Una recensione al libro Reddito di base. Liberare il XXI secolo, di Andrea Fumagalli, Sandro Gobetti, Cristina Morini e Rachele Serino, Momo Edizioni, 2021
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Reddito di base. Liberare il XXI secolo scritto da Andrea Fumagalli, Sandro Gobetti, Cristina Morini e Rachele Serino è un libro estremamente utile per il nostro tempo. In primo luogo perché il tema del reddito di base è emerso con forza negli ultimi due anni a causa dell’impatto della pandemia sulla vita di milioni di persone nel mondo. In particolare, in Italia, si è discusso spesso nei movimenti della possibilità di estendere, senza condizionalità, il Reddito di Cittadinanza. Il tema di cui parla il libro, quindi, rientra a pieno titolo in un possibile programma su cui far convergere le forze ed opporsi al governo e al tipo di società che potrebbe emergere al termine di questa pandemia.
In secondo luogo, il testo ha il grande merito di tirare le somme intorno al dibattito sul reddito di base.
Il libro si apre con delle domande poste grazie ad un’analisi attenta delle trasformazioni del capitalismo degli ultimi trent’anni e che può essere collegata all’emergere del biocapitalismo, la cui base operativa risiede nelle profonde differenze con quello industriale. Il capitalismo di oggi, a differenza del capitalismo industriale, non solo costruisce prodotti meccanicamente, ma vuole anche prendersi cura delle foreste o della vita degli uomini. Trasforma il lavoro di riproduzione in lavoro produttivo e assieme ad esso tutte le istituzioni del welfare state.
A tutto ciò si aggiungono le trasformazioni che il mondo del lavoro ha attraversato in questo periodo e che vanno collegate al neoliberismo emergente, al dilagare del settore dei servizi nell’economia mondiale (in particolare nei paesi a capitalismo maturo) e al carattere immateriale e cognitivo del lavoro contemporaneo .
Questa analisi va collegata, tramite la domanda “chi genera oggi la ricchezza nel capitalismo?”, all’oggetto di discussione del libro. Possiamo giungere alla risposta parlando dello sfruttamento del Comune da parte del biocapitalismo. Uno sfruttamento che non riguarda più solamente la forza fisica dei lavoratori nello spazio circoscritto del lavoro formale ma si estende anche al linguaggio, ai segni, ai codici, elementi carichi di affetti che sono immateriali. In poche parole, tutto ciò che gli uomini producono insieme, nello stesso tempo e che coincide, per citare Toni Negri, con il loro “fare moltitudine”.
La proposta del reddito di base sembra essere in grado di rispondere positivamente alle sfide poste da queste trasformazioni del capitalismo. Occorre però distinguere il reddito minimo garantito dal reddito di base.
Nel primo caso abbiamo “un’erogazione economica in denaro, attribuita da parte di un’autorità pubblica a tutti i cittadini, o residenti in un paese, che versano in uno stato di bisogno (individuale e/o familiare) o che sono a rischio povertà (è dunque una misura ex-post) e per riceverlo bisogna dimostrare il proprio stato di necessità (means test).”1
Il reddito minimo non ha necessariamente come riferimento l’individuo, ma le unità domestiche, in cui la prova del bisogno segue criteri cumulativi a seconda della composizione familiare. Il più comune è il calcolo effettuato sul reddito pro capite. Buona parte dei programmi di reddito minimo garantito adotta condizionalità che si concentrano sul mondo del lavoro, puntando all’inserimento dei beneficiari nel mercato del lavoro. Ciò significa che le condizioni riguardano la ricerca di un lavoro, la disponibilità a prestare servizi determinata dall’ente che fornisce quel servizio o l’obbligo di accettare occupazioni formalmente offerte al beneficiario nel mercato del lavoro, qualunque esso sia.
Programmi del genere esistono in molte nazioni europee, riflettendo la storia dell’implementazione del welfare state nella nazione in questione.
Ad esso possiamo opporre il reddito di base “attribuito da un’autorità pubblica a tutte le persone, indistintamente (è dunque una misura ex-ante), senza alcun condizionamento ad accettare un lavoro, senza la richiesta di un requisito reddituale o patrimoniale. (…) Si tratta di un reddito destinato a tutti gli esseri umani in quanto diritto umano e viene erogato per tutta la vita.”2
La proposta di un reddito di base universale e incondizionato ha generato discussioni molto accese e spesso figlie di preconcetti ideologici e il libro ci consente di entrare, dettagliatamente, nel cuore di questa proposta sempre più centrale nelle lotte dei movimenti di lavoratori precari e non solo. Basti citare le riflessioni in merito del movimento femminista.
Una delle caratteristiche più importanti che caratterizzano le proposte di reddito di base è che si tratta di una prestazione regolare ed un reddito monetario, cioè pagato in contanti.
Il reddito di cittadinanza deve essere pagato individualmente. Questo aiuta a differenziare la proposta da molti altri programmi di trasferimento monetario. Il pagamento individualizzato significa che non si tratta di un vantaggio basato sulla prova delle esigenze di un particolare nucleo familiare. Più che promuovere l’individualità, questa qualità indica la sua universalità, tenendo presente che i benefici offerti dai governi non dipenderanno dai cambiamenti del nucleo familiare o dalle condizioni di ciascun membro di una famiglia.
Si tratta di un diritto universale. Ciò significa, dal punto di vista di chi la difende, che questa è una politica che non si concentra solo sui più poveri. Il beneficio non fa parte di un sistema di superamento dei bisogni, ma un diritto che si estende a tutti i membri di quella comunità politica.
Questo è uno degli elementi caratterizzanti il reddito di base che più suscita dibattiti e perplessità, generalmente legata ai costi dell’universalità.
Questa discussione merita un breve approfondimento. È opportuno qui presentare degli argomenti a favore della premessa dell’universalità che meriterebbero una discussione a parte e che sono presenti in parte nel libro.
Il principale è contribuire al superamento delle trappole che accompagnano la povertà quando vengono trattate attraverso programmi eccessivamente mirati e condizionati. Si tratta della trappola della disoccupazione e anche della trappola dell’occupazione. Nella prima, una persona finisce, in qualche modo, per restare fuori dal mercato del lavoro, soprattutto formale, temendo che, altrimenti, finirà per perdere i benefici previsti dallo Stato. Non accettando un’offerta di lavoro, il suo periodo di inattività si prolunga, il che può significare maggiori difficoltà in seguito per ottenere un nuovo lavoro. Inoltre, ovviamente, significa livelli inferiori di reddito diretto.
La trappola dell’occupazione è l’opposto. Poiché non rientrano nei termini del pagamento di trasferimenti mirati di denaro, anche in una situazione di elevata vulnerabilità, gli individui accettano lavori e attività precarie, a volte anche illecite, che nuocciono alla loro salute e mettono a rischio la loro vita . Un reddito di base universale contribuisce proprio a impedire che questi scenari si riproducano.
Chiaramente, allocare risorse per un programma di trasferimento a tutte le persone richiederebbe risorse oltre le capacità disponibili per qualsiasi governo. Si tratta di costi finanziari che devono essere presi in considerazione nell’adozione di qualsiasi politica pubblica, non solo nel caso della protezione sociale. Da questo punto di vista il libro è carente nell’analisi dei costi necessari per sostenere una proposta del genere. Vi dedica un paragrafo in cui vengono fatti gli esempi di un Quantitative easing for people che prevede l’erogazione diretta di denaro alle persone e non alla banche oppure il ritorno della proposta della Tobin tax. Personalmente nutro molto dubbi sulla necessità di erogare un reddito di base anche a persone benestanti. Su questo versante sono frequenti le critiche dal mondo sindacale che paventa la possibilità di usare il reddito di base come grimaldello per smantellare il welfare state. Il libro, però, è estremamente chiaro nell’affermare che non esiste un’unica proposta di basic income e sicuramente letture come quella precedente esistono ma altre di sinistra ritengono sia possibile coniugare una proposta del genere con il mantenimento del welfare e il perseguimento di altre politiche per creare buona occupazione.
Infine, la proposta del reddito di cittadinanza si caratterizza anche per essere esente da obblighi, cioè incondizionata.
Il libro descrive molti casi di sperimentazione del reddito di base per iniziative della stessa società civile o degli Stati. Sono esempi pratici estremamente utili per capire l’impatto di una proposta del genere sulla vita delle persone. Dall’emancipazione femminile in India alla sviluppo di intere città in Africa, vengono smontati tanti miti che associano il reddito di base all’assistenzialismo che “impigrisce i poveri sul divano”. Quello che nella realtà avviene è l’esatto opposto. Intere comunità riprendono a vivere grazie al reddito di base.
L’ultimo capitolo riguarda più da vicino il nostro paese. Vi troviamo la storia del dibattito che ha preceduto l’introduzione del reddito di cittadinanza e tutti i suoi limiti.
La questione si lega ai ritardi del nostro welfare ancora legato a schemi categoriali e carente sul piano della copertura universale. Risponde ad una configurazione del mercato del lavoro ormai scomparsa. Questi buchi producono fenomeni come il Silver Welfare, in cui le pensioni dei nonni integrano i magri salari di figli e nipoti, futuri pensionati poveri a causa di una storia contributiva estremamente discontinua.
Il reddito di base dovrebbe intervenire nella protezione di tutti dalla povertà ma la versione italiana, il cosiddetto reddito di cittadinanza, si dimostra essere una forma di workfare che oltre a vincolare l’erogazione del reddito alla disponibilità al lavoro (incluse le ore di lavori socialmente utili per il comune di residenza) esclude i migranti residenti in Italia da meno di 10 anni.
Durante la pandemia si è dimostrato uno strumento indispensabile per affrontare il calo delle entrate dovuto al lockdown ma il dibattito che ruota intorno a questa proposta di bandiera del M5S va in una direzione opposta all’eliminazione dei vincoli e dei paletti che riducono la platea che può usufruire del reddito. Si concentra ossessivamente sui pochi percettori irregolari del reddito, viene alimentata una squallida retorica che mira a criminalizzare i poveri in quanto tali con l’idea, per niente mascherata, di eliminare quanto prima questa misura. Ritengo l’idea del reddito di base importante e necessaria in ogni programma politico progressista e per niente in contraddizione con misure miranti al raggiungimento della piena occupazione. Un punto poco sviluppato dal libro è la falsa opposizione tra “lavoristi” e sostenitori del reddito di base. Ma penso che questo testo possa contribuire a superare queste inutili divisioni proprio grazie al suo carattere divulgativo che con chiarezza spiega cosa sia effettivamente il reddito di base e come possa essere declinato anche a destra (vedasi l’Imposta negativa sul reddito di Milton Friedman), dimostrano la natura di aperta della proposta. Spetterà a noi decidere quale tipo di reddito di base vogliamo.
NOTE
1“Reddito di base. Liberare il XXI secolo”, pag.36
2“Reddito di base. Liberare il XXI secolo”, pag.36
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