Nelle “epoche oscure” la massa si ritira. La nostra è un’epoca oscura, appunto, e in un’epoca oscura “occorrono più coraggio e più sforzi per resistere di quanti ne servano in un’epoca luminosa”. Come scriveva Benasayag, per chi come lui le ha vissute entrambe, l’epoca oscura è molto più interessante dell’epoca luminosa. Il nostro lavoro di intellettuali, di ribelli, di persone civili – ci insegna Benasayag – è scoprire come si resiste in un’epoca oscura. Il nostro compito, in ogni epoca, è sapere da dove passa la libertà.

Intervengo dunque nuovamente sulla polemica che, puntuale come la befana, di tanto in tanto si apre contro le scrittrici donne, o sulle donne che scrivono di altre scrittrici donne. A me pare chiaro che il capitalismo in crisi continui ogni giorno di più a produrre una vistosa regressione culturale che produce soggetti discutibili, comodi a una certa nicchia di mercato “culturale” che campa su polemiche di basso valore, che delegittimano non solo ogni pensiero critico, ma addirittura ogni pensiero non allineato a un potere maschile che, trovandosi immischiato in una crisi in cui pure gli uomini rischiano di perdere il posto di lavoro, e non avendo negri contro cui sparare, o un politico da impallinare, sparano addosso alle donne. La misoginia, però, viene prima di tutto questo: perché è trasversale alle epoche, alle culture, alle fasi sociali.

Credo però che la fragile costruzione teorica di questo pensiero maschilista attuale nulla avrebbe potuto senza il masochistico e colpevole processo di auto-demolizione che certa editoria sta compiendo da tempo, ma questo è un altro discorso. Più interessante appare invece il tentativo di decifrare il senso civile, ma credo anche di progetto, di questa discussione. Se l’editoria non è solo editoria appunto (dal punto di vista dell’editore) e non è nemmeno semplice acquisto e commento di libri (da parte dei lettori, di qualunque lettore) e se la storia della letteratura è naturalmente densa di implicazioni con la storia civile, e ancora se è vero che l’editoria attuale appare sempre più un misto di congruenze e incongruenze e dunque non si può fare a meno della ricerca e della politica per tentare di portare qualità all’interno della propria proposta editoriale, allora è altrettanto sensato ritenere che non si possa fare “libri” senza quella passione civile che un tempo l’uomo medio sembrava possedere. Chi spara a zero e a casaccio, come ieri è stato fatto di nuovo su Il Giornale, contro alcune donne e scrittrici – e così arrivo al dunque – io credo abbia come obiettivo proprio di accelerare questo processo degenerativo che sto descrivendo. Accelerare la crisi di un’editoria (a 360°) di qualità.

Sia chiaro: l’obiettivo di questi attacchi non sono le donne. L’obiettivo è il femminismo, nella misura in cui rappresenta un granello, un atto di sabotaggio nell’ingranaggio già corrotto del capitalismo, perché gioca un ruolo attivo nella lotta fra le classi – di una parte nei confronti di un’altra – in un mondo in cui la competizione per le briciole che il capitalismo lascia cadere mette i bianchi contro i neri, gli scrittori noir contro i giallisti, gli uomini contro le donne, ogni editore contro ogni altro editore. Ma soprattutto, in tutte queste categorie, i più miserabili contro i più miserabili. Si tratta dello smarrimento di un bagaglio culturale, di un abbassamento culturale che purtroppo la Cultura stessa sembra intenzionata a rendere sempre più doloroso e sensibile.

Qui vorrei chiudere con un paragrafo dedicato altrove ad un’altra figura. Per tutti questi motivi, è sempre più importante “amare le cose difficili”. Sono preziose certe figure di intellettuali capaci di fornire esempi “diversi”. Intellettuali, scriveva Aurelio Macchioro, che paiono sempre destinati a perdere la voce proprio nel momento in cui la crisi esplode e la “battaglia” infuria. Se non si vuole rassegnarsi al pessimismo, una strada forse utile è quella – come scriveva Macchioro – di ostinarsi a procedere per prese di posizione contro il pensiero debole, ma a favore del dubbio, sempre. Prese di posizione con cui dissentire o, se queste prese di posizione sono davvero superflue, contro le quali unirsi perché finiscano velocemente nel dimenticatoio della storia (e della discussione editoriale). Prese di posizione utili a sapere da dove passa la libertà, appunto. A liberarsi dell’inutile e offensivo riferimento alle tovagliette e alla quantità di bevande calde bevute dalle donne che lavorano in editoria, che ieri sono state citate da un “noto polemista” che, guarda caso, attacca proprio alcune fra le poche, pochissime in Italia, che invece oggi i libri li scrivono, e campano di quello che scrivono e soltanto di quello. Sarà forse questo il problema: l’invidia del professionismo, che ha sostituito l’invidia del pene.

 

 

Luigi Vergallo è nato a Lecce nel 1978. Vive e lavora a Milano, dove coordina l’area di ricerca storica di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli; è scrittore noir, professore universitario a contratto di Fonti e metodi per lo studio delle criminalità, nonché scrittore che si occupa principalmente di storia delle criminalità appunto e di aspetti storico-economici dell’età contemporanea. Ha pubblicato libri e saggi di carattere storico, racconti e romanzi.

 

Immagine in apertura: Valie Export, Körperkonfiguration, MAHONIFLÖTE, 1982

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