Pubblichiamo la prefazione di Sonia Paone al libro di Francesco Biagi, Henri Lefebvre: una teoria critica dello spazio, Jaca Book, Milano, 2019, uscito da poche settimane. Buona lettura

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Henri Lefebvre è stato un importante intellettuale e prolifico autore, avendo pubblicato nel corso di una lunga vita, che ha attraversato buona parte del Novecento, una sessantina di opere, alcune delle quali possono essere considerate un punto di riferimento per le scienze sociali e per quelle territoriali. In questo ultimo ambito le sue considerazioni e intuizioni sulle trasformazioni dei territori e sul destino delle città sono di grande attualità.

Lefebvre aveva evidenziato la forza distruttrice che accompagnava l’affermazione dell’urbano, ovvero l’avvento di una fase storica in cui la città si sarebbe identificata con la forma complessiva della società. E da qui aveva individuato e preconizzato una serie di fattori di crisi: l’impatto della produzione capitalistica sulla organizzazione dello spazio urbano e la sua conseguente mercificazione, la città diviene un mero oggetto di scambio e di profitto; la progressiva urbanizzazione del mondo intesa come espansione del cosiddetto tessuto urbano, ovvero un processo economico-culturale che avrebbe fatto aumentare la segregazione e la frammentazione urbana e avrebbe assoggettato il rurale, facendo scomparire la campagna, attraverso l’industrializzazione della produzione agricola; il declino della vita rurale tradizionale e la distruzione del suolo e della natura. Oggi ci confrontiamo sostanzialmente con gli esiti di quelle direttrici di sviluppo che Lefebvre aveva tracciato, siamo infatti nell’epoca dell’urbanesimo planetario visto che dagli inizi del nuovo millennio la maggior parte della popolazione mondiale risiede nelle città, ma questo traguardo è coinciso con l’esplosione della marginalità urbana poiché i tassi di urbanizzazione sono cresciuti e continueranno a crescere nei prossimi anni nei paesi poveri. Siamo anche nell’epoca del pieno dispiegamento delle logiche della valorizzazione economica sui territori, sia nel contesto urbano che in quello rurale. Pensiamo ad esempio alle conseguenze della finanziarizzazione del mercato immobiliare: l’estensione dei meccanismi di finanziarizzazione al comparto immobiliare è alla origine delle difficoltà di abitare in molte città, perché si traduce nella impossibilità economica per fasce crescenti di popolazione di accedere sia all’affitto che alla proprietà. Anche in ambito rurale la messa a valore del suolo ha un effetto distruttivo, in quanto produce – per dirla con Saskia Sassen 1 – forme brutali di espulsione dalla terra dei contadini poveri, a causa dell’accaparramento di suoli fertili da parte di stati e multinazionali nei paesi in via di sviluppo, che sfruttano intensivamente la fertilità dei suoli riducendola drasticamente in tempi molto brevi.

E se Lefebvre denunciava il declino del mondo contadino e della vita rurale, oggi si ripropone anche il problema della distruzione delle culture come conseguenza dello sfruttamento del suolo, del sottosuolo e dell’annientamento della natura insite nelle logiche di quello che viene definito capitalismo estrattivista. Mi riferisco tra le altre alla recentissima questione dell’oleodotto Dakota Access Pipeline, un oleodotto lungo quasi duemila chilometri la cui costruzione è stata avviata durante la presidenza di Barack Obama e che dovrebbe servire a portare sotterraneamente il greggio dalla Bakken Formation – una zona al confine tra Montana e North Dakota, due stati al confine con il Canada– fino all’Illinois, attraversando South Dakota e Iowa. Si stima che dalla Bakken Formation si possano estrarre 7,4 miliardi di barili di petrolio e questo ridurrebbe la dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio proveniente da paesi instabili. L’oleodotto attraversa anche il territorio della Riserva di Standing Rock in cui vivono nativi americani Sioux e sono stati proprio loro a dar vita nel 2016 ad una protesta sociale collettiva che è arrivata a Washington, ma anche a New York. I manifestanti evidenziavano gli effetti negativi di questa opera soprattutto il pericolo di contaminazione delle acque del Missouri, importantissima fonte idrica della riserva. In questo caso vista la importanza che le risorse naturali hanno nella possibilità di esistenza e sussistenza delle comunità Sioux e considerando che il rispetto della Natura è insito nella cosmologia di questi popoli è evidente il conflitto che si viene a generare nel momento in cui la valorizzazione fagocita natura e cultura. Ancor più recenti sono poi le dichiarazioni del nuovo presidente del Brasile Jair Bolsonaro che giura guerra alle foreste dell’Amazzonia e agli Indios che le abitano e le difendono dalle speculazioni delle monoculture intensive.

Basterebbero solo questi pochi riferimenti per evidenziare il rilievo che le opere di Lefebvre hanno per lo studio delle questioni territoriali. Invece è un autore il cui corpus intellettuale è stato a lungo dimenticato, innanzitutto in Francia come ricorda Laurence Costes, in un articolo dedicato alla eredità politica e scientifica di uno dei lavori più conosciuti Il diritto alla città 2. Nonostante Lefebvre abbia contribuito alla creazione dei primi corsi di sociologia urbana all’Istituto di Sociologia di Strasburgo e poi sia stato fra i fondatori dell’importante rivista Espaces et sociétés, in Francia i riferimenti ai suoi lavori sono quasi spariti a partire dagli anni Ottanta e molti suoi scritti non sono stati riediti e sono quindi di difficile reperibilità. Anche in Italia, Lefebvre non ha avuto miglior sorte, limitandoci ai lavori territoriali solo da pochi anni rispettivamente nel 2014 e nel 2018 sono stati nuovamente editi da Ombre Corte, Il diritto alla città e Spazio e politica (quest’ultimo con un’ampia prefazione dello stesso Francesco Biagi) e dalla casa editrice Pgreco, La produzione dello spazio. Tutto ciò sull’onda della ripresa del concetto del diritto alla città da parte di autori come David Harvey, che ha rilanciato il dibattito sui diritti nelle città nel discorso politico contemporaneo legandolo alla questione dei beni comuni 3.

Altri lavori pubblicati nel passato sono da anni fuori commercio e molti altri mai giunti al pubblico italiano in traduzione. Personalmente ho incrociato il pensiero di Lefebvre quando mi sono occupata della storia delle architetture penitenziarie, e più nello specifico della stagione della deistituzionalizzazione. Il dibattito sul superamento delle istituzioni totali iniziato in ambito psichiatrico dal lavoro di Franco Basaglia e Franca Ongaro fu recepito anche nel chiuso dell’universo carcerario grazie alla riforma dell’ordinamento penitenziario nel 1975 e alla successiva legge Gozzini del 1986. E in quegli anni la proiezione verso la città dei mondi chiusi e totali come erano gli istituti penitenziari assumeva non solo il senso di una denuncia, ma anche l’idea di una presa in cura del disagio da parte del mondo esterno come elemento fondamentale per il reinserimento e la risocializzazione dei detenuti. In questo senso il diritto alla città, inteso come rimozione delle barriere che separavano l’individuo chiuso nell’istituzione dalla città che è ‘vita aperta e collettiva’ diventava un orizzonte di senso a partire dal quale disegnare lo spazio carcere e i rapporti fra carcere e città.

Erano quegli anni in cui ancora la riflessione architettonica aveva un forte contenuto pubblico e sociale e non a caso gli scritti di Lefebvre nel dibattito architettonico per tutti gli anni Settanta e buona parte degli Ottanta hanno avuto una buona diffusione anche nel nostro paese 4. Ma proprio nel decennio successivo in cui forti trasformazioni investono lo spazio urbano con la crisi del modello fordista, il progressivo affermarsi di politiche neoliberali, gli effetti della globalizzazione sulle economie urbane, l’inizio di una crescita vertiginosa dei tassi di urbanizzazione nei paesi poveri e del conseguente spaventoso aumento della marginalità su base spaziale, si ha una eclissi del pensiero lefebvriano.

Nell’articolo sopra citato Laurence Costes individua tre cause che secondo il suo punto di vista hanno contribuito alla messa in ombra del lavoro dell’intellettuale francese. Innanzitutto ritiene che le riflessioni teoriche di Lefebvre sono state considerate una testimonianza di una epoca ormai lontana in cui ci si impegnava a comprendere il mondo per trasformarlo. Un secondo elemento è il minor interesse nelle scienze sociali per le prospettive marxiste, in cui è possibile collocare l’autore. Infine nella opinione della sociologa francese Lefebvre è stato protagonista di una vocazione militante e critica che poco si ritrova oggi nella sociologia contemporanea. In queste considerazioni c’è del vero, alla fine degli anni Ottanta l’urbano stava esplodendo con tutte le sue contraddizioni: l’urbanizzazione dei paesi poveri che moltiplicava le metropoli marginali, la globalizzazione che avrebbe favorito un processo di dualizzazione della struttura sociale e spaziale soprattutto delle grandi città, nelle quali si sarebbe venuta a creare una opposizione binaria fra ricchi e poveri, fra beneficiari e vittime dell’esplosione dell’avanzare del terziario avanzato e della successiva finanziarizzazione dell’economia, tuttavia ciò avveniva in un contesto di forte crisi di un discorso pubblico sulla città.

Le politiche di governo urbano si stavano orientando verso forme di imprenditorialismo con l’obiettivo di creare le condizioni favorevoli per attrarre capitali, imprese, turisti e investimenti, tutto ciò a detrimento delle politiche di redistribuzione, che avevano invece caratterizzato la crescita delle città in epoca fordista. La pianificazione tradizionale lasciava il posto a forme più o meno spinte di concertazione in cui il ruolo dei privati diveniva sempre più centrale, si andavano affermando retoriche di successo di cui non ci siamo ancora liberati come quella della città creativa e più di recente della smart city. È chiaro allora che un pensatore critico e dell’impegno come è stato Lefevbre è apparso per tanto tempo fuori moda e controcorrente rispetto all’ottimismo con cui spesso in ambito politico e scientifico si sono salutate nei decenni passati molte delle trasformazioni delle città.

Il recente riemergere di alcune tematiche lefebvriane come quella del diritto alla città, attraverso il quale il filosofo francese si interrogava sul destino di tutti quei soggetti che le trasformazioni dell’urbano ponevano in una condizione precaria ai margini del mercato e dei consumi, non è privo di elementi contraddittori. 5

Se da un lato il ‘ritorno del diritto alla città’ assume in molti contesti, come quello dei nuovi movimenti urbani, il senso di una forte critica e opposizione alle politiche urbane che favoriscono la crescita delle disuguaglianze e la diminuzione di opportunità per molti, nello stesso tempo oggi non c’è forum istituzionale, documento ufficiale, più o meno paludato convegno di studi urbani in cui non compare il riferimento al diritto alla città, che finisce con il diventare uno slogan privo di qualsiasi contenuto politico e critico.

Allora in questo gioco di eclissi, parziale riapparizione e fraintendimento del pensiero del filosofo francese, il lavoro di scavo che Francesco Biagi ha compiuto nell’opera di un autore complesso e a volte ostico, anche per uno stile di scrittura non sempre lineare, è meritorio. Il libro è infatti un viaggio nella costellazione del pensiero di Lefebvre che inizia in maniera molto pertinente ripercorrendo la biografia intellettuale dell’autore, le influenze e le prese di distanza, gli incontri e gli scontri con altrettanti importanti protagonisti del Novecento. Prosegue poi con una puntuale genealogia del lessico lefebvriano in cui l’analisi dell’urbano è fortemente saldata a quella del rurale, con la presentazione di quella che può essere considerata una teoria politica dello spazio e si conclude con la ricostruzione del dibattito che ha accompagnato il riemergere del diritto alla città e il significato che questo assume nell’epoca neoliberale.

Il testo, corredato da un prezioso apparato di note e da una robusta e utile bibliografia, riesce a delineare in maniera chiara e convincente il posto che spetta a Lefebvre nella storia della sociologia urbana e rurale del Novecento, nello stesso tempo si coglie un invito al recupero di una postura intellettuale, di uno sguardo capace di andare ai margini visto che oggi i dispositivi spaziali di mise à l’écart si stanno moltiplicando e stanno divenendo sempre più brutali.

NOTE

1 S. Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nella economia globale, Il Mulino, Bologna 2015.

2 L. Costes, «Le Droit à la ville de Henri Lefebvre: quel héritage politique et scientifique ? », Espaces et sociétés 2010/1 (n° 140-141), p. 177-191.

3 Cfr. D. Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, Il Saggiatore, Milano 2013; D. Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città. Neoliberismo, urbanizzazione, resistenze, Ombre Corte, Verona 2012.

4 Ricordiamo che fu un personaggio anticonformista e di grande impegno sociale come Giancarlo De Carlo a dirigere dal 1978 la rivista Spazio e società, rivista che nacque come traduzione della rivista diretta da Lefebvre e che poi proprio con De Carlo inizia a pubblicare contenuti originali.

5 Sul ritorno di Lefebvre nel dibattito urbano si veda A. Petrillo, La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città, FrancoAngeli, Milano 2018.

 

Immagine in apertura: Gabriele Basilico, Valencia, 2010