Non sono sicuro che la contingenza storico-politica abbia mai la forza di indicare linee generali e astratte circa lo sviluppo o la tenuta di un intero campo di studi, ma è certo che si tratti comunque di una dimensione da tenere in considerazione per ogni riflessione interna a quello stesso campo, così come per ogni sua critica immanente. Compressa tra il bisogno di difendersi dalle offensive neofondamentaliste no-gender, da un lato, e l’urgenza di articolare una critica nei confronti dei dispositivi neoliberisti di sussunzione dei corpi e dei generi, dall’altro, sembra quasi che la riflessione e la critica di genere abbiano momentaneamente perso di vista, o forse solo momentaneamente messo in secondo piano, il loro obiettivo epistemico e politico: l’analisi e la sovversione delle norme dalle quali dipende l’allocazione differenziale dei privilegi e dei costi – ossia di quelle norme che governano la produzione delle differenze in modi che sono indisgiungibili dalla produzione, e dalla riproduzione costante, delle diseguaglianze.

D’altra parte, che la difesa dal neofondamentalismo e la critica del neoliberismo sortiscano l’effetto perverso di far sottovalutare, a molte persone, quanto queste norme siano invece vive e attive, potrebbe forse rivelarsi utile proprio a rileggere sotto un’altra luce il senso sia dell’odierna offensiva neofondamentalista, sia delle più ampie strategie di inclusione differenziale al servizio delle odierne forme di accumulazione. L’atteggiamento dominante, infatti, sembra quasi quello di una convergenza verso la conclusione che la nuova ragione del mondo neoliberale, per il fatto di «mettere tutti indistintamente al lavoro e a valore», abbia di fatto sovvertito le asimmetrie strutturali di genere, sessuali o razziali, e che i «neofondamentalisti» – insieme ai vari gruppi ipostatizzati degli «omofobi», i «misogini», i «razzisti» – siano in fondo gli unici a rimpiangerle, o a riprodurle.

Se fosse possibile approdare a questa rapida, e in fondo comoda, conclusione non avrebbe forse alcun senso leggere uno dei libri più preziosi dati alle stampe in questa prima metà dell’anno, Bianchezza e mascolinità in Brasile, dell’antropologa femminista Valeria Ribeiro Corossacz. Si tratta di una ricerca etnografica e qualitativa condotta a partire dai racconti autobiografici di un gruppo di uomini bianchi, di mezza età, benestanti, prevalentemente eterosessuali, in Brasile; racconti attorno ai quali la studiosa riflette, testa gli strumenti teorici di Colette Guillaumin, di Eve K. Sedgwick, di Ruth Frankenberg, posiziona se stessa e le sue reazioni, restituendoci con estrema complessità e con estrema efficacia alcuni elementi per la comprensione di cosa significhi diventare maschi, bianchi ed eterosessuali. E, mi sembra di poter dire, non solo in Brasile. Si tratta di un libro che ha pertanto il pregio di distogliere lo sguardo dagli effetti che le norme di genere e razziali producono, entrambe innervate dai differenziali di classe, per volgerlo alle modalità attraverso le quali quelle stesse norme si ri-producono e, ancora prima, attraverso le quali il «soggetto dominante» le incorpora divenendo esso stesso il perno della riproduzione delle discriminazioni sociali – e, dunque, di volgere lo sguardo dal carattere esiziale della produzione degli effetti ai modi attraverso i quali si irrobustisce il privilegio da cui quegli effetti invariabilmente dipendono.

Se parlo di irrobustimento non è solo per intendere un privilegio che poi conferisce struttura «oggettiva» all’egemonia, a quella combinazione di coercizione e di consenso, ma proprio per riferirmi alla sua incarnazione soggettiva in seno a quella stessa struttura oggettiva – un imperativo fantasmatico, eppure materiale, in relazione al quale soggettivarsi, in base al quale modellare il corpo, il tono della voce, la gestualità, l’apertura o la chiusura nei riguardi degli altri. Si tratta di un irrobustimento che presuppone un «allenamento» fatto di gesti ripetuti e naturalizzati, di battute scherzose, e di silenzi soprattutto.

La dimensione del silenzio è paradossalmente centrale in questi racconti maschili, ed è forse la più eloquente, ma anche la più difficile da decifrare, quella per cui l’esortazione di Foucault a non operare «una distinzione binaria fra quel che si dice e quel che non si dice» ma, piuttosto, a «determinare le maniere diverse di non dire» (La volontà di sapere), ci consegna tutt’oggi il compito più difficile. Il silenzio sulla bianchezza, innanzitutto, non meno che il silenzio sulla mascolinità e sull’eterosessualità, quel «doppio movimento per cui non si parla della bianchezza in sé, ma si sa di essere parte di questa condizione che è percepita come del tutto normale, che qui significa naturale». Non a caso, riporta Ribeiro Corossacz, le risposte alle domande più esplicite sulla bianchezza divengono spesso un pretesto per parlare del razzismo, della condizione esperita dagli altri, dai non-bianchi, e non già per parlare di cosa significhi diventare soggetti privilegiati, e dunque di cosa significhi occupare la posizione del privilegio in seno a una società razzista che colloca quegli «altri» in una posizione di svantaggio. Questo si riscontra anche nei casi in cui la studiosa esorta gli intervistati a trovare le parole per dire la propria mascolinità: «alcuni hanno fatto chiaramente capire di non essere disponibili a parlare di questi argomenti», «altri si sono vantati delle loro prestazioni sessuali», «altri hanno fatto qualche battuta allusiva».

Consiste in questo doppio movimento l’allenamento al ruolo dell’oppressore: nella consapevolezza di occupare una posizione dominante sulla quale, tuttavia, non c’è nulla da dire, e forse nemmeno nessun margine d’azione. Il problema, per alcuni intervistati, è che non dovrebbero esistere cose come il razzismo, come il sessismo o come l’omofobia; ma tra questi fenomeni e il proprio tacito ruolo non viene scorto alcun nesso. Si tratta di un ruolo che non dev’essere inteso in senso strettamente individuale, come animato da una volontà di opprimere; eppure, questa oppressione è istituita proprio grazie alle tecniche di riproduzione di quel ruolo, individuale e allo stesso tempo comune a una classe di soggetti, «una posizione sociale che strutturalmente permette ai soggetti che la occupano di trarre dei vantaggi dall’oppressione generale di altri gruppi (neri, “froci”, donne)».
E nei racconti riportati nel libro, le donne sono innanzitutto quelle non-bianche e povere, le empregadas, le domestiche, con le quali avviene un’iniziazione all’eterosessualità mai pienamente distinguibile da uno stupro. Un’iniziazione restituita, a volte balbettata, come intrisa di «rapporti di potere percepiti come qualcosa di inevitabile, già dato nell’ordine delle cose, in cui essi, pur essendo soggetti attivi della violenza sono passivi di fronte alla possibilità di opporsi ad essa».

L’attività e la passività appaiono dunque quali posture che fanno capo allo stesso ruolo: quello di chi espunge la propria passività proiettandola sull’altro abietto, ma che tuttavia la sfrutta, per irrobustire il proprio privilegio, quando si tratta dell’impotenza di opporsi agli effetti che quel privilegio sortisce sulla vita degli altri. In fondo, questo libro non fa che ricordarci il ruolo degli studi sul genere e sulla razza nella descrizione del potere: il potere della definizione dell’Altro come parte del silenzio su di sé del soggetto dominante; il potere di imporre a questo Altro una concezione del mondo; il potere di stabilire in quali termini, e fino a che punto, questo Altro possa contestarla. E questa, a ben vedere, non è che l’unica descrizione del potere che consente alle soggettivazioni possibili, in seno a quello stesso potere, di ampliare criticamente lo scarto, a proprio favore, tra la coercizione e il consenso. Nelle metropoli brasiliane come altrove.

Recensione al libro di Valeria Ribeiro Corossacz Bianchezza e mascolinità in Brasile. Etnografia di un soggetto dominante, Mimesis, 2016, 158 pp., € 14. Tratta da Alfabeta2

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