Commentando la recente enciclica quasi tutti gli editorialisti iscritti al libro paga dei grandi quotidiani hanno contribuito, naturalmente su commissione, a diffondere l’immagine di un Papa Francesco socialista, forse anche comunista, comunque potenzialmente eversivo e pericolosamente incline a prendere per buona la necessità di un rivolgimento sociale. Un vecchio adagio ci ricorda che la madre dei cretini è costantemente gravida; così sul lato sinistro dello schieramento politico, abboccando all’amo lanciato dalla stampa imprenditoriale e da quella reazionaria, si sono formate quasi spontaneamente piccole schiere di sostenitori del pontefice, indicato quale punto di riferimento dell’opposizione al capitalismo contemporaneo, al trumpismo, al colonialismo, al populismo, al razzismo, a ogni genere di malanno che ci colpisce.

In realtà si tratta di un testo di grande interesse, che non nasconde l’intenzione di contribuire ad una sorta di rifondazione della dottrina politica e istituzionale della Chiesa di Roma nel mondo. La fraternità certamente rientra nell’ambito del filone di pensiero religioso aperto da Papa Leone XIII con la Rerum Novarum (1891); ma amicizia sociale è invece un termine originale, che travalica il concetto tradizionale di cooperazione utilizzato dal corporativismo interclassista di matrice cattolica. Un insigne studioso, il cappuccino Niklaus Kuster, ha rilevato che il termine latino fratres fu usato da San Francesco nella sesta ammonizione citata in apertura dal Pontefice con riferimento ai frati e non ai fratelli; va dunque inteso, in questo scritto, non come plurale di un sostantivo maschile, ma allargato a tutti gli esseri umani, senza gerarchie, a prescindere dal genere. La sesta ammonizione di San Francesco risale al 1220, durante la periodica riunione alla Porziuncola; cinque religiosi erano stati uccisi in Marocco durante le persecuzioni e criticando coloro che ci ricamavano sopra Francesco scrisse: ognuno si glori del martirio proprio, non di quello degli altri. Per comprendere il contenuto del messaggio non possiamo prescindere dal contesto in cui si colloca l’estratto da cui prende il nome.

Non è a mio avviso una vera e propria enciclica sociale. Manca ogni riferimento, almeno espresso, alla forma sindacato, al socialismo, al comunismo (quello c.d. reale della Cina o di Cuba, ma anche quello delle utopie anarchiche, marxiste o cristiane). Il mondo chiuso del primo capitolo è piuttosto quello caratterizzato da un modello culturale unico in cui, a ben vedere, rientrano a pieno titolo sia il neoliberismo sia l’economia pianificata; il loro aprirsi al mondo è soltanto, agli occhi di Bergoglio, una libertà di agire senza più vincoli e complicazioni, manipolando e stravolgendo i concetti di giustizia, di democrazia, colonizzando il pianeta per una effimera ricerca di marketing. Le diverse ideologie che elaborano variamente l’interesse nazionale mascherano la perdita del senso sociale, si caratterizzano per una sorta di ossessione nel voler ridurre il costo del lavoro.

Nel 1219 San Francesco percorse la via dei migranti odierni, ma a ritroso; si imbarcò ad Ancona verso l’Egitto, arrivando fortunosamente a Damietta (l’odierna Dimyat), ove era in corso la quinta crociata, conclusasi poi con la conquista della città da parte dei cristiani. Ottenne dal sultano Malik al Kamil (fratello del feroce Saladino, quello delle figurine Liebig) il permesso di predicare, in piena guerra, fatto questo a dir poco straordinario. Il Papa prende lo spunto dalla vicenda storica per dedicare l’enciclica nientemeno che al Grande Imam della moschea di Al Azhar, Ahmed al Tayyeb; la scelta desta un certo stupore per via della clamorosa lite con Ratzinger di cui era stato protagonista il religioso sunnita nel 2011, intimando a Benedetto XVI di non interferire in una vicenda interna egiziana quale doveva ritenersi la persecuzione dei cristiani copti. Il Grande Imam, nominato nel 2010 da Mubarak, non è proprio uno spirito aperto nei confronti delle donne, si abbandona a dichiarazioni antisemite, ma ha anche difeso i palestinesi, sospendendo l’incontro con Mike Pence dopo il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale di Israele. L’intero primo capitolo presenta numerosi elementi contraddittori: accanto alla denuncia vigorosa di un aumento delle ricchezze senza dignità  che producono nuove povertà troviamo un inquietante parallelo fra la violenza delle reti criminali e l’aborto; il fenomeno migratorio, uno sradicamento dettato dalla necessità (la speranza è audace), viene separato da qualsiasi giustificazione nazionalista o razzista, e tuttavia manca qualsiasi accenno alle lotte per l’emancipazione, quasi che la critica all’ideologia consumistica ponga sullo stesso piano, senza distinzione, sfruttati e sfruttatori. Eppure San Francesco, nella sua straordinaria lettera ai reggitori dei popoli, si era espresso in termini ben più duri di quelli che la cattiva maestra torinese aveva rivolto ai poliziotti armati di idrante: considerate che il giorno della morte si avvicina, e quando verrà il giorno della morte tutte le cose che credevano di possedere saranno loro tolte. Per evitare equivoci l’evocazione della morte si accompagnava alla maledizione per i podestà, consoli, magistrati e reggitori di ogni parte del mondo che, assorbiti dalle preoccupazioni mondane, deviavano dai comandamenti di Dio.

San Francesco era rientrato dall’Egitto in gran fretta, preoccupato dalle liti che dividevano l’ordine da lui fondato; la sesta ammonizione si colloca in questa cornice. Bergoglio oggi deve, a sua volta, affrontare una crisi politica che divide il mondo cattolico nordamericano in occasione delle elezioni presidenziali; i voti di questa comunità religiosa, orientata in maggioranza per il sostegno a Trump, rischiano di essere decisivi. Joseph Biden è un cattolico di etnia irlandese; ma pure il nuovo giudice costituzionale, Amy Coney Barret, schierata su posizioni ultraconservatrici, è una cattolica praticante, esponente attiva del movimento carismatico (circa 120 milioni di aderenti nel mondo, il nuovo sale della terra secondo il Papa). Questa enciclica interviene, a mio avviso, con diplomatica consapevolezza: l’abbraccio al Grande Imam è, di fatto, un colpo potente assestato ad un altro cattolico, di origini abruzzesi, Michael Pompeo (e dunque a Donald Trump) in prossimità del voto di novembre. E Biden, prudentemente, non ha forzato i toni nonostante il carattere provocatorio della nomina alla Corte Suprema e nonostante le probabili pesantissime conseguenze connesse allo spostamento degli equilibri all’interno di un Collegio di membri a vita. La parabola del buon samaritano (secondo capitolo) chiarisce la portata del lungo esordio.

Bergoglio, nel terzo capitolo, introduce il concetto di amicizia sociale. Non è la solidarietà cooperativa che trovava le sue radici nell’enciclica di Leone XIII. Le strutture mutualistiche, che diedero vita anche alle prime banche popolari, si basavano sui soci, e i principi di uguaglianza vivevano insieme ad interessi comuni. La Fratelli tutti rompe a ben vedere con questa tradizione mutualistica, cancella la comunanza di scopi quale elemento principe dell’unione. A prescindere (qui sta il punto) dal censo e dalle condizioni materiali conquista centralità il prossimo, l’aiuto diventa un dovere morale che prescinde dall’azione politica o sindacale. Nel quarto capitolo la critica al nazionalismo (incapace ormai di assicurare benessere: altra critica a Trump senza nominarlo) si accompagna alla nostalgica rievocazione dello spirito di buon vicinato che a dire del Pontefice vive ancora in alcuni quartieri. Il quinto capitolo, proprio perché di manifesto politico e non meramente sociale si tratta, affronta il nesso fra liberalismo e populismo, negando che quest’ultimo abbia vita propria. Il popolo, sostiene Bergoglio, non è una categoria logica e tanto meno è una categoria mistica (nell’Argentina di Peron il confine si presenta sottile); è invece una categoria mitica. Il dogma del capitalismo liberale (a maggior ragione di quello liberista) è il mercato, trasformato quasi in un atto di fede irrazionale, una sorta di credo quia absurdum laico e ateo. L’enciclica colloca invece il lavoro e non il mercato al centro della vita sociale; l’essenza del popolo, ciò che lo caratterizza, è il lavoro, inteso come impegno generale, ciascuno per la propria parte, verso il prossimo. Sotto questo aspetto la crisi finanziaria del 2007-8 deve intendersi come occasione mancata. I vescovi del Portogallo, qui elogiati dal Pontefice, hanno affermato che la terra è solo un prestito ricevuto da ogni generazione, che è tenuta a riconsegnarlo alla generazione successiva; non è la comunità interclassista e corporativa della dottrina sociale cattolica ottocentesca e novecentesca, è una comunità che rifiuta l’associazione di soggetti decisi ad ottenere con la lotta una nuova condizione esistenziale.

Confondere questa centralità francescana del lavoro come appoggio alle rivendicazioni e ribellioni delle moltitudini è a mio avviso un errore di lettura e di interpretazione del pensiero papale, uno stravolgimento del messaggio contenuto in questa enciclica. Sono solo i pasdaran del capitalismo finanziarizzato che trasformano in comunismo eversivo una critica e un progetto di ben diversa portata.

L’amicizia sociale è piuttosto un concetto teso a contrastare il relativismo dell’odierna struttura capitalistica dematerializzata; Bergoglio osserva, con frasi convincenti, come il relativismo oggi imperante si concreti in una interpretazione della morale legata solo alla convenienza contingente del momento (sesto capitolo). Vengono accantonate le pur esistenti verità che invece non mutano, che esistevano prima e che esisteranno dopo; non sono oggetto di possibile manipolazione come invece il loro consumo. Di fronte al generale processo di sussunzione che ha introdotto la condizione precaria quale condizione prevalente e messo a valore l’intera esistenza, la critica del relativismo si accompagna all’elogio della gentilezza, ad un appello di taglio religioso di rispetto del prossimo e della natura.

Il mondo è agitato da continui conflitti, i poveri sono sempre di più e sempre più poveri, i ricchi sempre di meno e sempre più ricchi, cresce un senso di insicurezza, ora con progressione geometrica per via del virus. Comprensibile che un Papa cattolico inviti a percorrere la via dell’amicizia solidale e sociale, quale che sia il reddito di ciascuno. Ma la dialettica della storia, con tutto il rispetto che merita un uomo simpatico quale è il Vescovo di Roma, non può prescindere invece dallo scontro fra interessi sociali contrapposti, dalle lotte di liberazione e di emancipazione. E qui i percorsi si separano, non sono necessariamente contrapposti, ma sono certamente almeno paralleli. Certo. Il Pontefice ammette che possono esserci lotte legittime e conflitti che non violano i precetti della religione; ma debbono costantemente accompagnarsi al perdono. Il punto di vista precario è diverso; la difesa dell’interesse materiale coincide con la costruzione di una possibile rivolta per mutare lo stato di cose presente. Non ci può essere amicizia sociale con chi pervicacemente si appropria dei frutti della cooperazione sociale e del comune distruggendo al tempo stesso l’ambiente. Per consegnare alla prossima generazione la terra ricevuta dalla precedente, come chiedono i vescovi del Portogallo, bisogna impedire che venga saccheggiata dai predoni che dominano le piattaforme e le strutture finanziarie.

Nel settimo capitolo dell’enciclica Bergoglio traccia la linea di idee e di comportamenti che caratterizzano il suo pontificato; e qui diventa chiara la portata metasociale di questa Fratelli tutti. Non solo è netta la condanna della pena di morte (paragrafo 263), ma l’ergastolo stesso viene equiparato ad una pena di morte nascosta (paragrafo 268). E per quanto il catechismo consenta, in via almeno teorica, una guerra difensiva, il Papa non usa mezzi termini per rilevare quanto sia difficile oggi ipotizzare una guerragiusta  tanto da concludere con un potente mai più la guerra! Le bombe atomiche americane sganciate sul Giappone e la Shoah sono riunite come esempio di quel che non deve essere dimenticato per impedire che accada nuovamente.

La chiusura (capitolo VIII) rievoca un religioso davvero straordinario, Fratel Carlo di Gesù, al secolo il Visconte Charles de Faucauld (1858-1916), studioso della lingua e delle tradizioni tuareg, morto a Tamanghaset per mano dei predoni che attaccavano il fortino costruito per proteggere la popolazione. Fu certamente un cuore aperto al mondo intero.

 

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