Di fronte al caos internazionale oggi dominante (Ucraina e Palestina), alla geopolitica che si sta riscrivendo e alle difficoltà europee nel delineare un progetto adeguato rispetto alle varie crisi del presente e alle sfide del futuro, di fronte a un governo nazionale che adotta una manovra economica del tutto inutile per fronteggiare le sfide strutturali che ci troviamo ad affrontare e alle difficoltà delle parti sociali nel definire un ordine di priorità e una proposta di alternativa, non poteva mancare naturalmente l’incredibile polemica sullo sciopero generale sollevata dal Ministro Salvini.

L’ambiente economico e sociale affronta le grandi sfide di struttura, cambiare il motore della macchina senza fermala, con battute e iniziative mai all’altezza delle sfide inedite che dobbiamo affrontare. Emerge chiaramente che pochi hanno voglia affrontare in modo serio i diritti presi sul serio (L. Einaudi), i diritti di II e III generazione di N. Bobbio, e financo il sindacato fatica a trovare una piattaforma sulle principali questioni, tra cui quella di scegliere il terreno di scontro per contrastare le diseguaglianze: nel mercato o via provvedimenti fiscali? Oggi prevale una alleanza incredibile: sono tutti d’accordo nel chiedere la riduzione delle tasse. Chi scrive preferisce maggiori tasse e più servizi pubblici; chi chiede minori tasse a parità di servizi pubblici mente sapendo di mentire!

Ovviamente le manifestazioni (sciopero generale) di CGIL e UIL devono riuscire, ma lo sciopero generale dovrebbe avere ben altro impatto simbolico e soprattutto, dovrebbe indicare degli obbiettivi precisi, deve fare male sul serio alla controparte, in questo caso il governo e sarebbe il caso di ricordare tutte le responsabilità del capitale.

La frammentazione dello sciopero su più date non sembra, purtroppo, una iniziativa tesa a bloccare il Paese e/o rivendicare alla controparte padronale quanto dovuto. Forse è l’inizio, ma serve una prospettiva capace di rimettere al centro il conflitto dentro la discussione economica, capace di incidere sul rapporto tra capitale e lavoro. Confindustria ha fatto, in modo del tutto indisturbato, i suoi interessi, platealmente appoggiata dal governo Meloni con il risultato di riportare il lavoro alle condizioni (diritti) degli anni Sessanta, prima dell’autunno caldo. In Italia il conflitto capitale-lavoro, anche con riferimento alla distribuzione funzionale del reddito, ha visto un solo vincitore: il capitale. Ormai i giovani, formatosi nelle nostre università, fuggono dal Paese perché la domanda di lavoro è incoerente con i livelli di sapere conseguiti dai nostri ragazzi, per non parlare dei salari di ingresso.

Non sarebbe compito dei sindacati indicare le migliori politiche economiche per risollevare il Paese, anche se in un tempo non molto lontano la CGIL ha predisposto un piano del lavoro e delle contro finanziarie a cui avevano concorso i migliori economisti del paese, per delineare il terreno di scontro necessario.

Sebbene la manovra economica sia un guscio vuoto e brucia qualcosa come 16 mld di euro tra taglio del cuneo fiscale e riduzione delle aliquote fiscali, si poteva almeno tentare di esercitare delle pressioni tese a (pro)muovere delle misure che intervenissero nel sistema produttivo, modificando il potere del capitale vs il lavoro.

Quello che manca a tutti i soggetti sociali, economici e politici in campo è il bisogno/necessità di organizzare un terreno di discussione/conflitto proprio sui temi che meglio e più di altri condizionano la vita dei lavoratori e dei cittadini. La mitica Joan Robinson, sul tema del conflitto capitale-lavoro, rifletteva proprio sulla necessità di un “agio” del conflitto sociale che diversamente sarebbe diventato una catena. Utilizzava parole diverse, ma il senso è questo.

Possiamo discutere delle diverse potenziali entrate fiscali, al paese mancano strutturalmente non meno di 30 mld di euro per far funzionare dignitosamente la macchina pubblica, ma dobbiamo misurarci con problemi di struttura profondi. Il 23 novembre l’Europa potrebbe adottare il nuovo Patto di Stabilità Europeo; non possiamo eludere il tema. Il disegno del Patto è una sostanziale invarianza tra bilancio pubblico tendenziale e programmatico. Cosa dobbiamo aspettarci? Meglio essere chiari: sul punto ha ragione il ministro Giorgetti che reclama in solitudine la golden rule, cioè gli investimenti devono restare fuori dal Patto di Stabilità. Difficile da digerire, ma la vita e la realtà spesso si presta a queste stranezze.

Scioperare è un atto di coraggio e di sfida verso gli interessi di alcuni. Le rivendicazioni devono essere chiare e particolari. La dittatura non si instaura mai con un atto unilaterale; occorre sempre essere almeno in due. Da una parte si diluisce lo sciopero su più date e regioni, dall’altra (Salvini) precetta.

Onestamente credo che Salvini sia pericoloso perché inconsapevolmente utilizza la politica per comprimere i diritti di I generazione (N. Bobbio), ma allungare lo sciopero generale è un inedito non meno grave. Speriamo ci sia tanta gente almeno nelle piazze, ma lo sciopero generale è un’altra cosa: si blocca il paese!

Personalmente sollevo almeno tre riforme di struttura che devono tornare all’attenzione della politica e dei soggetti sociali: (1) la necessità di riscrivere la matrice dei contratti nazionali (CNNL), avvicinandoli sempre più alla classificazione Istat dell’attività economica. Ciò aumenterebbe il numero dei lavoratori coinvolti e quindi il potere contrattuale; (2) una qualche idea di politica industriale. Si tratta di industrializzare quel poco (tanto) di ricerca pubblica al fine di modificare la specializzazione produttiva del Paese ormai piegata al solo costo degli input; (3) rilancio della Pubblica Amministrazione. Piaccia o non piaccia, alla pubblica amministrazione servono non meno di 600.000 nuovi tecnici che possano far funzionare meglio la macchina pubblica.

Un progetto piccolo, ma almeno capace di modificare (in piccolo) gli equilibri di mercato.

 

 

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