Nel corso dello scorso anno a Bologna si è svolto un ciclo di seminari dal titolo divenire-donna organizzato da Ubi Minor – un laboratorio di didattica e ricerca in ecosofia, gestito da Gianluca De Fazio e Paulo Fernando Lévano. Il testo di che segue è la trascrizione (per cui ringraziamo Irene Sorrentino) dell’intervento di Tiziana Villani del 9 febbraio 2018. 

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Mi interessa soprattutto chiarire un quadro di ricerca possibile, in quanto il rapporto tra il divenire-donna e l’ecologia non è affatto scontato, ancor più quello con l’ecosofia. Sono molto contenta di essere qui proprio per questo motivo: scontiamo in questo momento, infatti, una decontestualizzazione costante del tema e dei concetti, connessi con l’ecologia politica e con l’ecosofia, disciplina questa sempre più diffusa e tuttavia sempre più indebolita.

L’ecologia corre il rischio di diventare un po’ quel che Deleuze avrebbe chiamato mot d’ordre, ovvero una parola prescrittiva, un passe-partout, una parola che in realtà spesso ha dietro percorsi molto diversi tra loro. Per questo motivo, credo che partire dal divenire-donna sia stata un’ottima intuizione, anche per chiarire alcuni malintesi causati da alcune letture un po’ rapide e approssimative. Quel che mi propongo in questo intervento è di offrire dapprima un quadro generale della prospettiva, per poi passare ai riferimenti che ho intenzione di proporre e che affronteremo: mi sembra questo il modo migliore per lavorare insieme.

Il primo riferimento, ovviamente, è a Deleuze e Guattari, ma non solo a Mille piani. In particolare, vorrei ricordare il testo Kafka. Per una letteratura minore, dove il concetto di minorità appare ben affrontato fin da subito e rimanda alla rottura della logica binaria. Ricordo che il Kafka è del 1975 e che in qualche modo presuppone il lavoro di Deleuze fatto sul personaggio di Alice in Logica del senso, testo del 1969. Il terzo movimento è certamente costituito dall’importante testo Mille piani del 1980. Queste tappe sono importanti perché si coniugano con delle trasformazioni della filosofia e del pensiero critico, non solo francese, nel periodo in cui va in crisi l’eredità dialettica e post-hegeliana. Inoltre, va in crisi in Francia una lettura di Nietzsche che a questa eredità si ispira. In questo modo irrompe il nuovo e variegato fronte di intellettuali: Foucault, Deleuze, Guattari e, a suo modo, anche Derrida.

Questo quadro di riferimento, che sembra specificamente francese, ha dietro un importante convegno tenutosi a Cerisy la Salle nel luglio 1972, un luogo rituale di incontro in Francia per fare il punto sulle letture, le analisi e gli apporti di un particolare intellettuale, che in quel caso fu Nietzsche. A quell’incontro, solo per menzionare i nomi a me più cari, parteciparono Deleuze, naturalmente, ma anche personaggi come Klossowski, pensatore eretico – non sono mai riuscita a capire perché sia rimasto un po’ in ombra e ai margini, non solo qui in Italia, ma anche in Francia. Occorre menzionare anche la presenza di un intellettuale come René Schérer, amico di Deleuze, del quale la casa editrice Eterotopia France/Rhizome ha da poco proposto in Francia un testo dedicato a Rousseau.

Tutto questo per dire che cosa? Che è da Nietzsche che occorre partire, passando attraverso i testi citati di Deleuze, per arrivare a un dibattito più contemporaneo sui temi affrontati in parte da Rosi Braidotti, ma soprattutto da Donna Haraway; per riprendere, infine, una femminista italiana, anche questa rimasta a lungo nel dimenticatoio, Carla Lonzi. Occorre chiarire da subito che la lettura del divenire-donna non ha molto a che vedere con una lettura strettamente femminista. Piuttosto, essa ha a che vedere con il divenire, con le varie intensità dei molti divenire possibili individuati da Deleuze e Guattari che qui ripeto – scusate se sono noiosa su questo: divenire-donna, bambino, animale, inorganico, etc.

Che cosa ha allora questo concetto di così rilevante? Intanto occorre sottolineare che il divenire si muove, ed è mosso da una forza che è quella del desiderio – nella concezione di desiderio di Deleuze e Guattari, secondo la quale il desiderio non è ciò che compensa una mancanza, ma è una forza che agisce su dei concatenamenti. Bene: come agisce questo desiderio? Perché rompe con la logica binaria (dunque anche quella “uomo-donna”, cioè quella di genere)? Lo fa perché spinge verso il molteplice: in ciò consiste la grande apertura di questo piano di pensiero.

Indico questa prima questione per dire che nel divenire molteplice si pone da subito, concettualmente e filosoficamente, un problema che è quello della destrutturazione del soggetto, o meglio, usando un termine deleuziano, la desoggettivazione. Questo movimento di desoggettivazione non è un movimento di frantumazione, non è un movimento di perdita; invece, è un movimento che indica le modalità di produrre intensità diverse in un campo, di produrre movimenti diversi in un tempo che, per i nostri autori, è comunque il presente. Troviamo qui una differente concezione del tempo non più “cronologica” e lineare, perché l’Aïon indicato da Deleuze e Guattari si divide all’infinito. Ecco perché ha a che vedere con il molteplice e con un’anti-cronologia.

Questi accenni solo a titolo di introduzione. Dopodiché è vero che il pensiero femminista, soprattutto quello classico, non comprese benissimo l’enunciazione di questo divenire-donna: venne sentito come un classico atto di cultura patriarcale, che indicava alle donne l’ennesima trasformazione di se stesse; venne sentito, quindi, come un nuovo atto di chiamata ad un processo di subordinazione.

Negli ultimi anni questo tipo di approccio è stato smontato – direi grazie soprattutto a Judith Butler per un verso, a Rosi Braidotti per un altro, e a mio avviso, forse perché mi è più cara, a Donna Haraway. Si è entrati più nel merito dell’apparato concettuale che Deleuze e Guattari proponevano, se ne è colta l’interrogazione: che cosa significa «disfare il genere», per dirlo con le nostre amiche, ossia desoggettivare la creazione culturale del genere? Quando Deleuze e Guattari affermano che «anche le donne dovranno imparare a divenire donne» intendono dire proprio questo: occorre decostruire la stretta appartenenza di genere costruita nell’ambito di creazioni sociopolitiche, storiche, ecc.

Perché è importante, però, proprio il divenire-donna? Perché ha a che vedere con la minorità. Questo è il punto focale, credo, rispetto ai testi che abbiamo richiamato all’inizio – lo ripeto KafkaLogica del senso, e poi Mille piani. Fra le espressioni più belle del lavoro di Deleuze e Guattari c’è quella dell’annuncio di questa razza bastarda, minoritaria, anarchica, ribelle, nomade che irrompe contro le strutture omologanti, strutture-uomo che si affermano come figure del dominio. Ora, per comprendere questo noi abbiamo a che vedere con una distinzione sempre necessaria – e che è sempre bene fare – tra minoritario, minore e minoranza. Perché è chiaro che anche qui ci troviamo di fronte ad un rischio, un gap possibile, e cioè che questa idea di minorità, di divenire-minoritario possa essere intesa come un chiamarsi ai margini, come esclusione ed emarginazione: ma così non è.

Richiamo una bella immagine offerta da Guattari: l’essere minoritario, come quello delle mute, lavora ai margini. Qual è questo interesse del lavorare ai margini delle mute? È il fatto che le mute non puntano alla ricostruzione gerarchica di un centro di potere. Le mute si muovono in modo rizomatico, un altro elemento che ci aiuta a capire come si muove questo divenire-minoritario, a che cosa aspira, cosa desidera, cosa può trasformare: trasforma le relazioni nelle loro intensità e non vuole, non desidera, costituire nuove gerarchie. Quindi il divenire-minoritario è in realtà un progetto tutto politico, che ha a che vedere però con la dimensione creativa, con quell’atto di creazione a più riprese evocato da Deleuze quando ci suggerisce che creare significa “creare quello che manca”. Il “popolo manca”, manca l’ “atto di creazione”, ma appunto si crea ciò che manca, non ciò che già è, già dato, ciò a cui occorre adeguarsi.

A questo punto, torno a ricordarvi che, sempre in Logica del senso, il soggetto viene definito come soggetto larvale, ossia soggetto ad uno stato embrionale, in potenza. Non c’è più un “io” che si posiziona al centro, che sia io-donna, uomo, cane, ciò che volete. C’è un soggetto larvale che ha a che fare con delle possibili articolazioni, con dei virtuali. Ora, siccome il termine virtuale lo richiameremo parecchio, soprattutto per Haraway, chiarisco che per Deleuze questo termine ha altro significato, indica ciò che è in potenza. Si connette al problema dell’evento, di ciò che può, e non si tratta dunque della “realtà virtuale”.

Ora dico in che modo voglio affrontare, attraverso le figure che ho evocato, questa specie di circuito molto contaminato che è il divenire-donna. Come anticipato, faccio partire questo circuito da Nietzsche, con una piccola citazione ripresa dai Ditirambi di Dioniso, dove possiamo leggere: «Sii saggia, Arianna! Hai piccole orecchie, hai le mie orecchie. Metti là dentro una saggia parola. Non ci si deve prima odiare se ci si vuole amare? Io sono il tuo labirinto». Ho trovato dei rimandi al nostro tema percorrendo a vario titolo questi frammenti di Nietzsche e soprattutto la Genealogia della Morale. Intanto, perché in Nietzsche la logica binaria è subito spazzata via. In secondo luogo, perché questo rimando ad Arianna, al suo labirinto, al rizoma – se volessimo leggerlo così – ha dietro il rimando alla sua ombra, ovvero, al Minotauro, a quel divenire-animale e all’artificio che nella vicenda mitologica di Arianna è meravigliosamente esplicitato.

Come sapete, il Minotauro è figlio del connubio tra Pasifae e il toro bianco inviato da Zeus. Ne nasce questo mostro custodito in un’architettura fantastica, il labirinto; un mostro che verrà ucciso proprio perché Arianna si ingegna nel trovare il modo di permettere il suo assassinio. Conosciamo la questione del gomitolo e sappiamo come il Minotauro, che è il fratello mostruoso di Arianna, incarni l’ibridazione, viva in uno spazio ibridato, in uno spazio artificiale. Sappiamo inoltre come egli sia la testimonianza arcaica del molteplice che viene sacrificato all’Uno, alla verità dell’Uno. In questo passaggio c’è anche il problema di identità tragiche che provengono non solo (e non tanto) dal contesto occidentale, ma di quello orientale, identità che assimilano figure che saranno oggetto di particolare cura per le pratiche di dominio. Ricordiamo tutte le creature zoomorfe della cultura classica: l’animale, lo schiavo, la donna, il bambino. Una preoccupazione importante, perché al di là di tesi – a mio avviso poco sostenibili – nell’ordine di matriarcati perduti, ci sono ancora oggi contesti di organizzazione a guida matrilineare. La tesi di un matriarcato delle origini, sostenuta da Bachofen, a mio parere ha poco riscontro, mentre è più efficace la traccia in Nietzsche – che ritorna in qualche modo in Deleuze – relativa a soggetti che vengono immediatamente identificati come piano sul quale esercitare specificamente il dominio – le piccole orecchie di Arianna che sono il suo lato animale e allo stesso tempo altamente intuitivo. In quest’ottica le donne, in qualunque contesto abbiano poi dovuto misurarsi, sono oggetto di un sacrificio specifico perché portatrici di un’alterità, di una minorità che resiste a questa logica, binaria e necessaria, delle figure di dominio, che serve alla strutturazione di rapporti gerarchici, non solo quelli di genere, ma tra tutti quelli che si fondano sul primato del possesso, della proprietà, del dominio e dell’assoggettamento.

Tornando su Deleuze e Guattari, richiamo il legame “donna-animale-mostro” e nello specifico la figura del cane, perché in un passaggio molto bello di Mille piani i nostri due autori si misurano con un testo, Massa e potere di Canetti, sulla questione delle mute e del branco. Ne risultano due letture molto diverse. In quella di Canetti, il branco si dissolve e le mute, frutto delle molte spine inflitte dal dominio, esprimono un nuovo modo di divenire dell’animale sacrificato. Deleuze e Guattari invece suggeriscono un’altra lettura. Tra branco e muta ci possono essere passaggi e scambi; tutto sommato, il branco e la muta, ovvero la massa, possono rovesciarsi l’uno nell’altra. Gli autori aprono così una contraddizione che per me resta irrisolta. Ho trovato forse più chiarezza, rispetto a questo passaggio, proprio nel pensiero di quelle intellettuali femministe a cui ho fatto riferimento prima: mi schiero dalla parte dei cani. Cosa voglio dire con questo? Che penso che i processi di metamorfosi, di ibridazione, di modificazione del corpo vissuto (per dirla con Merleau-Ponty) siano processi che non possono venire smontati proprio per questa intensità del loro divenire, proprio per la plasticità che evocano. Donne e cani condividono un’esperienza di domesticazione che, per me, è al centro in questo momento di una preoccupazione strettamente ecosofica. Ecco una frattura che allontana ogni possibile ambiguità. L’ecosofia si interroga sui processi di domesticazione. Dove ricadono questi processi nell’oggi? Se teniamo fermo quel ragionamento del soggetto larvale, allora ricadono sul piano dei corpi, sul piano del divenire-animale, sul sacrificio, anche dell’ibrido: ricordiamoci il Minotauro che non è una figura così persa nel mondo che fu. In questo, a giusto titolo, il pensiero femminista degli anni Sessanta e Settanta, anche in rottura con alcune delle componenti politiche dei movimenti dell’epoca, introdusse qualcosa di importante: il concetto di alterità. Ecco perché dalla parte dei cani. Un’alterità ormai in opera, non recuperabile attraverso processi reversibili né attraverso un’immagine di natura che resta distante dal profondo modificarsi dell’oggi.

Carla Lonzi, storica d’arte, critica, femminista militante, scrive un testo molto bello col collettivo Rivolta Femminista, Sputiamo su Hegel; scrive inoltre un testo con cui liquida il marito dicendogli Vai pure. L’intento programmatico di Lonzi è chiaro: «Prendendo coscienza dei condizionamenti culturali, di quelli che non sappiamo, non immaginiamo neppure di avere, potremmo scoprire qualcosa di essenziale, qualcosa che cambia tutto, il senso di noi, dei rapporti, della vita. Via via che si andava al fondo dell’oppressione il senso della liberazione diventava più interiore. Per questo, la presa di coscienza è l’unica via, altrimenti si rischia di lottare per una liberazione che poi si rivela esteriore, apparente, per una strada illusoria».

In una simile riflessione, è tutta una tradizione di pensiero che viene messa in crisi; questa operazione spiega anche il successivo interesse di molte pensatrici per l’opera di Deleuze e Guattari. L’alterità vi trova, a mio avviso, una ricezione come la parte preziosa ed importante dell’esistere e non è pensata in un contesto isolato bensì ecosoficamente, ovvero in un concatenamento: in fondo l’ecosofia, in maniera molto nitida in Guattari, indica l’approccio basato sugli agencements, ovvero sui concatenamenti che passano dal piano dei territori, dei soggetti a quello mentale. L’alterità si muove in questo tipo di trasformazione, in questo tipo di movimento che è tutto politico. Questa alterità,nel momento in cui si manifesta – e io direi che con la tecnologia si manifesta in maniera dirompente (perché accelera, intensifica, modifica gli stessi concetti di emozione, affetto e forza) – costringe le società contemporanee a una riflessione piuttosto inquietante, perché essa è ciò che occorre necessariamente normare.

Com’è possibile, però, normare un campo che non è solo quello delle protesi corporee, ma anche quello del mentale, dell’immaginario, della fantasia? Lo si fa attraverso le strategie della comunicazione, la quale si rivela fondamentale, attraverso uno svuotamento di tutte le potenzialità  che si aprono con una virtualizzazione dell’esistere, virtualizzazione che si propaga, prolunga e amplia nella direzione della norma. Ci sono alcune autrici, che ho già richiamato, che hanno lavorato molto sulle ibridazioni – donne e cyborg– leggendole in una maniera specifica. Perché il cyborg è più rilevante rispetto alle soggettivazioni femminili? Perché è più collegabile all’animale ed alla donna? Rimando al pensiero queer, il quale ha una ricaduta molto interessante soprattutto in un testo scritto da Daniela Daniele, che fece una prefazione a Meduse cyborg, testo del 1991, dove viene ripresa anche Butler. Qui sono tanti gli esempi, ma non si tratta del cyborg tradizionale un po’ automa, un po’ umano, un po’ animale:

«I corpi che contano di Judith Butler, le donne cyborg di Donna Haraway, attraversano il corpo femminile per trascenderne i limiti biologici. Come quello del travestito, dello sciamano, il corpo della donna-medusa esce così potenziato, assumendo insieme i poteri del maschio e della femmina, come fa Diamanda Galás nel suo uso amplificato e non solistico della voce (über-voice), o Laurie Anderson, quando assume un timbro di voce maschile grazie a un altro strumento elettronico, il vocoder. Così come la performance reinventa i limiti dell’arte, questi corpi di donna appaiono mutevoli, permeabili, queer, alludendo alla possibilità di riformulare il proprio destino oltre il senso comune, producendo insoliti paradossi».

Questa è una visione molto umoristica: c’è molto humor nel dire “produciamo paradossi e superiamo limiti biologici e categorie tradizionali”. La ritroviamo nell’Alice evocata da Deleuze in Logica del senso. Quindi c’è un filo che continua rizomaticamente a contaminare. Alice è una creatura sulla soglia di una identità fissa e cristallizzata rifiutata tramite la fantasia, la quale è una grande forza attiva rispetto alla costruzione degli immaginari tristemente noti. La fantasia di Alice la porta a scoprire cortocircuiti di senso e possibilità inesplorate, la inscrive in un divenire-minoritario sottraendola al suo percorso predefinito, scoprendo infiniti mondi possibili. Questo percorso di sottrazione si ritrova nel divenire-donna: a partire dalla distinzione tra femminile e maschile si declinano poi forme di addomesticamento specifiche che puntano, però, alla selezione. Quello che ci deve preoccupare se ci occupiamo di ecosofia, cioè di messa in valore possibile delle esistenze, è che noi facciamo i conti con processi selettivi che attraversano anche i campi che abbiamo evocato, cioè i campi delle metamorfosi, delle trasformazioni tecno-corporee, delle trasformazioni della comunicazione, dell’addomesticamento costante di ogni forma di fantasia. Tutto questo evoca il sacrificio. Questo è quanto rilancia Donna Haraway, nei suoi ultimi studi, Compagni di specie più che Manifesto cyborg: cosa c’è al centro di questa scommessa, di questa idea di domesticazione, ovvero di selezione? Di mute invitate a divorarsi tra loro? C’è un processo specifico del sacrificio e dell’umiliazione. L’umiliazione, richiamando Canetti, ha il bastone del comando. L’umiliazione, secondo me, è quel piano in cui si predispone una forza antagonista della fantasia.

L’umiliazione agisce per processi di diminuzione. Parlo volutamente di diminuzione proprio perché affrontiamo un discorso sul minoritario, ovvero quella polimorfa configurazione di singolarità che si sottraggono e che inventano piani altri. Dall’altra parte c’è la diminuzione: una tecnica che vede cani ed esseri umani, specificamente donne, trovare una forma migliore possibile di vivere grazie a delle regole pattuite – secondo Haraway. Su questo ho tutto un mondo di interrogativi che si apre: cosa dice Haraway dopo Manifesto cyborg? Ad un certo punto, probabilmente riprendendo anche la sua formazione cattolica, Haraway si interessa ai cani – tematiche che ritroviamo anche nel pensiero transumanista, etc. – perché questa specie che da sempre ci accompagna, il cane guardiano della città, con noi ha subito un processo di modificazione irreversibile; i cani quindi non possono recuperare l’immagine, l’idea di un branco ormai cancellato. I cani hanno fatto altre relazioni e hanno stipulato altri patti soprattutto con altre specie, però possono, ad avviso di Haraway, trovare forme migliori di vita possibili. Come? Attraverso regole rispettose. Questa è un’evocazione etico-morale: se cerco un patto costituito dalle migliori regole possibili, mi appello irrimediabilmente ad una morale. Questo è probabilmente un po’ il preoccuparsi da parte di Haraway del senso di collasso ambientale, ecologico e anche sociale che si sta consumando negli ultimi tempi. La sua soluzione è spostarsi in direzione di un patto che non metta tutto a soqquadro ma garantisca modi di vita che siano i migliori possibili.

Eppure, questo lascia senza risposta il problema delle lotte, dei desideri, dei movimenti delle minoranze, delle minorità, che evocano ancor più che la stanzializzazione – perché una regola presuppone una stanzializzazione – una nomadizzazione dell’esistere. Tutto questo viene meno perché per pattuire regole si istituisce un patto che evoca un territorio, non lo si può pensare altrimenti. Il patto nomadico è un accordo tribale che lascia molto più liberi i ruoli ed i giochi mentre quello stanziale non lo fa. Si torna qui ad un’idea di appartenenza che cacciata dalla porta rientra dalla finestra. Quello che il divenire-donna esprime in Mille piani– un agire in connessione con la filosofia – è invece di tutt’altro spirito: la filosofia non è amica della città. Deleuze e Guattari parlano, riprendendo Nietzsche, di una contro-filosofia, che non vuol dire azzerare il pensiero filosofico bensì fare attenzione. Il cane, nella sua funzione di guardiano della polispostula un’idea di filosofia che va a coincidere con la Legge, come quella di Kafka, mentre una contro-filosofia rimanda all’alterità, al fuori, all’altrove. In una paradossale risonanza con le parole di Carla Lonzi, il divenire-donna esprimerebbe così l’apertura alla creazione di un sapere che non c’è, di una filosofia che non c’è proprio perché sfugge a quelle concezioni dogmatiche, binarie, gerarchiche e dominanti che abbiamo evocato prima.

Insomma, il divenire-donna evoca una filosofia che non ha una meta, un obiettivo unico, un’ora rivelatrice. Ecco perché si tratta di una contro-filosofia: razza, genere, appartenenze, identità non sono categorie astratte in quanto, a partire da esse, si sono articolate le narrazioni dominanti. Averne consapevolezza non è sufficiente, contrastare tali articolazioni non è sufficiente se non si trovano i modi di liberare facoltà di immaginazione che sperimentino situazioni e condizioni altre, riconoscendo che le micropolitiche – elemento che non possiamo qui approfondire, ma è chiaro che le minorità hanno a che vedere con le micropolitiche di cui tanto Guattari si occupa – possano anche prendere direzioni diverse e spesso contraddittorie. Non dobbiamo dimenticare che c’è anche un divenire che riguarda il desiderio di fascismo, d’altronde mai dimenticato da questi autori, come piano possibile del rancore che torna su se stesso e riedifica uno Stato, una Legge, riportandoci ancora a quell’intuizione di filosofia che abbiamo lanciato prima.

In conclusione, mi sono permessa di tornare sui tre campi di indagine sui quali lavoro più o meno da sempre – corpi, territori, tecnologie – sperando di aver restituito in questo discorso alcuni momenti di frattura del pensiero filosofico contemporaneo. Ho cercato di evidenziarne le connessioni e le criticità con il pensiero femminista, soprattutto con il pensiero queer che in questo momento mi interessa di più, in quanto articolazione più ampia che riguarda anche le ibridazioni. I campi dei corpi, dei territori e delle tecnologie sono suscettibili di cattura da parte delle strategie di dominio e pongono un problema di omologazione e di comando, quindi, anche un problema che riguarda i saperi. Quello che dobbiamo aver cura di comprendere nell’oggi è che alla forma tradizionale di censura si è sostituita una forma più sottile, ma anche più pericolosa, di annientamento delle capacità critiche e immaginative del pensiero: la loro frantumazione. Chiunque di noi faccia uso dei social sa che alcuni fenomeni sono immediati e molto rapidi: frammentazione, nessuna verifica della notizia, nessuna relazione di rimando alle fonti, caduta della capacità della concentrazione, impulso compulsivo di risposta immediata. Tutto ciò mobilita le nostre capacità critiche in un esercizio che è di distrazione costante. Questo riguarda l’ibrido del cane ammaestrato che, più o meno, risponde in questi modi. Chiuderei con Deleuze e Guattari, ricordandovi questa apertura al molteplice, al minoritario e a quelle forze molecolari che si oppongono al corpo pieno del capitale.

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