Continuiamo l’avvicinamento effimero allo sciopero per il clima del 27 settembre prossimo con il commento di Luigi Pellizzoni all’intervista di Gennaro Avallone a Jason Moore (qui la prima e la seconda parte).

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In questa intervista Jason Moore illustra innanzitutto le fonti ispiratrici dell’approccio dell’ecologia-mondo, citando da un lato Foster e Burkett per i loro lavori su Marx e la relazione metabolica del capitalismo con la natura, dall’altro Wallerstein per la prospettiva storica sullo sviluppo del capitalismo e l’attenzione alle “strutture cognitive” della modernità. L’ecologia-mondo, sottolinea Moore, non si propone come “la” lettura corretta del pensiero marxiano. Essa intende piuttosto far dialogare la critica marxista con altre prospettive, come quella ecologista, femminista e post-coloniale. Un allargamento prospettico, va ricordato, che è oggetto di critiche da parte di chi, come Alf Hornborg e lo stesso Foster, rimprovera a Moore (e ad autori come Neil Smith e Noel Castree) un allontanamento dall’ortodossia marxista in direzione di un “decentramento” post-strutturalista dell’agency umana il cui esito, si sostiene, non può essere che un indebolimento della critica dei rapporti (sociali) di dominio.

Nell’intervista, tuttavia, Moore illustra bene i punti di forza del suo approccio, la cui linea argomentativa mi pare di poter riassumere come segue.

a) La storia sociale non può essere disgiunta dalla storia naturale; ciò comporta la necessità di superare la dottrina delle “due culture”, la separazione tra scienze sociali e scienze naturali.

b) L’estrazione capitalista di valore si fonda su un certo modo di pensare e agire il mondo, a sua volta fondato sulla contrapposizione ontologica tra Civilizzazione e Natura. La messa in campo di queste due “astrazioni reali” (cui si collegano numerose altre: mente/corpo, maschio/femmina, civile/selvaggio, lavoro valutabile/senza valore ecc.) consente di scomporre e riassemblare le relazioni socio-ecologiche secondo le opportunità di volta in volta fornite dalle capacità tecniche e le circostanze storiche.

c) Momento fondamentale del capitalismo è quello inaugurale – il lungo sedicesimo secolo, come lo chiama Moore – perché è lì che si definisce il dispositivo pratico-cognitivo che, creando una frontiera tra umano e naturale, produttivo e riproduttivo, rende disponibile lavoro “a buon mercato”, innescando un processo accumulativo che si rinnova ogniqualvolta l’esaurimento della disponibilità di tale lavoro pone la necessità di spostare la frontiera per acquisire nuova “materia grezza” da valorizzare.

d) La ragione per cui l’attuale crisi capitalista non assomiglia ad alcuna delle precedenti è che la strategia di esternalizzazione/appropriazione del “naturale” non funziona più: cambiamento climatico e esaurimento delle risorse trasformano la frontiera mobile con la natura in limite all’estrazione di valore. Al plusvalore si sostituisce “valore negativo”, come dimostra il fatto che oggi i disastri ecologici non fungono più, o sempre meno, da moltiplicatore del PIL.

Mediante i passaggi sopra riassunti Moore offre una lettura a mio avviso convincente di come il capitalismo sia riuscito – letteralmente – a permeare di sé l’intero pianeta. Vedo tuttavia in tale lettura un difetto non trascurabile, che mi pare risiedere in quella che potremmo chiamare la prospettiva continuista di Moore: il fatto, cioè, che del capitalismo viene evidenziata l’invarianza piuttosto che il trasformismo, carattere su cui altri (da Arrighi a Negri e Virno) si sono viceversa soffermati. Un’invarianza c’è sicuramente: la perenne tensione all’estrazione di valore tramite scomposizione e riassemblaggio del reale. Si tratta però di vedere se il modo in cui ciò oggi avviene è identico al passato, perché questo ha conseguenze importanti sulla critica.

Quello che in sostanza Moore ci dice è che il capitalismo o è dualista o, semplicemente, non è. Non a caso il contrasto con Foster verte sul carattere ontologico piuttosto che ontico della divisione tra società e natura: il fatto cioè che, per Moore, tale divisione non ha nulla di concreto ma è una fantasmagoria, un dispositivo ideologico, una falsa coscienza da cui deriva anche l’idea di frattura metabolica, cara a Foster. Falsa coscienza che oggi viene smascherata, per così dire, dalla natura stessa, nello momento in cui essa si incarica di liquidare il miraggio di una accumulazione infinita.

Ma le cose stanno davvero così? Ed è vero che il superamento dei dualismi nel riconoscimento di un’interdipendenza vitale che tutto abbraccia e connette ha una valenza necessariamente emancipativa dai rapporti capitalistici e le connesse relazioni di dominio socio-ecologico? Nel sostenerlo Moore è certo in buona compagnia. Le pur variegate espressioni dei “nuovi materialismi” che hanno preso piede un po’ ovunque, dalla sociologia alle humanities, dai science and technology studies alle filosofie femministe, gli studi post-coloniali e il marxismo dell’Autonomia post-operaista, convergono in effetti in larghissima misura su questo assunto. Qualche voce, tra cui mi permetto di includere anche la mia, ha tuttavia iniziato a obiettare che le cose sono un po’ meno semplici. Le tracce di una strategia capitalista sempre più risolutamente non-dualista non sono in effetti difficili da cogliere, se solo le si vuole vedere. Basta pensare alla Weltanschauung dell’Antropocene, secondo cui – nelle parole dell’inventore del termine, Paul Crutzen – siamo noi a decidere cos’è e cosa sarà la natura; una narrazione di cui appaiono con sempre maggiore evidenza le implicazioni depoliticizzanti e legittimanti un’intensificazione estrattiva e una deriva securitaria senza precedenti, ossia conseguenze di segno opposto rispetto alla propensione all’umiltà, il rispetto, la convivialità e la cura del mondo che molti sembrano dare per scontata una volta che sia riconosciuta la comune appartenenza al web of life. Più nello specifico, basta pensare alla regolazione delle biotecnologie, dove l’indistinzione tra materia e informazione è presupposto, piuttosto che ostacolo, alla valorizzazione, o agli approcci geoingegneristici al riscaldamento globale, dove la distinzione tra turbolenze atmosferiche “naturali”, di origine antropica ma involontarie, o deliberatamente indotte è programmaticamente superata, e con essa la tradizionale concezione del rapporto azione-conseguenza e le risultanti attribuzioni di responsabilità. Ancora, basta pensare ai mercati in costante espansione del “lavoro clinico” (cellule staminali, maternità surrogata ecc.) o dei “servizi ecosistemici” (non solo risorse “grezze” ma anche funzioni regolative e di supporto, dall’impollinazione alla decomposizione dei rifiuti o l’assorbimento dell’anidride carbonica) forniti “spontaneamente” dalla natura ma oggetto di diritti proprietari e conseguenti scambi di mercato, dove la distinzione tra lavoro produttivo e riproduttivo, gratuito e pagato si confonde sempre più, incrementando, anziché contrastare, l’estrazione capitalista del valore.

Questi esempi mostrano che l’idea di un’ormai completa “produzione sociale” della natura (Neil Smith) non va letta come asserzione (storico-)ontologica – per Moore, come per Foster, inaccettabile in quanto tale – ma come “problematizzazione” (Foucault), modo sempre più egemone di intendere la realtà, non a caso condiviso da posizioni politicamente agli antipodi quali l’ecomodernismo neoliberale e l’accelerazionismo post-marxista.

Moore ha insomma compiuto un’operazione preziosa nel puntare l’attenzione sul dispositivo pratico-cognitivo che, lavorando sulle relazioni socio-ecologiche (piuttosto che unicamente sociali), ha portato al dominio planetario del capitalismo. Nel sostenere il necessario dualismo ontologico della macchina estrattiva capitalista, tuttavia, Moore si preclude la possibilità di interrogare a fondo le trasformazioni in corso e i loro esiti possibili. La domanda cruciale è se i rendimenti decrescenti dell’innovazione che la finanziarizzazione riesce sempre meno a mascherare siano un dato temporaneo o duraturo, e se l’ostinazione (obbligata) del capitalismo a rifiutare la seconda ipotesi stia ponendo le basi per un collasso drammatico. La risposta a questa domanda non può essere sviluppata adeguatamente se non si dà conto dell’odierna strategia capitalista di rimozione della frontiera, o meglio della sua completa internalizzazione. Da questo punto di vista non è forse un caso che Bruno Latour, sempre pronto a fiutare il vento che cambia, stia facendo una poderosa retromarcia rispetto alla flat ontology di un tempo (sulla strategia argomentativa e gli obiettivi politici di tale retromarcia non è questa la sede per soffermarsi).

Se l’ecologia-mondo vuole cimentarsi – per dirla con Foucault – in una efficace ontologia del presente, occorre dunque, a mio avviso, abbandonare troppo facili equazioni tra dualismo e dominazione da un lato e non-dualismo e emancipazione dell’altro, per chiedersi se e quale riformulazione del rapporto tra società e natura possa dare nuova linfa alla critica in direzione di una definitiva archiviazione dell’esperienza storica del capitalismo.

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