Pubblichiamo un nuovo contributo al dibattito lanciato da Effimera dopo la manifestazione NoExpo Mayday di Milano. Uno sguardo che proviene direttamente dall’interno del movimento milanese. Altri pareri seguiranno…

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Sicuramente parte del dibattito sul conflitto che si è sviluppato dopo la NoExpoMayDay resterà. In maniera un po’ provocatoria però occorre dire che questo dibattito non è troppo distante da quello che si è sviluppato dopo il 15 ottobre 2011. Certo le piazze sono diverse e quindi anche i particolari. Ma molto si sta replicando.

Quasi quattro anni sono passati dal 15 ottobre 2011 e sembra una coazione a ripetere il fiume di parole che si stanno sviluppando. Forse e con un po’ d’umiltà forse dobbiamo prendere atto che se si ripete parte del dibattito significa che alcune questioni sono rimaste li, ferme. Ma soprattutto siamo sicuri che in questi anni siamo riusciti a sviluppare una reale lettura delle trasformazioni del capitalismo? E quindi siamo sicuri che il conflitto si possa misurare sempre con le stesse categorie?

No, non è un discorso autoassolvente da e per interni al movimento. È una domanda, retorica e semplice.

Con onestà forse dovremmo dire che si questo primo maggio è un punto di svolta per i movimenti ovvero la necessità, senza fermare lotte e resistenze, di capire cosa sta accadendo al nostro nemico.

Provocatoriamente continuo: Wallerstein ci dice che il capitalismo mentre attraversa la sua crisi sistemica irreversibile non sta morendo ma sta cambiando faccia. Quello che era prima del 2008 non sarà più norma domani. Cosa sarà però domani? Non lo sappiamo. Non lo sappiamo perché nemmeno il capitalismo lo sa. La ristrutturazione del capitale passa da una guerra prima di tutto interna al capitale stesso. Quindi la trasformazione del capitalismo si riversa nel mondo con scomposta violenza che aggredisce qualunque ambito della vita, non solo umana ma anche animale e ambientale. La guerra torna a essere elemento di controllo e conquista. Guerra che ha molteplici forme, non solo quella dell’aggressione militare ad un altro stato. La crisi dello stato nazione e conseguentemente delle “istituzioni democratiche” in continuità alle conquiste della rivoluzione francese è una chiara azione del neoliberismo. I luoghi del potere sembrano scomparire dalle cartine, la fluidità e la virtualizzazione del mondo (anche grazie ad internet) sono la nuova realtà. Realtà che impone anche cambiamenti organizzativi nella ricerca di costruzione di strutture politiche. Questi alcuni appunti evidenti di ciò che sta cambiando.

Wallerstein dice con chiarezza che ogni sistema economico non esce vivo dalla crisi strutturale. Da una crisi strutturale si esce in due dimensioni differenti:

  • Una ristrutturazione sistemica
  • La negazione del sistema

La prima opzione è quella che stiamo quindi vivendo e subendo. Non sembra ad oggi possibile un opzione antisistemica reale. Davanti alla crisi senza ritorno del capitalismo per come l’abbiamo conosciuto fino alla fase neoliberale/finanziaria l’assenza di una proposta composita, con una tendenza maggioritaria, ci costringe a pratiche di resistenza contro le violente prove d’uscita del capitale stesso e a non avere una prospettiva rivoluzionaria.

Da tanti anni i movimenti ragionano su pratiche di resistenza in ogni parte del mondo. Qualche volta ci scontriamo con ribellioni ed esplosioni di rabbia, che poi non sono altro che diverse forme di resistenza. Più esaltanti ma non differenti.

Pratica e teoria, teoria e pratica devono andare di pari passo. Il ragionamento sulle pratiche del conflitto senza un apparato teorico sono sterili e deboli. Teorie rivoluzionarie e radicali senza un piano di realizzabilità pratica restano buone per gli ambiti accademici ma inutili ai fini della rivoluzione. Il nodo è qui.

La discussione sulle pratiche del conflitto senza avere un realistico piano di comprensione de nemico rendono quindi la discussione ed il dibattito sul conflitto prossimo all’inutilità. Inutile in ogni sua sfumatura.

Agendo una provocazione e una forzatura come si usa fare quando per studiare fenomeni fisici e chimici complessi si crea un modello “non reale” ma realistico, che permette la teorizzazione pura del fenomeno, dico che negli ultimi anni non sono state fatte analisi sulle trasformazioni fluide e dinamiche del capitalismo dentro la crisi. Questa forzatura e provocazione dà la possibilità di rendere meno complesso e più diretto il discorso. Non vogliono negare assolutamente gli studi e le analisi sul capitalismo cognitivo, sul diritto alla città, sul capitalismo estrattivo e via di seguito, ma facendo per un attimo finta che o non ci siano o non siano stati capaci di ibridare movimenti e società, andiamo via più netti e diretti. Quindi in questo sta la creazione di un piano realistico ma “non reale” nell’analisi del fenomeno “conflitto”.

Per capire come far male al capitalismo dobbiamo davvero possedere gli strumenti per capire cos’è il capitalismo oggi, capire come agisce nelle metropoli o nelle campagne o addirittura se agisce in maniera simmetrica o asimmetrica su metropoli e campagne ecc ecc. Non è cosa da poco.

Questo non significa che occorre fermarsi e smettere di lottare e resistere fino a sentirsi possessori della chiave di volta. Però occorre anche avere l’ambizione di ribaltare il piatto. Non accontentarci della resistenza ma pensare di osare (magari anche perdendo) di passare alla controffensiva.

Il linguaggio è pratica di lotta, liberazione, e resistenza quindi è per me importante dire che non si sta parlando di una “rottamazione” del movimento nel movimento. Si parla al massimo di fare operazione verità, ammettere limiti ed errori, e senza fermare le proprie attività muoversi nella ricerca di un piano teorico e pratico capace di essere efficace, efficiente e nuovamente non solo conflittuale ma anche immediatamente riconoscibile, replicabili e magari capace di creare immaginario.

Il conflitto è quindi un dato materiale, la sua materialità è da ricercare. Con coraggio. Abbandonando anche le certezze di cui ci siamo nutriti negli ultimi decenni. Il conflitto, e le sue pratiche, non sono date ma sono da ricercare, creare e sperimentare. Sempre con onestà non possiamo notare che non solo il dibattito sul conflitto è simile all’ottobre del 2011 ma soprattutto le pratiche del conflitto su cui riflettiamo sono, per lo più, le stesse da diversi decenni. Cortei, presidi, parade, azioni dirette, flash mob, rapporto con i media, creazione di nuovi media, logistiche alternative, autonomie, reti, sport popolare, e tutto ciò che abbiamo sperimentato negli anni, dove e come farlo per rispondere alle trasformazioni del nemico. Anche di questo dobbiamo parlare per non ritrovarci nuovamente a dibattere di un qualcosa che più che del merito del contenuto è spesso discorso tra ceto politico, di movimento.

Teoria e pratica per nuove forme di conflitto che ci facciano superare l’epoca delle resistenze. Così si potrebbe sintetizzare il ragionamento. Per chiuderlo però vorrei far notare qualcosa che sembrerebbe avere la forma del particolare, ma è qualcosa di sostanziale. Dalla resistenza contro il nazifascismo in Italia alle virtuose esperienze rivoluzionarie del Chiapas Zapatista o della Rojava vediamo come le donne hanno avuto un ruolo fondamentale non solo nella soggettivazione individuale ma anche nella strutturazione della lotta e del movimento politico. Scrivo questo perché resta altresì evidente come i movimenti italiani (e non solo) siano attraversati da nuove forme di muscolarità, da non intendere solo in maniera fisica ma anche proprio della relazione biopolitica e anche solo politica. La soggettivazione femminile o lgbtq infatti è parallela, troppo spesso, e fa fatica ad ibridare e ibridarsi. Senza questo lavoro di concerto e soggettivazione interna ai movimenti difficilmente è pensabile che si possano trovare le chiavi di lettura non solo delle trasformazioni del capitale, ma, anche e soprattutto, le pratiche del conflitto, e così le vie per una possibile rivoluzione.

 

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