Pubblichiamo oggi la recensione di Alice Dal Gobbo al libro Le Pieghe del Corpo, a cura di Antonio Donato, Leonardo Tonelli e Eduardo Galak, di recente uscita per Mimesis Edizioni (2019, pp. 154). 

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Le Pieghe del Corpo, a cura di Antonio Donato, Leonardo Tonelli e Eduardo Galak, è una pubblicazione a lungo dovuta, che nonostante si situi all’interno di un più ampio dibattito delle scienze sociali e umane, quello sul corpo, propone una lettura originale almeno per quanto riguarda il panorama italiano. Originale perché, se del corpo si è molto parlato negli ultimi decenni, nel dibattito filosofico, in biologia o psicologia, raramente invece lo si trova al centro di riflessioni (anche empiriche) sulle modalità e le tecniche con cui il corpo viene “educato” ad esistere proprio da quelle discipline che al corpo si dedicano: l’educazione fisica, il discorso sugli stili di vita e la salute, lo sport. In questa collettanea emerge la volontà di rappresentare il corpo nella materialità dei processi che lo interpellano direttamente, nella sua collocazione all’interno dello spazio sociale, ma anche e soprattutto nel suo essere veicolo e resistenza al disciplinamento di un potere sempre più capillare e capillarmente operante.

Frutto di un dialogo tenutosi tra studiosi di diverse discipline, promosso dall’associazione Leib, non si tratta di un trattato unitario ma piuttosto di una visione sfaccettata che comprende diverse sensibilità e al contempo le riunisce secondo un filo conduttore comune. Tale impostazione tradirebbe per altro l’orientamento stesso degli autori, di spinoziana ispirazione, volto ad investigare che cosa può molto più di che cosa è un corpo. Si forniscono invece istantanee diverse, che ci immergono per lo spazio della lettura di un capitolo in mondi tra loro anche distanti, per poi riportarci all’esperienza situata del nostro stesso essere corpi, a come siamo stati resi i corpi che siamo – a scuola, attraverso i media, dal discorso medico. L’obiettivo comune, ci dicono, è quello “di sottrarre il concetto di corpo tanto al determinismo biologico quanto a quello culturale, dispiegandolo come luogo di soggettività e come punto di partenza di ogni trasformazione sociale” (p. 7). Nel fare ciò, è necessario “interpellare ciò che è corporeo a partire dalla comprensione di ciò che è moderno e viceversa” (p. 8). In altre parole, il corpo è uno dei luoghi in cui avviene un incontro, produttivo repressivo ed emancipatorio insieme, tra pensiero filosofico, storia, pratica scientifica, tecniche di governo e politica. Interrogarlo significa fare i conti con i modi in cui il mondo è stato costruito a partire dalla modernità, trovarne le impasse, inventare nuovi modi di dire, studiare e praticare il corpo – nell’ottica di una sua liberazione dai dispositivi di dominio che lo plasmano, abbracciano, attraversano.

I contributi (tocca notarlo: prevalentemente maschili in questo primo volume) sono introdotti da un utile testo di Antonio Donato che colloca la collettanea dentro un filone di critica sociale ascrivibile alle riflessioni foucaultiane, trans-femministe queer, ai disability studies e alle prospettive decoloniali. Tratto quest’ultimo significativo poiché propone la centralità di prospettive extraeuropee nell’interpretazione di fenomeni e questioni anche molto “locali”, poiché per capire, resistere e cambiare le pratiche di dominio che caratterizzano le società a noi geograficamente prossime non si possono non fare i conti con la prospettiva di un Altro colonizzato che è stato insieme creato dall’Europa e che l’ha creata, che tenta di liberarsene e in questo processo fornisce strumenti per la sua stessa liberazione. Proprio in una congiuntura di radicale crisi della modernità la critica ai dispositivi di potere medici, pedagogici, sportivi si rende evidente che la critica all’eurocentrismo non può venire solo dal di dentro. Un processo di liberazione del corpo necessita invece una sua “decolonizzazione permanente” (p. 27) che lo sbrogli dalle maglie di un sapere scientifico oggettivante, ma anche dal suo opposto complementare: un troppo radicale costruzionismo che lo renda materia malleabile e manipolabile a piacimento.

Il ragionamento di Eduardo Galak prosegue in questa problematizzazione: l’educazione fisica della (prima?) modernità, quella che deve seguire categorie e dettami scientifici, oggettivizza il corpo rendendolo qualcosa di fisso, catalogabile, disciplinabile; d’altro canto, la svolta culturalista nega autonomia a questo oggetto-corpo rendendolo una produzione culturale e sociale – ma così facendo naturalizza il sociale. Entrambi questi approcci non fanno che sancire e riprodurre degli ordini di normalità fisica ed estetica nonché di comportamento. Ce lo dimostrano le rappresentazioni mediatiche che opportunamente l’autore pesca da più parti del mondo: Unione Sovietica e Argentina, Italia fascista e Francia, Germania. Come evitare allora che le nostre pratiche intellettuali e materiali finiscano per fissare i corpi in modo escludente? L’autore ci propone una via – quella spinoziana per l’appunto: non chiedere che cosa sia un corpo, ma cosa puòun corpo. Così facendo la risposta sarà sempre contingente, dovrà fare i conti con il qui ed ora degli assemblaggi materiali e culturali in cui le relazioni si svolgono. E soprattutto avrà a che vedere, più che con la normalità, con lo scarto, la devianza, poiché la potenza è un altro rispetto al dato, è vivere nel senso di rivendicare un proprio essere costantemente singolare e in divenire.

Si tratta di ciò che Gianluca de Fazio chiama, nel capitolo successivo, la “selvatichezza” del corpo (p. 60): questo suo collocarsi in una posizione ambigua, oggetto, soggetto – entrambi o forse nessuna delle due? Ecco che forse, volendolo fare, possiamo caratterizzare ontologicamente il corpo come ciò che dal punto di vista della potenza non è altro che la differenza da sé, dagli altri, la capacità stessa di tracciare differenze. Ma a questo punto il ragionamento si sposta più apertamente su un piano etico-politico. Nel suo essere differenza, infatti, il corpo in quanto vivente traccia una linea “normativa”, una linea di desiderio potremmo dire, che rifiuta il dover-essere imposto da morali o categorie esteriori e astratte. Ciò non può prescindere da una riflessione sulle condizioni e le modalità in cui le potenze si esprimono e soprattutto su come far sì che tali condizioni siano capaci di accogliere i corpi come “soggettività viventi” (p. 65), la cui esistenza non necessita di una legittimazione scientifica o sociale. Accogliere il corpo, anche nella nostra pratica di ricerca, non tanto per quello che è, ma per quello che può e desidera all’interno e attraverso le relazioni.

Che cosa significhi la potenza del corpo nelle relazioni spaziali e politiche ce lo dimostrano le pratiche di Capoeira e Parkour nella città di Torino, descritte da Nicola De Martini Ugolotti. In questa città “rigenerata” in cui la diversità viene non solo accolta ma pubblicizzata a fini turistici e propagandistici come bandiera di convivenza e multiculturalismo, il modo in cui i corpi dei danzatori sono respinti, attratti e incanalati negli spazi urbani racconta una storia diversa. Il decoro urbano si costruisce attraverso la definizione di spazi “giusti” dove l’espressione corporea viene apprezzata perché costruita come una performance, uno spettacolo, mentre il resto dello spazio urbano si chiude a questi soggetti e alle loro contro-condotte, ai loro modi resistenti di definire che cosa sia, ad esempio, una piazza, una strada, un muro. Il perseverare in queste scomode pratiche di danza ha quindi un senso normativo, per quanto implicito, di reclamare la possibilità della differenza di cui proprio il corpo (in movimento) si fa portatore.

 Questione completamente diversa ma, in fondo, affine, è quella che si pone Alessandro Bortolotti nel suo contributo: l’educazione motoria e lo sport per come vengono strutturati socialmente e istituzionalmente e così resi parte del processo di socializzazione dei soggetti. Pratiche apparentemente a-politiche, lo sport e l’educazione fisica sono invece fortemente legate alle dinamiche di potere e governo delle società dal momento che sono potenti veicoli di incorporazione di norme, valori e costrutti sociali – che col tempo si traducono in habitus, modi di vivere naturalizzati, carnalità della cultura. Non l’attività fisica in sé, ma i significati che le sono attribuiti, le forme e le modalità che acquista, si fanno portatori di ideologie specifiche. Si spiega quindi come lo sport sia stato veicolo di affermazione di politiche molto diverse tra di loro, da quelle dittatoriali a quelle (neo)liberali. Ma ciò non dovrebbe suggerire che l’educazione del corpo sia naturalmente o direttamente collegata a queste forme di governo. Al contrario, pratiche che promuovano l’autonoma e creativa costruzione di rapporti significativi con il proprio corpo e con il suo ambiente potrebbero, come suggerisce la Prasseologia Motoria, essere dei veicoli di emancipazione.

La collettanea si chiude con un capitolo a più mani che tocca un tema pressante nel presente dei nostri corpi: quello di salute e movimento. Fa parte della nostra quotidianità il discorso biomedico che vede la salute come un che di contrapposto alla malattia, fatto di specifici indicatori da tenere sotto controllo attraverso una razionale gestione del movimento e della dieta. Se attraverso questi discorsi il soggetto viene responsabilizzato e così disciplinato a delle condotte socialmente accettate, c’è da chiedersi non soltanto quale pratica corporea possa sfuggire a queste maglie normalizzanti, ma anche che tipo di sapere, quale scienza, possa accompagnare questo processo. Gli autori identificano nella scienza della complessità, che definiscono post-cartesiana, questa possibilità: una scienza in cui processi non lineari si intrecciano in modi imprevedibili e incalcolabili, che di nuovo sottolineano l’irriducibilità del corpo-soggetto ad alcun determinismo sia esso “naturale” o “sociale”.

I diversi contributi portano quindi, partendo dal tema delle discipline e delle pratiche corporee, una visione più ampia circa il modo in cui tutta la modernità ha costruito e veicolato dei modi di essere sociali e politici ben precisi, in particolare attraverso l’utilizzo di dispositivi di sapere e del discorso scientifico. Questo paradigma moderno si è basato su una separazione tra la mente-soggetto e il corpo-oggetto, giustificando la sottomissione del secondo a categorie astratte di normalità e devianza, salute e malattia, bellezza e bruttezza che hanno fatto sì che il corpo divenisse il luogo di “condotte” funzionali al mantenimento dei sistemi di potere e delle istituzioni tipici della modernità stessa. Tale costruzione è costantemente attiva e dà forma alle nostre esistenze, eppure è stata sottoposta a critiche sia pratiche che intellettuali o scientifiche. Tale critica si accompagna ad un declino molto più generalizzato della modernità capitalista nel suo complesso.

Ed è a questo punto che si intuisce l’urgenza e l’importanza di riprendere e approfondire un tema, come quello del corpo, che è per altro presente attraverso tutto il pensiero della modernità e, come suggerisce De Fazio, ne è in qualche modo “consustanziale” (p. 57). In questa crisi è infatti necessario ripensare non i nostri stili di vita, ma i modi di vita. La “conversazione” che prende forma nei diversi contributi rende evidente che questi non possono prescindere da un ripensamento importante del corpo come veicolo di socializzazione, esplorazione e apertura al mondo. Se non possiamo facilmente trovare, e forse non vorremmo nemmeno farlo, delle ricette alternative a quelle moderne nelle pratiche di soggettivazione con e attraverso il corpo, al contempo il libro pare darci una direzione di investigazione interessante: quella della singolarità, dell’irriducibilità e della differenza come caratteristiche ontologiche del corpo e più ancora dell’esistenza. Lontano però da qualsiasi tentazione “culturalista” o strutturalista, non ci si restituisce un corpo scritto dalla società e dimentico dei suoi limiti e della sua esistenza relazionale, situata, concreta. Abbiamo una nuova visione del corpo-materia come già sempre un corpo-soggetto: qualcosa di vivente e per questo creativo e in continuo divenire.

Tale prospettiva mette profondamente in discussione molte categorie della modernità, che derivano da una problematica divisione tra mente-soggetto e corpo-oggetto. Ci chiama per esempio a ripensare le categorie della morale e dell’etica. Se il corpo ha una sua “normatività”, una sua capacità di discernere giusto e sbagliato nei contesti concreti, allora una morale astratta e universale non farà che negare questa sua singolare capacità mentre l’etica si dovrà fare est-etica, capacità di valutare azioni e situazioni per ciò che possono, o permettono, ai corpi. Ecco che allora la politica si fa essa stessa non più luogo di governo, di implementazione di universali diritti e universali categorie che si calano sul mondo e sui soggetti in modo indifferente rispetto a ciò che essi possono. La politica, forse, dovrà essere una pratica in cui costruire le condizioni in cui le singolari potenze dei corpi in relazione possano essere accolte semplicemente in quanto esistenti. Infine, in tempi in cui la materialità del mondo tutto ci si rende ineludibilmente evidente nella sua incontrollabilità e irriducibilità attraverso la crisi ecologica – allora il corpo, questo corpo anch’esso irriducibile, può essere luogo di connessione e consapevolezza, nonché di educazione al co-abitare la complessità del mondo.

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