La sceneggiatura del prossimo decennio.
“Non si tratta di avvertire il pericolo quando è ormai presente, ma di scorgerne gli indizi, valutarli, interpretarli, insomma, considerarli in modo critico.
Per esempio: quei nuvoloni all’orizzonte, significano che arriverà una pioggia passeggera, quale sarà la sua intensità, si dirigerà di qua o si allontanerà?
O si tratta di qualcosa di più grande, più terribile, più distruttivo? Se così fosse, bisognerà allertare tutt@ dell’imminenza della Tormenta.
Noi, zapatiste e zapatisti, vediamo e sentiamo che sta arrivando una catastrofe in tutti i sensi, una tormenta.
… vediamo che si continua a ricorrere agli stessi metodi di lotta. Si continua con i cortei, reali o virtuali, con elezioni, con sondaggi, con riunioni. Come se lo Stato fosse sempre lo stesso, come se avesse le stesse funzioni di 20, 40, 100 anni fa. Come se anche il sistema fosse lo stesso e uguali le forme di sottomissione, di distruzione. Come se là in alto il Potere avesse mantenuto invariato il suo funzionamento. Come se l’idra non avesse rigenerato le sue molteplici teste.”
(La sentinella e la tormenta, comunicato dell’EZLN, aprile 2015)
Progettando questo convegno ci siamo sentiti un po’ disorientati: non è chiaro chi saranno i convenuti, non sappiamo da dove veniamo né dove vogliamo andare.
Leggendo il programma del convegno, esaminando la vastità dei temi e delle esperienze si può prevedere che il convegno non sarà noioso né inutile. Ma la questione è un’altra: intendiamo limitarci ad ascoltare resoconti ed analisi sulle vicende greche e spagnole e sulle esperienze di auto-organizzazione sociale nella crisi oppure intendiamo determinare uno spostamento dello sguardo, magari piccolo ma decisivo?
Stiamo procedendo secondo il metodo che Horace Walpole definì serendipity:
“Quando le loro altezze di Serendip viaggiavano, per accidente e per sagacia, continuavano a scoprire cose di cui non erano in cerca: per esempio, uno di loro scoprì che un cammello cieco dall’occhio destro era passato da poco per la stessa strada, dato che l’erba era stata mangiata solo sul lato sinistro, dove appariva ridotta peggio che sul destro.”
Quale fattore di attrazione convoca persone che in larga parte neppure si conoscono?
Il filo conduttore dei contributi in programma è la creazione di esperienze di autonomia esistenziale per l’epoca che viene. Abbandonata dunque ogni progettualità, ogni intenzione di trasformare i rapporti di forza?
Forse no, ma quel che ci occorre adesso è una sceneggiatura del futuro che componga in maniera originale la dimensione dell’inevitabile (la tormenta) e quella del possibile. Possibile è ciò che sta dentro la composizione esistente del lavoro, particolarmente del lavoro cognitivo, i saperi, la tecnologia. Ma sappiamo che il possibile non è destinato necessariamente ad attualizzarsi; può attualizzarsi soltanto se la tormenta non distrugge le condizioni per il suo dispiegamento e se la soggettività possiede la potenza per mettere a frutto il possibile. Questa potenza ora manca. L’attualizzazione del possibile (il dispiegamento delle potenzialità liberatorie dei saperi di cui siamo portatori e della tecnologia in cui questi saperi si incorporano) può darsi soltanto a certe condizioni. E queste condizioni non ci sono oggi perché la precarietà soggettiva e la potenza distruttiva del capitalismo finanziario ostacolano il dispiegarsi del possibile, fino a renderlo invisibile inconcepibile, impronunciabile. Ecco ad esempio che le tecnologie di riduzione del lavoro necessario provocano un aumento della disoccupazione e contemporaneamente un prolungamento del tempo di lavoro-vita. I governi di tutto il pianeta impongono ai lavoratori di lavorare più a lungo e più intensamente mentre sono mature le condizioni per ridurre il lavoro e liberare tempo per il piacere e per la cura. La superstizione del lavoro salariato è la catena che ostacola l’attualizzazione del possibile. Per questo il reddito di cittadinanza è strategico: perché segna l’emergere della consapevolezza che il rapporto tra lavoro e sopravvivenza non è una legge naturale, ma un retaggio dell’epoca della scarsità dalla quale siamo virtualmente usciti, ma che ci perseguita come una maledizione.
È in questo accecamento della società, in questa invisibilità del possibile che sta la sconfitta dei movimenti, la cui ultima manifestazione si è avuta durante l’amara estate di Syriza.
Quel che ci occorre ora – ciò cui lavoreremo a Milano se saremo in forma – è una sceneggiatura per i prossimi dieci anni che tenga conto di due cose: la tormenta è in arrivo, anzi è già in corso. Le energie soggettive sono spente, disgregate e depresse. Non si supera la depressione ignorandola. Si supera immergendosi senza paura nelle ragioni della depressione (che è la condizione più vicina alla verità, come Hillman avverte), per poi portare a galla quel nucleo di possibile che non è cancellato né disperso.
Per dirla fuor di metafora: nel prossimo decennio dovremo convivere con la guerra, la violenza nazionalista, la miseria, la catastrofe ambientale. Ma durante questo periodo di involuzione profonda dobbiamo creare le condizioni soggettive (psichiche cognitive e politiche) per la ricomposizione del lavoro cognitivo come fattore autonomo di rifinalizzazione degli automatismi tecno-linguistici che automatizzano la produzione. Dobbiamo trasmettere alla generazione che verrà dopo la tormenta la coscienza di questa possibilità, la ricchezza e l’allegria dell’essere autonomi.
Da Lenin a Negri (si parva licet componere magnis), la storia del comunismo è stata storia di maschi che pur di non guardare negli occhi la bestia della fragilità, dell’impotenza e della depressione erano disposti ad affrontare il drago che sputa fuoco e fiamme. Ma il drago è ancora là, più cattivo che mai, e non ha senso continuare la tragica commedia. Non possiamo partire dalla potenza della società perché questa è dissolta. Dobbiamo partire dall’infelicità, comprenderne le ragioni e la fenomenologia non perché siamo sacerdoti della sfiga, ma perché solo assumendo il punto di vista della solitudine e dello smarrimento potremo parlare al lavoro precario. Solo sobrietà e compassione sono la condizione della solidarietà, e quindi del riemergere della possibile forza emancipatrice della conoscenza sociale.
Che bello questo scritto….le parole fanno già bene alla solitudine. Partire dall’infelicità é una gran cosa…..parlare al disagio richiede peró delle doti non comuni e non proprie a tutti. Molto più facile il solito schema….prendere il toro per le corna o il drago per le ali rischiando di essere inceneriti. Trovare vie d’uscita al presente é impresa titanica e personalmente sono proprio sfiduciata e stanca….pessimista. Forse verró ad ascoltare chi porterà il proprio contributo al convegno, se non altro per curiosità.