“Egli rifiuta la loro offerta d’amore, considerandola un adescamento, una seduzione all’assoggettamento. Egli afferma che sarà ed è amato per qualche altra ragione, che loro non possono comprendere e di cui non dà spiegazioni”.
Judith Butler su David Raimer.
Tradotta in Italiano per la prima volta per Meltemi nel 2006 con il titolo La disfatta del genere, l’importante raccolta di saggi di Judith Butler uscita sotto il titolo di Undoing gender nel 2004, è stata appena ripubblicata in Italiano da Mimesis che ne ha affidato la curatela a Federico Zappino. Fare e dis-fare il genere – nuovo titolo scelto per la raccolta – rende senz’altro meglio giustizia ai saggi che compongono il testo, nei quali Butler si confronta con le sfide e gli interrogativi della “new gender politics”, dei movimenti trans* queer e intersex, a partire dalle questioni chiave affrontate lungo tutto l’arco della sua ricerca filosofica: il riconoscimento, i regimi differenziali di produzione dell’umano, la vulnerabilità, il lutto e direi la radice etero-normativa del binarismo di genere. In questa raccolta Butler si confronta o torna a confrontarsi anche con la questione della differenza sessuale, con il tabù dell’incesto nella produzione psicanalitica e con tanto altro, ma è a mio parere nei saggi che affrontano più direttamente alcune delle questioni cruciali poste dai suddetti movimenti e si confrontano con il problema della trasformazione sociale che vengono proposte le chiavi di lettura più interessanti. Infatti a distanza di quasi dieci anni dalla prima edizione italiana, in uno scenario completamente sconvolto dalla ristrutturazione mortifera del capitalismo, Undoing gender si può rivelare paradossalmente un libro ancora più utile e importante per ragionare sull’orizzonte possibile della politica. Ed è in questo modo che voglio provare a leggerlo, cosciente di tradirlo in una certa misura.
In primo luogo Undoing gender si rivela un testo utile e importante per i movimenti queer e trans femministi. In un orizzonte politico in cui molt@ attivist@ e ricercatori Ma Undoing gender oggi non parla solo ai movimenti queer e transfemministi. Attraverso la riflessione sul soggetto, sull’individualità, sull’autonomia, questo testo parla anche a tutti i movimenti sociali che combattono le politiche predatorie del neoliberismo nella sua fase attuale e che nella riflessione queer e femminista possono trovare una lente di lettura irrinunciabile. Intanto sebbene non parli esplicitamente di neoliberismo, uno dei fil rouge dei saggi raccolti nel volume, ovvero l’enfasi sulla costitutiva interdipenza che ci caratterizza, la riflessione sui limiti dell’autonomia del soggetto rappresenta una leva fondamentale contro la ragione neoliberista che fonda la propria ontologia sul soggetto sovrano e proprietario. Per Butler il soggetto non è sovrano né tanto meno proprietario: semmai non “possiede” pienamente neppure se stesso, il “proprio” genere, la “propria” sessualità. Il soggetto è anzi non solo fondamentalmente vulnerabile all’altro, ma anche costitutivamente dipendente “Si tratta di una dipendenza che non sempre è possibile narrare o giustificare, – scrive Butler – che spesso interrompe il resoconto cosciente che si prova a dare di se stessi e che sfida la stessa idea di un Io autonomo e sovrano” (p. 55). L’”ontologia” dell’interdipendenza delineata da Butler a partire dalle vite e dalle soggettività queer, trans* e intersex, può potenzialmente costituire la base di una prospettiva politica che sovverta la razionalità e il discorso neoliberale e neoliberista da una prospettiva distintamente queer femminista, continuando ad articolare il problema degli effetti mortiferi della norma etero patriarcale e a tenere al centro la questione dell’autodeterminazione. Infine il testo di Butler, se produttivamente “tradito”, può essere utile anche per individuare strumenti critici da mettere in campo nel conflitto dentro e contro il lavoro in fase di ristrutturazione. Undoing gender affronta insistentemente e da varie prospettive il problema del riconoscimento come “luogo di potere attraverso il quale l’essere umano viene prodotto in maniera differenziale”. “Attraverso l’esperienza del riconoscimento ciascuna di noi si costituisc(e) come un essere socialmente possibile” scrive l’autrice. Pertanto coloro che sfidano le norme che regolano l’intellegibilità mettono in discussione la propria stessa capacità di essere soggetti “socialmente possibili”. Butler discute questo problema a partire dalle vite delle soggettività che sfidano l’ordine di genere e sessuale che organizza l’intellegibilità dei soggetti e quindi regola in modo differenziale l’inclusione nell’umano. Tuttavia con una mossa che spero mi sia perdonata vorrei provare a utilizzare – sicuramente banalizzandole – le riflessioni di Butler sul problema del rapporto tra norme e riconoscimento per tentare di trarne delle indicazioni utili anche su un terreno (solo apparentemente)[2] altro. Lavoro e riconoscimento hanno infatti uno stretto legame, oggi come ieri. Il lavoro è da tempo un sito di validazione e di riconoscimento potente, ma oggi che le forme dello sfruttamento raggiungono livelli parossistici, paradossalmente lo è ancora di più. Da una parte infatti il lavoro si espande fino a inglobare ogni ambito dell’esistenza, dall’altra le forme di riconoscimento che offre cambiano drasticamente. Questo riconoscimento infatti si presenta sempre meno sotto forma di salario (eroso se non assente), e in generale sempre meno sotto forma di riconoscimento economico (es. la possibilità di trovare un lavoro retribuito nel futuro) nel momento in cui il lavoro gratuito – che si manifesta oggi in un numero crescente di forme lungo il continuum lavoro riconosciuto/lavoro non riconosciuto (http://www.commonware.org/index.php/neetwork/502-lavorare-per-nulla) – diventa sempre più frequente (per un dibattito su questi temi si veda http://smaschieramenti.noblogs.org/post/2014/11/11/lavoro-non-pagato-basta/; http://ilmanifesto.info/i-sogni-infranti-dei-free-lance/; http://ilmanifesto.info/leconomia-politica-della-promessa/). In questo senso, peraltro, segnando un ulteriore passo nel processo di “femminilizzazione del lavoro”: giova infatti ricordare che il lavoro di cura tutt’ora svolto dalle donne è lavoro gratuito non riconosciuto come tale perché letto come espressione naturale e spontanea della femminilità. Pertanto paradossalmente il lavoro diventa sempre più sito di validazione proprio nel momento in cui offre sempre più un riconoscimento solo “simbolico” e sul “riconoscimento simbolico” – mi si permetta il gioco di parole – punta tutte le sue carte. La promessa di riconoscimento – del proprio valore, del proprio merito, della propria “utilità”, ma anche del proprio genere, della propria soggettività e più in generale del proprio essere soggetti sociali “degni” e possibili – peraltro perpetuamente differito, diventa infatti sempre più la contropartita del lavoro: si tratta di un dispositivo perverso di estrazione di valore e al contempo di cattura delle soggettività. Ovviamente questo discorso vale soprattutto per il lavoro cognitivo, ma non solo. Il “farsi soggettivo della produzione” è un processo che si concretizza non solo nella messa a lavoro di tutte le nostre vite, il nostro genere, la nostra sessualità, la nostra soggettività, i nostri affetti etc., ma anche nel fatto che le forme di sfruttamento e di estrazione di valore tendono a coincidere sempre di più precisamente con i processi di soggettivazione. Questa coincidenza ha tragiche conseguenze perché la posta in gioco quando pratichiamo forme di sottrazione e dis-identificazione, di rifiuto dentro e contro il lavoro è molto più alta. Resistere alle lusinghe paradossali della promessa di riconoscimento e di riconoscibilità sociale che costituisce una delle forme attraverso cui il lavoro, e tanto più il lavoro gratuito o semigratuito, è oggi sollecitato mette in gioco la nostra stessa possibilità di essere soggetti (in-generati) possibili. Per liberarci di questa trappola non ci servono meccanismi di colpevolizzazione (ad esempio della tendenza a “lavorare per mettersi in evidenza” o delle aspirazioni ad ottenere un riconoscimento della propria soggettività, dato che questa è un problema strutturale e non un vezzo individuale), ci servono chiavi di lettura – oltre quella del ricatto, che dato lo stato di cose presenti non può più essere l’unica – per decodificare le leve della nostra disponibilità ma soprattutto strumenti che sostengano la nostra indisponibilità a questi meccanismi di estrazione di valore, le nostre forme creative di infedeltà ai meccanismi di (ri)produzione del nostro sfruttamento. A livello materiale prima di tutto, ma anche a livello “simbolico”, per così dire. Strumenti che ci permettano di resistere ai meccanismi di sfruttamento e di valorizzazione, di sovvertire l’ordine del discorso del successo e del merito, che ci permetta di coltivare l’arte queer del fallimento[3] senza “dis-farci”, materialmente e soggettivamente, completamente. O meglio dis-facendoci, sì, ma per ri-farci non tanto altrove quanto soprattutto contro. Ora il legame di tutto questo con alcuni dei testi raccolti in Undoing gender è proprio qui, dal momento che in diversi di questi Butler si/ci interroga sulla posta in gioco della sfida alle norme che governano la riconoscibilità dei soggetti insistendo sul fatto che questa sfida “non è affatto un compito facile, poiché può determinare che l’Io diventi come inconoscibile, come minacciato dall’inesistenza sociale, dalla possibilità di divenire totalmente neutralizzato dal suo stesso rifiuto di incarnare la norma che rende questo “Io” pienamente riconoscibile”. In questo senso Butler ci offre degli strumenti concettuali per aiutarci ad articolare una lettura dei meccanismi di “seduzione” messi in campo dal capitale[4]. Ma al contempo la filosofa ci dice anche che la possibilità di stabilire una “relazione critica (con la norma ndr) dipende anche dalla capacità, esclusivamente collettiva, di articolare una versione alternativa, minoritaria, di sostegni normativi o ideali che mi consentano di agire”. Una capacità collettiva che le soggettività queer che coltivano l’arte del fallimento rispetto alle norme dominanti (molto bello e commuovente in questo senso il saggio su David Reimer) hanno storicamente dovuto imparare per potersi garantire la sopravvivenza. Pertanto la possibilità di disidentificarci dall’ordine vigente, di “disfare e rifare” l’ordine del possibile, dipende (anche) dalla capacità di creare collettivamente spazi e comunità politiche che consentano materialmente e simbolicamente di essere “socialmente possibili” contro le norme dominanti che allocano in modo differenziale riconoscimento e “valore”. Perché «promuovere altre forme di senso comune, subalterne, queer o contro egemoniche che valorizzino le discontinuità, la cooperazione, gli stili di vita non riproduttivi e improduttivi », come scrivevano tempo fa Simona de Simoni e Beatrice Busi, non può che essere un’impresa collettiva che necessita di reti, o comunità (non terribili) che sostengano le nostre vite e le rendano vivibili contro gli imperativi ma anche gli “adescamenti”e le “seduzioni all’assoggettamento” messi in campo dal capitale. [1] Si veda per citare solo qualche esempio Dean Spade “Normal life. Administrative Violence, Critical Trans Politics and the Limits of Law” (http://crg.berkeley.edu/sites/default/files/Nov18-DeanSpadeReadings.pdf). Si veda anche l’interessante saggio di Nat Raha “Queer marxism and the task of contemporary queer social critique” che fa anche uno stato dell’arte del marxismo queer. https://www.academia.edu/9220681/Queer_Marxism_and_the_task_of_contemporary_queer_social_critique [2] Si rimanda qui alla riflessione sulla messa a lavoro dei generi e sulla lettura del genere come lavoro messa in campo dai movimenti trans femministi e queer (si veda ad esempio http://sommovimentonazioanale.noblogs.org/post/2014/11/13/sciopero-sociale-sciopero-dai-generi-dei-generi/; http://www.euronomade.info/?p=224). [3] J. J. Halberstam, The queer art of failure, Durham, Duke University Press, 2011 [4] Ovviamente questi meccanismi di seduzione rischiano di avere tanto più presa sui soggetti quanto minori sono le altre forme possibili di riconoscimento sociale, ma essi funzionano – in modo differenziato – per tutti. Articolo pubblicato su Commonware
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