Bianca Maria Filippini recensisce Il Grande Iran di Giuseppe Acconcia (Exorma, 2016).

Giuseppe Acconcia scrive un libro che risponde all’importante necessità di dare dignità di comprimario nella scena politica internazionale ad un Paese, il Grande Iran del titolo, continuamente messo a tacere e manipolato, fin dalla sua lettura orientalistica.

Nella Prefazione al libro, scritta dal giovane autore iraniano Mohammad Tolouei, appare una critica decisa all’orientalismo e alla incapacità degli occidentali di guardare dritto negli occhi dell’Oriente, senza filtri. Di contro, l’Oriente non avrebbe avuto bisogno di alcun occidentalismo, di cui non c’è traccia neppure sui vocabolari. Agli occidentali Tolouei imputa di ignorare «le forme di resistenza silenziosa che non si praticano apertamente, ma soltanto a livello interiore» (p. 8). Niente di più appropriato per capire il fallimento dei tentativi di lettura di alcuni fenomeni iraniani da parte di chi ignora o semplifica le vicende storiche del Paese.

Aprendo il suo libro con le riflessioni di Tolouei, Acconcia sceglie di far parlare l’Iran per voce propria, prendendo le distanze da stereotipi distorcenti. Ma l’autore de “Il Grande Iran” fa di più: scava nella storia di questo Paese, nei suoi meccanismi complessi e nelle sue dinamiche dai risvolti affascinanti, cercando di evidenziare continuità e discontinuità. Ecco che, dopo un primo capitolo interamente dedicato alla capitale Tehran, a sottolinearne la dimensione e il ruolo catalizzatore, nel secondo capitolo si approfondisce il periodo a cavallo tra XIX e XX secolo in cui a regnare erano i Qajar, «despoti in assenza degli strumenti del despotismo», per usare una definizione di Abrahamian. L’Iran dei Qajar è «un esempio di Stato debole e frammentato con una società complessa ma gradualmente sempre più efficace» (p. 28). A conclusione di questo capitolo in cui si mette in risalto il ruolo degli intellettuali modernizzatori animati dai principi di secolarismo, costituzionalismo e nazionalismo e le loro alleanze strategiche, Acconcia ricorda che «una società progressista, a confronto con istituzioni deboli e conservatrici, è una caratteristica costante anche dell’Iran del XX secolo» (vedi alleanze anti-regime Pahlavi e principio del “divide et impera” adottato dal clero al potere dal 1979 così come a suo tempo fece la dinastia Qajar).

L’esperienza costituzionale iraniana (1905) viene inserita da Acconcia tra le “cause e antefatti” della Rivoluzione iraniana del 1979, a sottolineare continuità e nodi irrisolti delle manifestazioni antigovernative. Importante è l’approfondimento offerto da Acconcia sulle varie correnti interne al clero sciita e l’attenzione rivolta al loro ruolo di interpreti del dissenso (vedi paragrafo “I mullah leader della Rivoluzione”, pp. 38-46).

Sottolineando l’unicità dell’esperienza rivoluzionaria del 1979, Acconcia fornisce indispensabili strumenti per comprendere come «un grande movimento di rivendicazione dei diritti individuali e popolari che per settant’anni ha segnato la storia iraniana ‒ il movimento popolare più complesso e politicamente motivato della storia contemporanea iraniana (p. 54) ‒ sia stato monopolizzato dal clero sciita». Tra questi strumenti si annovera un’utile paragrafo dedicato alla gerarchia religiosa iraniana e alcuni principi fondanti la Repubblica islamica come l’idea che l’Islam sciita sia “tutto”, in quanto forma culturale composta da strutture simboliche, quindi linguaggio.

Dopo aver passato in rassegna le esperienze di pluralismo politico vissute in Iran e naufragate in un mare di disillusione, Acconcia passa a spiegare le quattro correnti politiche inquadrate nel sistema islamico che ebbero accesso al Parlamento dopo l’instaurazione della Repubblica islamica e dedica un approfondimento al movimento riformista inaugurato da Mohammad Khatami, «emblema del cambiamento del khomeinismo dall’interno» (p. 71), la cui esperienza di governo è fallita amaramente ma rappresenta ancora una pietra miliare della storia recente del’Iran, soprattutto in quanto risposta ad «un’esigenza reale della società iraniana postrivoluzionaria» (p. 71).

Acconcia, da assiduo frequentatore dell’Iran, non poteva non riconoscere l’importanza di un discorso a sé per la società civile iraniana, motore di un Paese che proprio negli anni della presidenza khatamiana (1997-2005) – durante parte dei quali Acconcia lavora presso la sezione politica dell’Ambasciata italiana a Tehran – vede diventare incolmabile l’abisso tra élite politica e popolo iraniano. Come puntualmente afferma l’autore, «il rafforzamento della società civile iraniana è uno dei risultati maggiori ottenuti dal movimento riformista» (p. 89). Oltre a passare al setaccio la storia dei movimenti studenteschi, con un interessante contributo dell’intellettuale Ramin Jahanbegloo, intervistato dall’autore, il capitolo sulla società civile iraniana si arricchisce di riflessioni sulla storia del giornalismo (in cui ancora una volta si registra una “primavera” proprio negli anni in cui è Khatami presidente della Repubblica islamica), sulle varie correnti culturali che si sono espresse dall’epoca Qajar ad oggi, il movimento per la difesa dei diritti delle donne e la diffusione delle organizzazioni non governative, alcune delle quali a direzione femminile (sul tema Acconcia torna alla fine del capitolo “Iran a tutto gas” con una testimonianza di Shirin Parsi, fondatrice di tre ong che operano a Rasht per la difesa dell’ambiente e il sostegno all’imprenditoria femminile).

Come ricorda Acconcia, Khatami ha sostenuto il ruolo fondamentale della politica culturale nella costruzione della società civile (p. 104), ma la frammentazione storica del mondo artistico e giornalistico – sottolinea l’autore – ha sempre diminuito d’intensità la portata dei cambiamenti in atto nella società civile iraniana (p. 106). L’autore sottolinea altresì come sia diversa la figura dell’intellettuale artista di ultima generazione, molto più integrato nel sistema sociale e politico del Paese (p. 106). Particolarmente interessante è l’approfondimento offerto sul teatro iraniano, su cui il controllo censorio risulta meno pedante che nel cinema e nella musica, impreziosito dall’intervista al grande drammaturgo BahramBeyza’i, che vede nell’intellettuale incapace di influenzare la politica una sorta di «maschera del sistema» (p. 110). L’opera dello scultore Bizhan Bassiri, che ha a lungo lavorato e studiato in Italia, ha fornito ad Acconcia il La per una riflessione molto puntuale sull’idea di pubblico fruitore, che si è ormai consolidata nell’ambiente artistico iraniano, per cui la sua partecipazione all’azione artistica rappresenta il concreto agire politico dell’individuo che va oltre qualsiasi censura creando con l’artista “un altro mondo possibile”.

A proposito di artisti e censura, non si può non notare che il libro in questione è impreziosito, nella sua già elegante veste grafica, dalle illustrazioni del cartoonist Tuka Nayestani, fratello di Mana, anch’egli fumettista. La mancanza di libertà di espressione denunciata dalle illustrazioni di Tuka, ora residente in Canada, resta uno dei nodi su cui si gioca la partita tra governo al potere e società civile.

Oltre ad un capitolo fondamentale su due dei pilastri dell’economia iraniana, le fondazioni religiose e i bazari, Acconcia si sofferma sul movimento dell’Onda Verde che ha “travolto” Tehran nel 2009 a seguito della rielezione del presidente Ahmadinejad. A questo tema Acconcia aveva dedicato anche un precedente saggio dal titolo “La primavera egiziana e le rivoluzioni in Medio Oriente” (Infinito Edizioni, 2012) – che si apre con un viaggio in treno da Damasco a Tehran – in cui l’autore vede il movimento di protesta iraniano come anticipatore delle rivolte che di lì a poco più di un anno scoppieranno in Tunisia, Egitto e altri Paesi.

Alle reazioni iraniane alle rivolte nei Paesi arabi è dedicato un interessante capitolo finale in cui, tra l’altro, sono messe a confronto le ragioni della vittoria della rivoluzione iraniana e quelle della sconfitta della rivoluzione egiziana del 2011.

Un capitolo a sé è riservato al presidente moderato Hassan Ruhani, uomo delle istituzioni rivoluzionarie ostile al presidente uscente Ahmadinejad, la cui vittoria ha riacceso fermenti e speranze soffocate nel 2009 e confortato la guida suprema ‘Ali Khamene’i, che aveva accolto con freddezza la rielezione di Ahmadinejad. La vittoria di Ruhani nel 2013, ricorda Acconcia, si innesta in uno scenario in cui i riformisti sono stati messi a tacere e il tecnocrate Rafsanjani escluso dalla competizione elettorale. Alla vigilia del voto, in cui Ruhani si è impegnato per un governo di continuità con l’operato di Khatami e Rafsanjani, ma non di compromesso, si è registrata qualche marginale ‒ solo nel contesto ‒ protesta da parte dei movimenti “alternativi” che “operano sempre più con mezzi poco rintracciabili” (p. 162). È il professor Redaelli, intervistato da Acconcia, a ricordare come tali movimenti non costituiscano un dissenso strutturato. L’elezione di Ruhani ha scatenato una guerra per il controllo della tv pubblica e l’università, di cui Acconcia dà conto nell’ultimo paragrafo del capitolo su Ruhani.

L’effervescenza culturale dell’Iran, e in particolare della sua capitale, trova spazio in un breve capitolo che l’autore intitola “Quei salotti trasformati in Cineclub”, in cui viene rimarcata la fruizione privata di molto cinema, teatro e musica iraniani, nonostante venga ricordato altresì come il rigido sistema politico della Repubblica islamica stia lentamente aprendo nuovi spazi per far fluire la cultura.

Con il capitolo sui curdi di Kermanshah e Sanandaj, Acconcia offre un tributo alla “minoranza che ha creato più problemi a Khomeini” (p. 176). Oltre a sottolineare le differenze tra i curdi dell’una e l’altra provincia iraniana, Acconcia ricorda l’intensificarsi delle relazioni fra curdi iracheni e iraniani a seguito dell’indipendenza concessa al Kurdistan iracheno, concretizzatosi nel continuo flusso di lavoratori curdi iraniani nel mercato petrolifero della regione autonoma del Kurdistan iracheno.

Nello spaziare fino all’“Iran periferico”, Acconcia posa lo sguardo anche sulle realtà di Qom e Mashhad, volti autentici e affascinanti di un Paese tridimensionale.

L’autore dà conto dell’importanza storica dell’accordo di Vienna sul nucleare iraniano in un capitolo molto ben documentato in cui sono scandagliati i prodromi (tra cu il fallito accordo del 2004 in cui capo negoziatore iraniano era Ruhani) e le maggiori implicazioni nella politica interna iraniana e in quella internazionale. Come contraltare all’entusiasmo e alle aspettative nutrite dalla società civile iraniana a seguito di tale accordo, Acconcia riporta le opinioni dell’illustre intellettuale Noam Chomsky, che in un’intervista sul tema rilasciata allo stesso autore, dichiara il negoziato sul nucleare “una farsa” e quelle del premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, che con la promozione di un documento siglato da ong e attivisti di tutto il mondo, chiede che si favorisca un dibattito scientifico, economico e ambientalista sull’energia nucleare.

A fine ottobre 2015 Vienna ha ospitato un altro importante appuntamento che ha visto l’Iran in prima linea, per la prima volta accanto all’Arabia Saudita: si tratta della riunione internazionale per tentare di avviare un negoziato di pace per la Siria. Come ricorda Jahanbegloo, «la Siria è stata parte delle discussioni a tutti i livelli del negoziato sul nucleare» (p. 200). A proposito della cosiddetta “intesa di Vienna”, salutata da analisti e politici di tutto il mondo come un cambiamento storico, Acconcia commenta come essa non sia altro che una «fotografia della realtà sul campo» (p. 225). Acconcia ricorda inoltre come sulla questione siriana i politici iraniani facciano fronte comune (p. 226).

Frutto di ricerche continue – molte sul campo grazie alla ultradecennale frequentazione con l’Iran – e di una sana passione per un’area in fermento in cui si stanno giocando battaglie importanti che ci vedono tutti interessati, Il Grande Iran continuerà a far parlare di sé, auspicabilmente con ristampe e aggiornamenti.

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