Volentieri condividiamo la Postfazione di Agostino Petrillo al libro di Abdelmalek Sayad Una Nanterre algerina, terra di bidonville, di recente uscita per ETS Edizioni, a cura di Sonia Paone e Agostino Petrillo.

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Tra storia e sociologia

Chissà che direbbe se fosse ancora vivo Malek Sayad del fatto che a Nanterre gli siano state recentemente dedicate una strada e una scuola…una sorta di trionfo postumo, che non può non lasciare l’amaro in bocca, se si pensa a come il suo libro su Nanterre sia stato pressoché ignorato, se si esclude qualche recensione e qualche intervista isolate,1 e comunque accolto in Francia pare di capire da un prudente silenzio se non con un certo fastidio, per finire poi imbalsamato al Musée de l’Immigration.

D’altra parte era difficile collocarlo e… digerirlo… Sayad è rimasto un pensatore scomodo, come ha mostrato molto bene anche la controversa ricezione dei suoi lavori da parte dei Migration studies, ambito in cui non sono mancate critiche anche malevole. 2

Il libro uscì nel 1995 in una collana di testi di attualità, a cura di Pierre Milza ed Emile Termine, che mirava a ricostruire i percorsi degli stranieri nella società francese del Novecento, ed è basato su di un serie di interviste fatte a distanza di anni a ex-residenti nella bidonville che si sviluppò per quasi vent’anni alle porte di Parigi. Oltre alle interviste Sayad si è basato su di un ampio apparato di report d‘epoca, di frammenti di storia orale, di lettere, di inchieste e di dati demografici, mappe e fotografie, materiali che la sua collaboratrice Eliane Dupuy, ricercatrice del CNRS lo aiutò a raccogliere. Un’ottica quindi estremamente interdisciplinare, un approccio originale in cui lo spazio è storia fattasi territorio.

 

Una politica della memoria

Il libro di Sayad su Nanterre non è l’ennesimo libro d’indagine sulla banlieue, sia pure su di un pezzo di banlieue decisamente particolare come furono le bidonvilles, né vuole essere soltanto un documento di denuncia dell’esistenza delle bidonvilles in territorio francese. C’è qualcosa di strano in questo testo, qualcosa che sfugge, e ne rende difficile la classificazione, quasi fosse stato scritto in parte à contrecoeur come dicono i francesi, con una sorta di intima riluttanza o di ritegno, nonostante il pathos che lo pervade, ma comunque scritto perché era necessario farlo, sotto la spinta di una necessità, di una urgenza: quella di lasciare una documentazione, prima che sparisse completamente la memoria di quanto era avvenuto. La bidonville di Nanterre è: “un lieu pour mémoire et mémoire d’un lieu” luogo per la memoria e memoria di un luogo come annotò lo stesso Sayad.

Un testo, che nella sua pulita leggibilità vuole essere sostanzialmente politico, quindi, ancora più che sociologico, scritto con l’intento di ricostruire come era nata, che cosa era stata e come aveva funzionato la bidonville di Nanterre. Il tema è evidentemente delicatissimo ma nelle pagine non si indulge mai al vittimismo o all’invettiva, si cerca prima di tutto di ricostruire attraverso i ricordi quali siano state le condizioni di possibilità che hanno condotto alla nascita di Nanterre.

L’intento generale programmatico del lavoro è infatti dichiaratamente comprendere: “come è stata possibile la bidonville”? Bidonvilles che esistettero per circa vent’anni alle porte della civile Parigi, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in cui vissero migliaia di persone, prevalentemente Nord-africani e Algerini. A metà degli anni Cinquanta vivevano nelle bidonvilles di Nanterre più di metà degli Algerini e dei Nord-africani residenti in città. Cancellate dal paesaggio urbano, che ha subito tutta una complessa evoluzione successiva, le bidonvilles rimangono nel ricordo di chi ci ha vissuto. Ma come ricostruire la memoria di un luogo? Qui alle mappe si sovrappone una topografia della memoria, un territorio ricordato che si intreccia a quello disegnato dalle carte. Una memoria collettiva che non è mai univoca, ma suscita problemi, in un gioco di rimandi in cui i ricordi e le percezioni della realtà di cui fu bambino in bidonville a volte divergono da quelli dei “vecchi” che la videro nascere. La memoria del luogo diviene dunque in se stessa un campo politico, un momento di confronto tra generazioni, tra ordini e paradigmi morali differenti, in cui spesso alla rassegnazione e al fatalismo con cui ricordano gli anziani si contrappone la rabbia e il risentimento dei più giovani. Una rabbia che si ritroverà nelle cicliche rivolte degli anni successivi in banlieue.

Così Sayad, nonostante queste difficoltà a definire una memoria oggettiva o quantomeno condivisa del passato, tenta una difficile operazione di ricostruzione ex-post, una sorta di audace etnografia a posteriori delle bidonvilles di Nanterre, servendosi di un vasto apparato di materiali e di metodologie di indagine innovative, che incrociano storia sociale, urbanistica, sociologia quantitativa e qualitativa. Dalla storia locale di una “città di cenciaioli”, che diviene città di immigrazione, fino alla ricostruzione meticolosa della topografia, della demografia, per seguire con passione la dinamica di sviluppo delle bidonvilles. Una storia della bidonville che non è solo descrizione, ma ne traccia anche una epistemologia, e che si intreccia strettamente alla vicenda della immigrazione algerina in Francia. Una vicenda migratoria durissima la cui epica era già stata precedentemente scandita dai processi che la innescano sul territorio algerino e che Sayad descrisse con Pierre Bourdieu nel loro libro sul Déracinement.3 Eppure questo complesso lavoro inter e transdisciplinare rimanda costantemente a qualcosa d’altro, che sfugge, che continua a costituire problema. Come è stato possibile che sia esistito nel cuore dell’Europa per circa vent’anni un luogo così spaventoso e così disumano come la bidonville?

 

Verifica dei poteri

E’ necessaria allora per trovare delle risposte una epistemologia in senso foucaultiano, oltre che una storia e un lavoro al confine tra i campi disciplinari, dato che analizzando la genesi della bidonville, in apparenza “città fatta dagli immigrati per gli immigrati”, Sayad fa emergere la costellazione di poteri e di influenze che hanno concorso a determinarne il destino, la genealogia dei rapporti di forza che hanno presieduto alla sua nascita. In questo modo egli fa giustizia una volta per tutte delle letture economiciste della bidonville, che in esse vedevano unicamente l’ammassarsi di una forza lavoro soggiogata e marginalizzata, senza passato né progettualità, e al contempo svela una tenace soggettività migrante che la capacità di trovare soluzioni ragionevoli che permettono di sopravvivere in un contesto irragionevole e in una condizione di totale inferiorizzazione, di affrontare l’assurdo della bidonville in cui sono confinati i lavoratori algerini e le loro famiglie. Questo strano mondo può realizzarsi in un contesto potentemente viziato dalle condizioni che la Francia attraversa durante la guerra d’Algeria. Guerra che rimane comunque sempre solo sullo sfondo, come sullo sfondo rimangono il controllo esercitato dal FLN algerino sulla bidonville e i drammatici eventi del 17 ottobre1961, con la manifestazione degli algerini a Parigi repressa nel sangue, e i cadaveri delle vittime a decine, se non a centinaia, buttati nella Senna per cancellare le tracce del massacro. Un terribile condizionamento basato sul terrore che pesa su qualunque possibilità di rivendicazione.4

A una domanda precisa dell’autore su perché gli abitanti della bidonville non si siano mai ribellati alle loro inumane condizioni di vita risponde uno degli intervistati, alludendo appunto al 1961: “abbiamo provato ad alzare la testa una volta… e avete visto come è finita”.

Nell’impossibilità della rivendicazione politica finisce per regnare nella bidonville una mentalità di attendismo e di pensiero magico ci dice Sayad, in cui la soluzione del problema è costantemente demandata alla speranza in interventi miracolosi, come è tipico dei vinti, di coloro che si trovano in una situazione di oppressione senza speranza di riscatto. Ma anche così permane l’ossessivo interrogativo “come è stato possibile?” che è destinato a non trovare una risposta definitiva.

 

Origini

La bidonville: “non è stata creata in un giorno… non c’è l’inaugurazione”. All’origine del fenomeno ci sono i café-hotels, gestiti da migranti della prima ondata, che da occasionali affittacamere sotto la pressione degli arrivi che si susseguono diventano dei veri e propri organizzatori di dormitori di massa, in cui come nella Inghilterra vittoriana chi lavora di giorno lascia il letto ancora caldo a chi lavora di notte…

Poi vengono gli hotel meublés piccole pensioni di infimo livello in cui soggiornano i migranti, che esplodono a loro volta quando per una serie di motivi una immigrazione prevalentemente maschile cede imporvvisamente il passo alla presenza delle famiglie, quando avvengono i ricongiungimenti familiari, anche come conseguenza degli sviluppi della guerra in Algeria. Tutto questo sullo sfondo di una crisi degli alloggi cui non riesce a porre rimedio l’edilizia popolare pubblica, pure potentemente incrementata nel periodo. L’esplosione degli hotel meublés per sovraffollamento porta con sé lo sviluppo graduale delle baracche, che nascono inizialmente nei cortili interni e nelle dépendences degli hotel, in interstizi astutamente individuati da quei “mercanti di sonno” che sono i proprietari dei meublés prima di trovare nei terrains vagues che si estendono ai limiti della città il loro luogo di radicamente definitivo. La bidonville è dunque creata dagli immigrati per gli immigrati, e ha il suo apice nel momento in cui la migrazione di uomini soli diviene la migrazione di interi nuclei familiari.

Il modello-bidonville diviene a questo punto pervasivo, vincente, fino a provocare il tramonto degli hotel-meublés angusti e luridi, cui le famiglie finiscono per preferire la baracca, che se non altro offre un minimo di “intimità” in più. Sono baracche autocostruite, su terreni abbandonati o inutilizzati tanto dal pubblico che in alcuni casi dai privati. La loro realizzazione richiede un piccolo investimento economico e due-tre settimane di lavoro, e garantisce in ogni caso la possibilità di avere “un tetto sopra la testa”.

Così la bidonville, dopo timidi inizi, si allarga, si estende, si moltiplica, diviene massiva, i migranti algerini si insediano ovunque vi siano spazi abbandonati o di risulta, la bidonville si diffonde secondo le consuete modalità invasive tipiche degli slums terzomondiali.

 

Acqua, fango, fuoco

Ma la vita in bidonville è una esistenza estrema, costantemente minacciata dagli elementi naturali e dalla stessa precarietà delle costruzioni. L’odissea degli abitanti si snoda tra mille difficoltà e umiliazioni quotidiane: le corvées dell’approvigionamento d’acqua alla fontana pubblica, la paura del fuoco, a volte appiccato dall’esterno, l’eterna lotta contro il fango e contro i topi che infestano le baracche. La pioggia si insinua dovunque in questa bidonville che è anche “città bidone”, facendo marcire le precarie strutture, ruscellando all’interno delle misere abitazioni. Il mare di fango in cui si trasformano i precari tracciati viari si appiccica alle scarpe, macchia gli abiti che è impossibile tenere puliti, marcando in maniera indelebile gli abitanti, inzaccherandoli in maniera da renderli dappertutto riconoscibili come provenienti dalla baraccopoli.

Si organizzano servizi di sorveglianza notturna per prevenire gli incendi, che comunque scoppiano egualmente e che sono per lo più gestiti dagli abitanti stessi, dato che i pompieri arrivano in genere tardi e con riluttanza entrano nella bidonville… Ovunque i topi, aggressivi, minacciosi che arrivano anche a mordere i bambini e contro la cui presenza non ci sono rimedi validi.

Gli amministratori di Nanterre e delle altre località in cui sorgono le bidonvilles francesi fingono di non vedere, la bidonville ufficialmente “non esiste” tanto che non viene nemmeno raccolta la spazzatura che gli abitanti sono costretti ad ammassare confusamente ai bordi dell’insediamento, così come non ci sono servizi igienici e si provvede con pozzi neri improvvisati. Ma forse le pagine più drammatiche sono quelle in cui alla ritrosia e alla vergogna degli ex-abitanti più anziani nel raccontare tutto questo si contrappone la rabbia e il linguaggio crudo dei giovani nel ricordare “la città di merda” in cui sono stati costretti a crescere. Lo stesso Sayad sembra esitare di fronte alla violenza con cui erompono i ricordi, i dettagli tragici e grotteschi della esistenza nelle baracche, la sofferenza prolungata negli anni, gli stenti quotidiani. Non indulge se non raramente nell’utilizzo delle immagini che gli vengono fornite dalle testimonianze, in certo modo le stempera, con una prosa asciutta e secca che non è mai accademica, ma segna in ogni caso con il suo disperato razionalismo uno stacco rispetto alla colata lavica delle interviste. La catastrofe è già avvenuta, le sofferenze non saranno riscattate, nessun tribuno della plebe si è sollevato a denunciarle, e ora ad esse si può offrire solo il monumento postumo delle memorie. Qui forse la ragione della sotterranea tensione e dell’ansia che pervadono il testo, che è il risultato di un corpo a corpo con un materiale ai confini del dicibile, che spesso viene espresso dagli stessi intervistati con vergogna e ricorrendo a perifrasi.

L’autore appare dunque anch’egli a tratti diviso tra il pudore e bisogno di esprimere il segno della storia.5 Il racconto è però necessario non solo per la memoria, ma anche per comprendere come la bidonville possa tornare. Conservare la memoria di un passato comunque ormai irredimibile ha il senso non di una tardiva revanche, ma piuttosto di un monito.

 

Una nuova forma dell’urbano

La bidonville è una “città per approssimazione, una città rifiutata dalla città”, ma è a tutti gli effetti una città sotto il profilo sociale ed economico, con i suoi negozi, i suoi mercati, le piccole attività artigianali e una sorta di “differenziazione interna”, di gerarchia dei suoi spazi. Un microcosmo ai margini della città eppure integrato alla città stessa, che rivela i conflitti e le tensioni che l’attraversano. E al tempo stesso è uno spazio squalificato, che squalifica coloro che vi abitano, popolato da stranieri che non hanno il diritto di avere diritti, che sono in un certo senso imprigionati in un abitare paradossale, in case di cartone che negano de facto i due vecchi assi integrati toit et travail.

La stagione della bidonville si conclude nei primi Settanta quando vengono demolite e i loro abitanti destinati alle cités di transito e successivamente collocati negli HLM che si vanno svuotando di precedenti abitanti.6 Ma l’esperienza della bidonville non finisce qui, il trasferimento è tutt’altro che indolore: da una parte la banlieue si “bidonvillizza” nelle mentalità e nei comportamenti, diviene il luogo in cui cresce l’esclusione sociale e si sviluppa un sentimento di imprigionamento che produce un enorme risentimento, e dall’altra la bidonville diviene un simbolo di una dimensione abitativa che va al di là di quanto è esistito a Nanterre, per assurgere a dimensione universale.

Se la bidonville è scomparsa ci ammonisce Sayad, ne permane la memoria, una memoria inquieta, in cui il passato non è più comprensibile del presente, e che continua a porre domande sulla città e sul suo futuro. La bidonville interroga la città con la sua esistenza, per il fatto di essere esistita e di continuare ad esistere.

« Le bidonville est l’habitat que la ville assigne aux nouveaux venus qu’elle ne peut pas loger décemment. Il est l’habitat des éternels migrants ». Con la bidonville nasce una nuova dimensione urbana, un nuovo spazio fisico che produce uno spazio sociale declassato, minore e marginale, e che è tuttavia parte della città, ad essa funzionale. In questo senso le bidonvilles di Nanterre non hanno costituito solo una pagina nera della storia urbana francese, ma rappresentano un modello generale e generalizzabile di abitare dei poveri. Ovunque la costituzione di determinati poteri economici, politici e territoriali impedisca la creazione di strutture abitative per poveri migranti e oppressi, lì si danno tutte le condizioni per la nascita di bidonvilles. Se pensiamo che Sayad scrisse queste parole un quarto di secolo fa, quando ancora non si delineava il “pianeta degli slum” che abbiamo oggi di fronte, 7 e prima che anche in Italia nascessero le bidonvilles dei migranti, allora possiamo apprezzare in pieno l’ampiezza delle sue vedute. Le tensioni che attraversano le città contemporanee, il modo in cui in esse sono distribuiti spazi e poteri sembra dirci Sayad alludono irresistibilmente alla necessità di una città diversa e la memoria di Nanterre e delle sue bidonvilles rappresenta dunque un monito di quello che avviene ogni qual volta si creano le condizioni storiche e politiche per regimi urbani della separatezza e dell’esclusione.

Nel chiudere il volume vogliamo ringraziare Eliane Dupuy che si è gentilmente prestata a tutta una serie di chiarimenti sulle modalità di realizzazione del testo e sul suo ruolo nel reperimento dei materiali e Turi Palidda che ha riletto attentamente la prima stesura della traduzione fornendo una ampia serie di suggerimenti e integrazioni, e cui va il non piccolo merito di avere introdotto Sayad nel dibattito italiano, nonché gli eredi di Abdelmalek Sayad per avere concesso i diritti di pubblicazione.

 

Note

1 Rinvio p.es. alla recensione di L. Wacquant, Un Nanterre algérien terre de bidonvilles, in Ethnography vol.2, n.1 (March 2001), pp.139-141, per l’intervista televisiva cfr. P. Casanova, Entretien avec Abdelmalek Sayad à propos de son livre “Un Nanterre algérien terre de bidonvilles”, Le club de la presse France culture, 18 avril 1995.

2 Valga per tutte la recensione velenosa di D.S. Massey, Long Day’s Journey into Night: One Person’s Reflections on International Migrations, in Qualitative Sociology, 29, 1, 2006 pp.111-116.

3 P. Bourdieu, A. Sayad, Le déracinement. La crise de l’agriculture traditionnelle en Algérie, Editions de Minuit, Paris 1964; ma cfr. anche sul legame tra le bidonvilles di Nanterre e i campements coloniali, A. Petrillo, Prima dell’emigrazione. Sayad/Bourdieu e Le déracinement, in Mondi Migranti 3/ 2010, pp. 33-46.

4 Cfr. J.-L. Einaudi, La bataille de Paris: 17 octobre 1961, Seuil, Paris 1991.

5 Cambiate le cose da cambiare lo stesso probema agita le pagine di J.F. Lyotard, Le différend ou le signe de l’histoire, Ed. de Minuit, Paris 1983,…ci sono vittime della storia che nessun tribunale può ascoltare.

6 Cfr. il saggio di Sonia Paone in questo volume.

7 Il riferimento è ovviamente a M. Davis, Il pianeta degli slum, Feltrinelli, Milano 2006; una interessante rilettura che attualizza molti dei contenuti del classico lavoro di Davis è quella a opera di F. Eckardt, Zur Aktualitaet von Mike Davis, Springer Verlag, Wiesbaden 2014.

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