Venerdì 18 marzo, alle ore 15, si terrà una presentazione della nuova edizione del libro di Giovanni Arrighi “Adam Smith a Pechino” (Mimesis Edizioni, Milano, 2021), alla libreria Aleph, Piazza Lima, stazione M1, Milano. Parteciperanno Andrea Fumagalli, Sandro Mezzadra, Simone Pieranni, Salvo Torre e, in collegamento da Pechino, Gabriele Battaglia.

“Intorno alla proposta di riedizione di questo testo, fortemente voluta dall’editore e realizzata grazie a Beverly Silver, si è raccolto un dibattito animato dalla volontà e dall’impegno di Giorgio Bonazzi e Saro Romeo, impegnati a ritessere il filo delle riflessioni che lega l’esperienza del Gruppo Gramsci all’elaborazione nei decenni successivi di una lunga serie di categorie analitiche e politiche che sono state abitate dai movimenti europei. È il primo passo di un percorso che porta a confrontarsi anche con le categorie che hanno animato i grandi processi di mutamento sociale”.

Qui il link per la connessione da remoto.

In vista dell’appuntamento, pubblichiamo alcuni stralci dell’ottima prefazione di Salvo Torre al volume.

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“Riproporre un’edizione di Adam Smith a Pechino quindici anni dopo la prima pubblicazione è una scelta forte, che comporta anche una riflessione su quanto è avvenuto negli ultimi anni, sui conflitti politici globali e sulla capacità delle diverse grandi proposte interpretative di leggere i mutamenti del capitalismo. Probabilmente si tratta di uno dei libri a cui si deve la rinascita del dibattito sulle crisi economiche e sulla natura della modernità capitalista, avvenuta nell’ultimo ventennio nelle scienze sociali e in una parte del dibattito politico. Come ha sottolineato Immanuel Wallerstein, ad un certo momento della fine dello scorso secolo abbiamo smesso di parlare di crisi economiche, concentrandoci sulla categoria di globalizzazione. Per oltre un ventennio inoltre, nella fase di maggiore ascesa del modello neoliberale, in buona parte delle accademie occidentali e del dibattito critico, lo stesso riferimento al termine capitalismo sembrava produrre una certa insofferenza. È stato un momento che ha segnato una grande differenza rispetto al dibattito che nel frattempo si svolgeva nel Sud del mondo, è stato un primo indice di periferizzazione. Non si è trattato solo di un costrutto di potere che mirava a eliminare la critica della realtà, la cancellazione dell’enorme dibattito sulle crisi del capitalismo dipendeva probabilmente anche dai limiti delle categorie usate fino a quel momento per proporre percorsi di mutamento politico. Parlare di capitalismo significa infatti sin dall’origine dell’economia classica, appunto anche dai testi di Smith, parlare degli enormi disequilibri sociali che comporta il suo funzionamento. In quella fase perfino il dibattito critico occidentale ha seguito nel suo stesso campo la costruzione neoliberale, ha spostato l’attenzione su una serie di questioni determinanti, ma evitando di fatto di confrontarsi sul terreno della critica generale ai modelli sociali. Il tutto nonostante la sequenza di crisi che ha costellato il primo decennio del nuovo millennio abbia riproposto drammaticamente la questione del legame inestricabile tra crisi economico-sociali e crisi ecologiche, la connessione tra conflitti armati e struttura del potere globale, l’impossibilità di risolvere le diseguaglianze dentro lo stesso schema di funzionamento della società. Probabilmente è stato anche un momento di grande differenziazione tra il pensiero critico occidentale e il dibattito decoloniale, il pensiero femminista e quello ecologista che proprio all’inizio del millennio hanno rilanciato una serie di elementi forti di critica anticapitalista, a partire dai movimenti che si sono opposti alla globalizzazione neoliberale.”

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“All’inizio del millennio una parte del dibattito economico individuava già chiaramente nelle economie dell’Asia orientale il motore propulsivo dello sviluppo economico mondiale. Viviamo quindi nel secolo cinese, il cui inizio viene fissato da Arrighi realmente negli anni Novanta dello scorso secolo; che si prenda come punto di avvio del declino dell’egemonia statunitense il 1971 (l’inizio dell’età neoliberale per Harvey) o il 1979 (la controrivoluzione monetarista secondo quanto sostiene Arrighi), che si consideri l’età neoliberale come l’apice del sistema nato con l’industrializzazione o che la si consideri la fase finale del capitalismo, c’è una concordanza generale nell’individuare un processo di costante perdita di egemonia degli Stati Uniti, nell’accezione gramsciana, in favore di un temporaneo mantenimento del dominio. Gli ultimi quindici anni stanno disegnando inoltre una strana stasi dentro quella fase che Appaduraj definisce dominio senza egemonia e a cui Arrighi ricorre spesso per spiegare le differenze tra le varie crisi. Le due anime del potere statunitense a cui il testo fa riferimento – quella che mira alla costruzione di uno stato mondiale e quella che al contrario mira all’isolazionismo –, si sono confrontate di nuovo nel tentativo di recuperare la belle époque e l’idea di stato mondiale con l’amministrazione Obama e in quello di recuperare il modello isolazionista durante l’amministrazione Trump. Ciò che è evidente ormai è l’inesistenza reale dell’assetto di potere che era emerso alla fine della guerra fredda. Così come la Cina è stata la vera vincitrice della guerra fredda, adesso sembra uscire vincente dalla guerra al terrorismo, la sua economia sembra uscire rafforzata dalla pandemia e il suo ruolo appare chiaro nei vari scenari di conflitti sulle risorse, in Asia centrale e in tutto il continente africano. Nonostante il profilarsi della prima grande bolla immobiliare, dell’aumento dei costi del gas e delle materie prime, possiede un sistema in grado di superare crisi finanziarie insostenibili dal resto delle economie locali. La Cina è oggi il primo partner commerciale del pianeta, parafrasando la citazione marxiana richiamata nel testo, questa volta “i tenui prezzi delle merci” cinesi hanno espugnato le muraglie dell’occidente, al contrario di quanto avvenuto nel XIX secolo. Tutto ciò però a patto di usare lo stesso sistema, di esporsi alla necessità di utilizzare quella che Harvey chiama “fusione contraddittoria” tra l’imperialismo di tipo statale, quindi la necessità del controllo politico, e il processo elementare di accumulazione, cioè un processo che richiede l’assenza di confini, procede costantemente all’eliminazione dei limiti. Il risultato, secondo la tesi di Arrighi, è un sistema costruito sul modello smithiano più che su quello socialista, un sistema in cui lo stato opera un pesante e costante intervento di regolazione economica. Si tratta di un mutamento ben più profondo del riassetto geopolitico, ciò su cui questo testo ci invita a riflettere è proprio il radicale mutamento del capitalismo, in parte paragonabile a quanto avvenuto in passato durante le fasi di spostamento dell’asse dei sistemi-mondo. Come nella fase di passaggio dall’impero olandese a quello britannico, ad esempio, il pianeta è destinato a subire grandi trasformazioni, ma ciò che questo testo arrivava solo a ipotizzare, per il momento in cui è stato scritto, è che questa volta il livello della crisi è probabilmente più profondo.

Per capire la crisi che stiamo vivendo oggi diventa molto utile ripartire proprio dall’idea di mondo piatto che è stata negli anni al centro di molte delle critiche di Arrighi al pensiero marxiano e anche al marxismo autonomo, non solo all’idea neoliberale per cui il mondo sarebbe stato trasformato in un unico spazio omogeneo. Un’idea compatibile, secondo Arrighi, con la previsione di Marx e Engels sull’uniformazione planetaria, in termini di redditi e costi, che sarebbe stata realizzata dall’espansione del capitale. L’oggetto inoltre di molti dibattiti e critiche che ha mosso nel tempo proprio a Marx, Engels, Hardt e Negri. La storia si è rivelata molto diversa, si è piegata più verso la moltiplicazione delle diseguaglianze, la costruzione di una lunghissima teoria di gerarchie che mira a rendere sempre più complessi i livelli di esclusione dalla ricchezza. Fino all’estremo della situazione attuale, in cui in realtà sembra prevalere il Marx dei Grundrisse, quello che spiega quanto l’inclusione nel lavoro capitalista sia indice di una povertà assoluta, di una sottrazione definitiva dalle possibilità di inclusione sociale o di un riscatto di qualunque tipo. Lo è diventato a scala globale, dentro differenziazioni interne e moltiplicazione di confini e lo è diventato in uno scenario che effettivamente porrebbe delle forti contraddizioni a Smith, quello di un’egemonia senza stato.”

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“Dopo la quarta pandemia degli ultimi vent’anni e dopo l’esplosione della più grande crisi della storia del capitalismo, rileggere le tesi di Arrighi sullo spostamento degli equilibri globali di potere aiuta a comprendere molti dei conflitti degli ultimi anni, il funzionamento delle varie forme di dominio, ma anche la continuità di alcuni processi che si sono realizzati. Molte delle tesi avanzate in questo volume hanno anche una diretta relazione con ciò che è avvenuto negli ultimi quindici anni sul piano del dibattito sul mutamento sociale, soprattutto con quanto è emerso da diversi movimenti e conflitti. Adam Smith a Pechino è un testo che ha un forte valore politico, perché ruota implicitamente anche intorno a due nodi interni al pensiero critico, al dibattito marxista eterodosso, alla linea che congiunge il terzomondismo ai dibattiti postcoloniale e decoloniale. Il testo rispondeva in parte ad una sorta di accusa, quella di essere espressione di un “marxismo neosmithiano” che veniva mossa soprattutto da Robert Brenner. Una certa dose di riferimenti utili a rispondere alle critiche di Brenner si trova lungo tutto il volume. In quelle risposte emerge però a mio parere il tentativo di proseguire lungo la linea che a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo aveva impegnato Arrighi (nel confronto con Amin, Frank e Wallerstein) nella costruzione di un modello interpretativo che tenesse insieme la questione del dominio spaziale e quella del dominio di classe, soprattutto in una prospettiva che va interpretata ancora come esplicitamente rivoluzionaria, trasformatrice. Una delle grandi critiche avanzate al modello dei sistemi-mondo è stata spesso l’accusa di tendere a sostituire allo sfruttamento di classe quello territoriale o comunque a rendere la formazione delle classi un fenomeno interno alla distribuzione spaziale del potere. La storia dell’ascesa del modello cinese spiega perfettamente come le due questioni non siano affatto in contraddizione.”

 

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