ricche colonie dell’Impero francese. Con la grande festa di inaugurazione che venne allestita nella nuova residenza, Roger voleva probabilmente marcare uno specifico carattere al suo mandato di governatore che, dopo vari tentativi, era riuscito ad ottenere con stipula reale il 26 luglio del 1821 e la nomina a Commandant et administrateur du Sénégal et dépendances. Incaricato dal re di Francia di attuare una politica di recupero e sviluppo della colonia, sarebbe stato nella regione del delta del fiume Senegal che il barone avrebbe portato avanti il suo progetto di costruzione di una fattoria modello, prima di arrendersi agli insuccessi ed abbandonare il Paese sette anni dopo.
Intenzionato ad importare in Senegal il modello coloniale delle piantagioni, nel delta, Roger si sarebbe impegnato a condurre alcuni tentativi di sviluppo di un’agricoltura di irrigazione e coordinare delle sperimentazioni botaniche d’avanguardia. Le specie vegetali interessate dai suoi esperimenti furono principalmente il riso, alcuni alberi da frutto, l’indaco, il caffè e l’arachide, unica pianta da cui ottenne importanti successi e di cui divenne un fervente promotore. Ad accompagnare Roger in questo progetto fu il botanico e capo giardiniere della colonia, il francese Jean Michel Claude Richard in cui onore sarà battezzato il parco botanico, fatto costruire dal Barone nelle vicinanze del suo palazzo, che oggi dà il nome anche alla piccola cittadina di Richard Toll, da una parola wolof significante appunto giardino. Sarebbe stato per Richard l’inizio di una lunga carriera scientifica che lo avrebbe portato a viaggiare per molte isole e colonie francesi in Africa. Non riuscirà tuttavia a passare alla storia come un grande inventore, come avrebbe voluto. Quando nel 1840 Edmond Albius, uno schiavo dell’età di 12 anni, residente sull’isola di Bourbon, antico nome dell’attuale Réunion, scoprì quella che è tutt’ora la principale tecnica di impollinazione del fiore della vaniglia, Richard tentò di farsene riconoscere la paternità, sostenendo di essere lui l’ideatore. Smentito, la sua reputazione fu compromessa per sempre mentre l’isola della Réunion avrebbe conservato per lungo tempo il primato di principale paese esportatore della vaniglia, nonché della pregiata vaniglia di Bourbon.
Ci sono voluti altri centoventi anni prima di smantellare il sistema coloniale in Senegal, il palazzo di Roger giace come una rovina nel delta, il suo progetto tuttavia non è tramontato. Oggi la regione è il principale centro di produzione di riso del Senegal, i suoi corsi d’acqua sono stati tutti a poco a poco incanalati per poter irrigare i campi dei contadini e permettere all’agricoltura di avanzare su quella che era prima una vasta area quasi interamente coperta da acquitrini, stagni e zone umide. Se da dicembre a giugno si segue la strada che va da Richard Toll sino alla città di Ross Bethio, 50 km più a sud, e si guarda verso destra si potranno scorgere alcuni di questi campi irrigati. A sinistra invece ci sono le distese semidesertiche della stagione secca saheliana interrotte solamente da un ristretto numero di piccoli gruppi di capanne. Bisogna allora lasciare la strada ed inoltrarsi lungo la savana per scoprire una nuova e diversa vegetazione, intervallata da numerose acacie e alberi di baobab e dalla presenza di alcune mandrie di mucche, pecore, capre e asini. È qui che, almeno sino al 2012, si estendeva la Riserva di Avifauna di Ndiaël.
Quando vi giunsi, nel 2013, ero da poco arrivata in Senegal con l’intenzione di esplorare da vicino una delle grandi acquisizioni fondiarie che avevano interessato il Continente a ridosso delle crisi del 2007-2008 e negli anni immediatamente successivi. In quel periodo la notizia che da un po’ di anni, in tutto il mondo, le terre stessero passando di mano ad un ritmo e ad una concentrazione inedita dai tempi della colonizzazione aveva cominciato a circolare anche sui media non specializzati. Come suggerito dalla tempistica di tali operazioni, si trattava nella stragrande maggioranza dei casi di un tentativo di risposta e adattamento rispetto alle grandi crisi che il pianeta stava attraversando, climatica, ecologica, alimentare, energetica e finanziaria. Molte di quelle operazioni erano anche animate da una serie di nuove politiche di sviluppo agricolo e transizione energetica sancite a livello globale e dai singoli Stati. Si trattava comunque di un fenomeno dalle proporzioni assai sconvolgenti. Secondo le stime più ufficiali di quel periodo almeno 45 milioni di ettari di terra arabile erano passati di mano nel solo biennio 2008-2009,2 stime maggiori sono emerse nel periodo immediatamente successivo al picco di investimenti.3 La maggior parte delle acquisizioni riguardava aree comprese tra i 10.000 e i 200.000 ettari. Con più della metà delle transazioni registrate, il continente africano, e in particolare l’Africa subsahariana, risultava tra le aree più coinvolte da questo processo. Interi pezzi di territorio stavano transitando nelle mani di gruppi e attori economici dalle identità poco chiare e sulla base di processi poco trasparenti.4
Sapevo dunque che avrei molto probabilmente incontrato un conflitto tra delle imprese capitaliste e delle comunità locali interessate a non essere espropriate dalle proprie terre. Non immaginavo invece che la storia che avrei documentato si sarebbe occupata anche del ritmo delle piene dei fiumi e di quello delle maree oceaniche, del susseguirsi delle piogge e dei lunghi periodi di siccità che avevano avuto un ruolo centrale nell’evoluzione della regione, ben da prima della colonizzazione francese. Ciò implicava anche conoscere la morfologia dei suoli e la loro distribuzione spaziale, la posizione delle depressioni argillose, sapere dove finiscono le dune sabbiose e iniziano le distese brulle e lateritiche.
Non sapevo, inoltre, che avrei finito col ricostruire la nascita di quel conflitto e di quei luoghi molto indietro nel tempo, cercandone le tracce negli archivi storici della Société nationale d’aménagement et d’exploitation des terres du delta du fleuve Sénégal (SAED), nelle tesi degli studenti di agronomia delle università di Dakar e Saint Louis e nei rapporti degli ex istituti coloniali francesi. Eppure, la storia di un territorio che c’è stato e non c’era già più si è rivelata essere la prima chiave per analizzare ciò che stava avvenendo in quei luoghi. La seconda chiave di lettura richiedeva di guardare allo sviluppo capitalista non tanto, o non solo, come il processo sotteso all’evoluzione del mercato e della proprietà privata, ma anche come la continua alterazione degli spazi vitali e la riorganizzazione dei ritmi di rigenerazione e delle forme di riproduzione delle specie, inclusa quella umana.
Alcune studiose, tra cui l’antropologa Anna Tsing, hanno proposto di chiamare la nostra epoca come l’epoca delle piantagioni. Accogliendo i risultati delle analisi di molti storici, geografi e studiosi della storia mondiale e dell’Antropocene,5 quest’approccio propone di situare in quel processo che ha visto l’economia della piantagione espandersi nelle isole del mar dei Caraibi, dalle Barbados alla Jamaica, nei primi anni del XV secolo, l’emergere di una particolare congiunzione tra disciplinamento della