È apparsa recentemente per Cuartopoder.es una breve intervista a Lucrecia Masson ripresa su AnimaALiena nella traduzione di Valentine aka Fluida Wolf (revisione a cura di feminoska), che riporta alla ribalta questioni irrisolte e lacune evidenti nel nostro modo di pensare al femminismo e alla liberazione da un punto di vista bianco o “eurocentrico”, come ci viene detto.

Non può quindi che tornarci alla mente l’intervista di qualche anno fa, su Incroci de-Generi, a Zahra Ali , uscita in mezzo a un dibattito accesissimo sul velo e più in specifico sul caso francese del giusto rapporto tra nudità e decenza da tenere in spiaggia e da attuare forzatamente, che risuonò in tutto il mondo femminista con prese di posizione anche contrastanti.

Lucrecia tocca temi profondi: dalla questione del corpo alla bianchezza, dalla presunta universalità del femminismo (bianco?) alla tematica lgbtqi, prendendo posizioni nette che ci impongono una riflessione.

Che il nostro burqa fosse la taglia 42 lo aveva già anticipato anni fa la scrittrice e sociologa marocchina Fatema Mernissi (L’Harem e l’Occidente), mentre noi si era ipocritamente impegnati a portare democrazia armata in Medio Oriente e ancora a togliere il burqa opprimente alle povere donne arabe represse dal maschio dittatore.

Perché noi occidentali si abbia questa necessità di “svelare” a ogni costo il corpo è quindi la prima domanda da farsi. Almeno per capire se è sempre stato così, se ce lo impone la moda, il desiderio di piacere agli uomini o un senso estetico talmente incorporato nella nostra cultura da entrare nel Dna. Pensiamo alle armoniose e precise proporzioni delle statue greche con le perfette atlete ed atleti che gareggiano nud* per farsi meglio ammirare, via via ai corpi dipinti o letteralmente “scolpiti nel marmo”che popolano i libri scolastici, i musei, le piazze delle città, le cartoline, le trasmissioni televisive.

Pure non si è mai parlato di mondine o spigolatrici ignude e perciò va introdotta in questa corporeità una linea di classe che a tratti affiora nell’intervista a Lucrecia e poi sembra scomparire, sommersa da comportamenti generalizzanti.

Grasso è brutto, viene detto per ogni dove. Solo ultimamente, di fronte all’aumento esponenziale dei casi di anoressia si comincia a dire che anche magro è brutto, o meglio: magro e grasso danno segno di disagio psichico, di cattivo rapporto col corpo, col contesto, con la propria identità e posizione nel mondo.

Cosa abbia determinato questo squilibrio, questa mancanza di respiro, di futuro, di geolocalizzazione non è domanda conseguente. L’Occidente non se la può permettere. Nè magri, né grassi perciò: giusti, per motivi di bellezza e salute. Chi esce dalla tabella non è solo brutt*, ma anche malat* e poi, se non riesce ad essere startupper, pure perdente. E vai di psicofarmaci!

La questione corpo apre spazi infiniti di analisi, pone il tema del piacere a se stessi, dell’accettare i propri limiti e difetti, dell’amarsi per come si è, e anche, e questa parte sembra un po mancare all’intervista di Lucrecia, forse perchè breve, del come partire dal proprio sé per raggiungere o avvicinarsi ad altri sé con problemi diversi, eppure simili.

Un’identità ritrovata che si rivendica, ma non si chiude, che si dinamizza, avviandosi consapevolmente verso il meticciato, unica e vera prospettiva di superamento delle diversità.

E quindi il tema della bianchezza va affrontato perchè esiste e non viene ancora percepito.

Dobbiamo ammettere che il femminismo di casa nostra si occupa per ora di femministe, che non è molto, vorrebbe occuparsi di tutte le donne – “se toccano una toccano tutte” è una speranza, non un fatto – e percepisce le non bianche genericamente come “migranti”.

Temi dominanti restano le donne che arrivano sui barconi, la tratta e l’avvio alla prostituzione, in parte anche l’utero in affitto, collegato a donne non occidentali in stato d’indigenza. All’infuori di questi tre dibattiti: un vasto mondo inesplorato.

Ultimamente un accenno alla bianchezza è stato cassato da un comunicato Nonunadimeno perchè donne ucraine e rumene vengono sfruttate nelle campagne del caporalato tanto quanto le donne marocchine.

Non credo sia vero, credo semplicemente che non abbiamo dati e quindi, in mancanza di un quantitativo sufficiente di inchieste serie come “Ororosso”, prendiamo posizioni generaliste o non prendiamo posizioni. Questo forse spiega la scarsa partecipazione in sostegno alle lotte delle lavoratrici marocchine di Huelva, non disinteresse, ma impreparazione.

Ciò non toglie naturalmente che ci sia un femminismo bianco, elitario e benestante che continua a rivendicare “una stanza tutta per se”, quando molti avrebbero bisogno anche solo di una stanza per tutti. L’importante è non cedere alle generalizzazioni: anche i bianchi non sono tutti bianchi allo stesso modo, come i neri non sono tutti ugualmente neri.

La questione della pelle si pone eccome! La pelle identifica e Traini così può sparare a persone nere  (ucrain* e rumen*, bulgar* e albanes* per ora salv*).

Un poliziotto, un vigile, un controllore se deve chiedere un permesso, una patente, un biglietto va sul sicuro, il nero lo aiuta. Una coppia bianca e nera si vede subito. Altri melange hanno più possibilità di farla franca.

Di nuovo riemerge inevitabile il discorso di classe e il filo conduttore dell’appartenenza taglia in due, nei secoli, il mondo occidentale e divide in modo permanente gli interessi e le prospettive delle due parti. Ancor più divide, per sempre forse, i due generi sottoposti a sfruttamento, fondando una narrazione che dura ancora oggi.

Quando la Spagna saccheggiava e stuprava nelle colonie di Abya Yala, i poteri forti in Europa: stato, chiesa e capitale, bruciavano sui roghi le donne che avevano saperi, identità, autonomia. Se abbiamo avuto dei benefici dalle conquiste coloniali, li abbiamo pagati molto cari.

Vero è che dovremmo cominciare a conoscere le nostre reciproche storie, scambiarci le lotte, le velocità e le lentezze, la dolcezza e la violenza, la calma e il furore.

Facciamo fatica a capire il femminismo religioso di Zahra Ali. E come potremmo altrimenti, partendo dalla nostra esperienza situata? Sono mille anni che la chiesa sbircia nelle nostre camere da letto, dice quando, dove e con chi dobbiamo farlo, controlla che non godiamo e ci impone di non abortire. I tribunali della Santa Inquisizione hanno bruciato più donne che eretici. E sempre il clero ha nascosto ipocritamente i propri legami sessuali e familiari sotto presunti voti di castità.

Per questo quasi sempre femminista e atea vanno così d’accordo, comunista anche, vi sta bene assieme, credente… se c’è non si usa.

Mentre sulle questioni di rispetto dei femminismi differenti, sul non pretendere di essere le più avanzate e di voler insegnare ad altre, sull’assurdità di imporre le proprie regole e i propri modi di pensare, sull’incapacità di entrare in contesti differenti, la necessità di evitare inutili massimalismi ideologici, Zahra Ali sfonda una lunghissima fila di porte aperte.

Vale per tutte e su tutto il diritto di ognuna alle proprie scelte, tempi, autonomia e idea di liberazione.

Il problema è più pressante quando la convivenza ci spinge sullo stesso terreno. Non abbiamo nemmeno le parole adatte per definire il reciproco incontro.

Integrazione è orgoglioso e supponente, veramente eurocentrico, capace di concepirsi solo come cultura superiore alla quale tutt* si devono uniformare.

Ma anche accoglienza non è meglio: ci dice quanto noi siamo buon* ad occuparci di voi povere vittime, incapaci di risolvere i vostri problemi, bisognos* d’aiuto. Dio ce ne renderà merito. Amen.

Dov’è la parola che indica parità, orizzontalità, curiosità? Se manca inventiamola presto perché ci vogliamo incontrare, non solo come donne in cammino, ma anche come lgbtqi non capitalista e poco consumista, e anche con tant* che oggi sono altrove, ma domani chissà…

 

(Cristina Roncari – Laboratorio Lilith, Milano)

 

Immagine in apertura: Aerial Osni Ilustración “No dejemos que nos frenen el vuelo” (Non lasciamo che frenino il nostro volo)

 

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