Pubblichiamo la recensione di Alberto Pantaloni al volume di Donato Tagliapietra, “Gli autonomi. L’Autonomia operaia vicentina. Dalla rivolta di Valdagno alla repressione di Thiene – volume V”, recentemente pubblicato per DeriveApprodi, Roma, 2019.

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Se riflettere sul proprio passato equivale a interrogarsi sulla propria identità, se l’importanza della memorialistica sta nel restituirci il vivere soggettivo degli avvenimenti che hanno segnato una comunità, un popolo, una società, allora il V volume sull’Autonomia operaia e le sue declinazioni territoriali, scritto da Donato Tagliapietra, è un utile e bel libro di memorie, perché evidenzia il crescere e il maturare di una generazione dentro le trasformazioni, le crisi, la violenza generale di un Paese e di un territorio, in uno degli snodi fondamentali della nostra storia repubblicana.
Donato Tagliapietra è uno dei tantissimi protagonisti e protagoniste di quella generazione che, lo scrive egli stesso, nella conflittualità sociale di fine anni Sessanta e poi nei Settanta del secolo scorso si è schiarata attivamente, in maniera partigiana, valorizzando «quotidianamente questa appartenenza in tutto il vivere sociale, in tutte le relazioni possibili» (p. 24), politiche, sociali, sentimentali, insomma umane. Egli oggi si occupa di antiquariato, ma soprattutto è stato prima militante nei Collettivi Politici Veneti nella seconda metà degli anni Settanta, e poi, all’inizio degli anni Duemila, animatore del movimento «No Dal Molin contro la presenza della nuova base militare americana a Vicenza.
Basandosi su moltissimi documenti, scritti e fotografici, tratti dagli archivi personali dei militanti (e non solo) e raccolti in una cospicua appendice, ma anche sugli articoli della stampa e su diverse interviste biografiche ai protagonisti e alle protagoniste, l’autore riesce a restituire in modo chiaro e ordinato tempo, spazio e contesto dell’esperienza autonoma vicentina, tanto che ha ragione Elisabetta Michielin, quando nella sua introduzione parla di «buon esempio di ricostruzione storica» (p. 7).
Partiamo dal tempo: il periodo che Tagliapietra ricostruisce è quello che va dall’aprile del 1968 (con le prime azioni operaie di sabotaggio alla Marzotto) al giugno del 1979 e alla morte per suicidio in carcere del giovane Lorenzo Bortoli, militante dei Collettivi politici. Il tempo, si sa, è una dimensione sfuggente, un flusso che di per sé resta difficile da fissare, da “catturare”, però l’autore ci riesce molto bene, fissando i momenti nodali nella nascita, evoluzione e poi repentino declino delle lotte autonome nel vicentino. Se, infatti, la rivolta di Valdagno rappresenta per quel territorio non solo l’inizio della ribellione a una condizione di sfruttamento portata ormai alle estreme conseguenze, ma anche il motorino di avviamento di un processo che in pochi anni avrebbe coinvolto migliaia di giovani operai e operaie, studenti e studentesse mobilitate intorno a un progetto di trasformazione radicale dell’esistente, rivoluzionario, il famoso processo «7 aprile» contro i/le militanti di Potere Operaio e Autonomia Operaia, ma soprattutto le morti di Antonietta Berna, Angelo Del Santo e Alberto Graziani, avvenute l’11 aprile 1979 a seguito dell’esplosione di un ordigno che stavano confezionando in una casa, e poi quella di Lorenzo Bortoli, compagno di Antonietta, nella notte fra il 19 e il 20 giugno del 1979, con tutto lo strascico giudiziario e umano che tutti questi avvenimenti comportarono, rappresentano l’epilogo della storia di quel processo, anche se, come Tagliapietra tiene a precisare con forza nelle conclusioni, la storia di quella ribellione sarebbe andata avanti e, pur con caratteristiche, intensità e rappresentatività molto diverse, è continuata almeno fino alla prima decade di questo secolo (pp. 202-203).
C’è poi lo spazio. Parlare di “vicentino” non può rendere l’idea della complessa morfologia produttiva, economica, sociale di quel territorio e l’autore riesce a ricostruirla in modo chiaro, raccontando l’evolversi delle mobilitazioni operaie, studentesche, politiche di quegli anni. Vicenza ovviamente – e i suoi quartieri popolari – ma poi Valdagno, Marano, Schio, Breganze, Thiene, Montecchio/Alte, Trissino, Lonigo, Zanè, Bassano, Chiuppano, ecc.: quella strana virgola incastonata fra Padova e Trento, dove l’agricoltura aveva lasciato il campo a un’invasione industriale pulviscolare, prettamente tessile, con la ingombrante e odiosa presenza delle “grandi” dinastie tessili come i Marzotto o i Rossi, ma anche legata alla meccanica agricola e alla motoristica (ad esempio la Laverda), alle officine o ai laboratori di prodotti smaltati (Westen), e dove almeno fino alla fine degli anni Settanta si sviluppò una grande quantità di conflitti operai, spesso duri, nelle piccole e medie fabbriche che caratterizzano quel tessuto economico.
Accanto a una morfologia produttiva c’è però anche una geografia politica che ha segnato la crescita di quelle generazione di militanti politici. Il processo di costituzione di Lotta Continua sul territorio (1970) passa dalla Comune di Marano all’apertura della prima sede di Valdagno (che però sarebbe durata poco) e poi di quella di Schio. Fra Thiene e Schio nasce uno dei più importanti organismi di lotta del periodo, il Coordinamento operaio. Il primo Collettivo autonomo viene costituito a Thiene/Chiuppano, verso la metà degli anni Settanta, a seguito del confronto politico iniziato coi Collettivi politici padovani. E poi ancora i collettivi studenteschi che un po’ in tutta la provincia vicentina affiancano in forma militante le lotte operaie, le radio libere e di movimento che nascono fra il ’77 e il ‘78 (Sherwood 3 a Thiene, Centofiori a Valdagno, Popolare a Caldogno, ecc.).  Ma soprattutto c’è una morfologia delle ronde operaie che a partire dal 1978 e per circa un anno e mezzo, muovendosi fra le statali e le provinciali della zona, battono e spesso bloccano le piccole fabbriche sulle questioni dei sabati lavorativi, degli straordinari comandati, della nocività, dei licenziamenti.
Infine, il milieu, fatto dalle relazioni, le esperienze, le progettualità politiche di questa generazione di uomini e donne nata negli anni Cinquanta del secolo scorso in un territorio come quello vicentino, caratterizzato già a partire dalla metà degli anni settanta, da un fortissimo decentramento produttivo e da un altrettanto totale utilizzo degli impianti e sfruttamento della forza lavoro. Si tratta di una generazione altamente scolarizzata, che incontra la politica e le lotte grazie alla generazione dell’operaio massa, ma che ha di fronte a sé l’unica prospettiva di lavorare in una di quelle piccole o medie fabbriche che saturano il territorio, con orari massacranti, straordinari continui, dispotismo aziendale estremo, frequenti rischi di incidenti (anche mortali, come nel caso di Antonino Dal Zotto), nocività. È una generazione che ha conosciuto la lotta col ’68, l’Autunno caldo e i Gruppi della Nuova Sinistra (segnatamente Lotta continua), ma che diventa protagonista proprio grazie a quel contesto di «fabbrica diffusa»in cui categorie come «operaio sociale», «rifiuto del lavoro», «contropotere» e «controllo territoriale» possono essere messe a verifica. I Collettivi politici, i Gruppi sociali, i Comitati e i Coordinamenti operai, i Comitati d’agitazione studenteschi sono la carne e il sangue di un pezzo importante di gioventù che, attraverso lo snodo importante del ’77, mette in campo un progetto politico rivoluzionario tutt’altro che spontaneo o spontaneista, che punta a ricomporre i vari settori sociali (operaio, studentesco, precario) e i luoghi dello scontro sociale (fabbrica, scuola, casa, ecc.) dell’intervento militante nel territorio, anche sul terreno dell’uso della violenza, anche armata, come dimostrano non solo le numerose azioni delle ronde a cui si è accennato in precedenza, ma anche le vere e proprie azioni armate rivendicate attraverso le sigle Organizzazione operaia per il comunismo, Proletari comunisti organizzati e Fronte comunista per il contropotere. Una violenza armata che non significa riduzione alla clandestinità del movimento, né soggettivismo combattentista, e qui la critica al progetto e alle azioni delle Brigate Rosse, ma «illegalità di massa. Quella del calore della comunità e del passamontagna calato» (p. 151).
Leggendo il libro di Donato Tagliapietra, dalla quale si riscontra l’assenza di riferimenti all’eventuale esperienza del movimento femminista nella zona, rimane il dubbio – e questo non è certo colpa dell’autore –  che questa esperienza dell’Autonomia vicentina arrivi forse già fuori tempo massimo, quando le grandi trasformazioni del sistema produttivo italiano sono già irreversibili, dispiegandosi al suo massimo nel biennio ’77-’78 proprio mentre nel resto del Paese i movimenti iniziano a rinculare, lasciando il centro della scena – o per meglio dello scontro – alla violenza repressiva dello Stato e all’escalation delle organizzazioni armate. Si ha come l’impressione, alla fine, che provare ad accettare la sfida della ristrutturazione produttiva di quel capitalismo italiano sia come provare a «svuotare il mare con il cucchiaino», espressione che l’autore usa quando narra i tentativi di inchiesta sul lavoro a domicilio a Vicenza all’inizio del 1979. Un dubbio, e tante domande intorno, che non deve appassionare solo gli storici, ma che ha forti attinenze col presente e col futuro non solo di quel territorio, ma di tutta l’Italia, come giustamente ricorda sempre Michielin nella sua introduzione, quando si chiede come sia stato possibile che le stesse zone che sono state percorse da manifestazioni, scioperi, ronde contro il lavoro comandato, siano oggi i santuari del leghismo (p. 9).  Al tempo stesso, però, la narrazione ci restituisce tutta quella «ricchezza sociale giovanile costruita quotidianamente, fossero i linguaggi musicali, la controcultura, e sostanze psicotrope, i viaggi» quell’amore e quella gioia di rapporti in cui quella generazione ha provato, con entusiasmo, a costruire un orizzonte di vita collettivo, scontrandosi con un sistema economico e politico che «ti espropria l’esistenza» (p. 24).

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