Da addetto ai lavori (da 26 anni faccio il soccorritore, alternando attività professionale e volontariato) mi permetto di condividere alcune sensazioni, senza alcuna pretesa di rigore intellettuale ma come un ipotetico “diario di bordo”.  Mi scuso per la forma un po’ prolissa, ovviamente ogni informazione/affermazione che faccio è figlia di situazioni vissute in prima persona in queste ultime settimane.

Di tutta questa disumana vicenda, esiste un livello igienico-sanitario, che non è solo rappresentato dalla rincorsa alla presunta oggettività della scienza che asservita alla politica prova a disporre delle nostre vite, ma anche dalla umanità dolente che nella e di sanità vive (e sopravvive). A fronte “della chiusura di interi comparti produttivi e alle limitazioni delle libertà individuali” spacciati come necessari ai cittadini come unica chiave di risoluzione del problema epidemico, il monolite del decisionismo delle istituzioni che schiaccia i senza tetto e i meno forti si sta infrangendo alla deriva sulla discrezionalità, sugli opportunismi, sulle scelte economiche e aziendali, sull’irrinunciabile voglia di politica e di protagonismo di tanti addetti ai lavori e degli amministratori pubblici.

Faccio alcuni esempi per rendere l’idea:

– Falle operative come gestioni discrezionali di DPI da parte dei reparti ospedalieri (ad es. a domanda su perché noi indossiamo tute e loro camici in area critica,il personale di alcuni ospedali tra cui ICCS di Milano e il civile di Voghera per citare gli ultimi due in ordine di tempo, risponde che non ne sono dotati); come gestioni scriteriate di percorsi sporco-pulito da parte di colleghi soccorritori (settimana scorsa a più riprese l’ingresso del Fatebenefratelli di Milano disseminato di guanti e mascherine usate a terra, perché nessuno si accolla l’onere economico del rifiuto infetto extraospedaliero ecc);

– Falle “culturali” come le gestioni discrezionali delle informazioni sulle procedure per  la determina dell’applicazione dei criteri del triage e della medicina di emergenza che vengono spacciati da (taluni) medici  e da troppi giornalisti per strumenti eccezionali per tamponare un problema generato dalla banale presenza di un virus e che sono in realtà metodo organizzativo da sempre (chiunque abbia fatto soccorso extraospedaliero o terapia intensiva sa benissimo ad es. che, in presenza di 10-12 mezzi di soccorso avanzato e un elicottero, la SOREU Metropolitana del 118 di Milano gestisce l’urgenza-emergenza di un bacino di utenza di 3.963.916 cittadini, e che, quindi, sempre già in fase pre-ospedaliera si applicano criteri di “scelta” tra pazienti più o meno critici; o sa che in una terapia intensiva un paziente respiratorio cronico con una media di ricoveri di uno al mese difficilmente potrà aspettarsi una ventilazione meccanica assistita);

– Falle organizzative: discrezionalità da parte dei medici dei servizi di continuità assistenziale che negli scorsi mesi a fronte delle prime influenze non hanno esitato a consigliare metodicamente ricoveri ospedalieri agli anziani (ho visto casi di quasi centenari), giustificandosi con la presenza di acuzie neurologiche e omettendo di svolgere le proprie visite a domicilio e creando così i presupposti per la diffusione delle decine di virus influenzali (e chissà forse visti i numeri e le tempistiche anche del nostro SARS-Cov2, in pieno inverno e in compresenza di oltre 60 giorni di sforamenti del PM10);

– Latitanza dei medici di base che sono ormai sovraccarichi e chiamati a svolgere le attività dei servizi di prossimità ormai estinti dai tagli alla spesa sanitaria; latitanza della prevenzione, in primis delle malattia respiratorie croniche, per cui si agisce lo stato di emergenza igienico-sanitaria ma si continua a vendere sigarette, e via discorrendo.

Basterebbe già questo livello di analisi  a dirci che la guerra (per usare le bellissime metafore tanto care alle veline del potere) si sta combattendo certo non contro  il contagio con un virus mortale ma contro “governanti dissennati che hanno tagliato i fondi al sistema sanitario, e che ora hanno la pretesa di avere trovato la soluzione giusta nel fermo immagine della vita sociale ed economica”.

Aggiungo che forse esiste un livello economico-politico che conferisce significato alla banale scelta dello stato di emergenza e che (riprendo Agamben): “lo stato di eccezione, a cui i governi ci hanno abituati da tempo, è veramente diventato la condizione normale”. Dal 17 marzo del 2000 a Napoli, passando per Genova e la Val Susa, le zone rosse hanno raggiunto la loro perfezione criminale: non più solo in ingresso ma anche in uscita (la protezione civile inviata a Vo Euganeo con le torri faro per illuminare a giorno i fuggitivi nei campi definisce perfettamente questa opzione, che viene suggerita dalla politica come innocente “strumento di protezione” invece che come una sinistra omologa dei campi di concentramento e delle carceri di massima sicurezza).

Una “fase test”, insomma, per dispositivi, sufficientemente lunga per divorarsi diritti costituzionali, un referendum costituzionale, uno sciopero nazionale e l’intera agenda politica di un paese già alla deriva e che è pronta per essere replicata al prossimo terremoto od alla prossima frana (o al prossimo virus ricombinante).

Ed infine la questione della narrazione: chiunque abbia cercato di dare una cornice solida a tutto questo psicodramma sfuggente – si vedano i social network che sono la mangiatoia dove si è nutrito finora di allarmi, protagonismi, testimonianze farlocche e disinformazione -, chiunque abbia cercato di mantenere la calma puntando su un livello di analisi più approfondito è stato tacciato di irresponsabilità, scarso senso civico, ma ciò che è più scandaloso anche di scarsa solidarietà . Si riscopre solidale anche il paese dove il 50% degli investimenti pedonali si risolve in una omissione di soccorso, dove il vicino morto da solo lo si scopre solo quando la puzza si spande per la scala, solidale quel tanto che basta per dire agli altri cosa si deve fare e cosa non si deve fare, ma non abbastanza per provare a fare qualcosa d’altro che non sia cantare sul balcone.

E qui vengo all’ultimo punto: ieri sera alla quarta volta che mettevo una tuta bianca con cappuccio tre paia di guanti maschera e occhiali per andare a capire se il 40enne che aveva chiamato il 118 presentava un quadro clinico compatibile col Covid19, riflettevo sulla necessità di rompere il meccanismo per cui si dice agli altri cosa è opportuno fare ma nessuno fa nulla, neanche la cosa più normale che è chiedersi perché siamo arrivati a tanto e come ne uscirà la società italiana, cioè con le ossa rotte non certo per il numero dei decessi ma per la catastrofe sociale ed economica che ci aspetta. E così, mentre entro in casa mascherato, per vedere una persona di 47 anni sofferente che respira a fatica e provata da 11 giorni di febbre alta, accompagnato da un adolescente disorientato, da dietro la moglie preoccupatissima per la paura del ricovero, e degli esiti reali dello stesso (“Senta ma se non posso circolare, come posso andare a prendere mio marito se lo lasciano andare stasera?”), ecco spuntare una bambina di circa sei anni che mi saluta sorridendo e mi dice: “Ciao! Tu come ti chiami? Io sono della classe dei gialli!”.

Ecco, gli innocenti, violentati dal fuoco del napalm, come dei fiori che qualcuno sta provando a estirpare col diserbante, rifioriscono improvvisamente, quando meno te lo aspetti, come la piantina di issopo di Whitehead.  Cara Sara, ecco chi socializzerà  la nostra rabbia e la renderà politica.

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