A un secolo e mezzo dall’inizio della rivolta parigina, un libro-sommario racconta in dettaglio la realtà dell’evento e le controversie politiche e storiografiche che continua a suscitare ancora oggi.

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1442 pagine, 35 ricercatori, 500 note biografiche, centinaia di documenti iconografici e articoli su tutti gli elementi storici e politici sollevati dall’insurrezione parigina del 16 marzo 1871, 150 anni fa.

Sebbene l’aspetto massiccio dell’opera intitolata La Commune de Paris 1871. Les acteurs, l’événement, les lieux, che hanno appena pubblicato le éditions de l’Atelier, lo impongono un po’, sarebbe però un peccato ridurlo a una summa di riferimento commemorativo, in quanto esplora allo stesso tempo quella che era la realtà della Comune di Parigi, di cui lo storico Michel Cordillot, suo coordinatore, ricorda che essa “non ha mai cessato di essere oggetto di nuova ricerca e di dibattito appassionato”, e le modalità con cui questo evento risuona ancora oggi. Gli usi politici di questo evento “incapace di produrre consenso” sono stati infatti molteplici da un secolo e mezzo. La Comune di Parigi è stata “arruolata” al servizio del Fronte popolare, prima di tornare spettacolarmente sul fronte della scena dal maggio 1968, “in opposizione a un PCF considerato fossilizzato”, e, negli ultimi anni, per irrigare la sinistra radicale come “messa in discussione libertaria della democrazia”, ​​nelle parole dello storico Jacques Rougerie, o come modello per la difesa di uno spazio autonomo, presente nelle ZAD o nella prosa del Comité Invisibles. Più inaspettatamente, “una sezione dell’estrema destra sovversiva – dai boulangisti agli identitari ai fascisti francesi – si sforzò di appropriarsi della Comune”. Al punto che Jacques Doriot (1898-1945) salì con le sue truppe, nel 1944, al Muro Federato per onorare i morti della Comune contemporaneamente a quelli della divisione SS Carlo Magno, costruendo, così facendo, “una chimera della memoria, un’assemblea improbabile e mostruosa”.

Queste successive appropriazioni politiche si sono aggiunte alla persistenza di una leggenda rossa come una leggenda nera dell’evento, ad esempio nel Metronomo di Lorant Deutsch che, con il pretesto di una passeggiata attraverso Parigi, in realtà, equipara la Comune al vandalismo, secondo i dirigenti di una vecchia vulgata reazionaria. Tutto ciò ha contribuito a seppellire la sequenza storica sotto miti e “fantasie relative a ciò che la Comune era e a ciò che voleva essere”, il che significa che, paradossalmente visti i mille riferimenti bibliografici che la riguardano, “la Comune di Parigi resta poco conosciuta”.

Per rimediare a ciò, l’opera sopra citata attinge al forte rinnovamento storiografico avvenuto a partire dal centenario dell’evento e intreccia tre modalità di scrittura per capirlo visto che la stessa definizione non è consensuale rimanendo la parola “comune” una parola buona per tutti. Anche se, ricorda il coordinatore dei lavori, l’idea comunalista è

“maturata lentamente dalla caduta dell’Impero attorno a diverse idee chiave: l’ascesa in massa per difendere la patria invasa – con il richiamo del glorioso precedente dell’anno II – la costituzione di istituzioni repubblicane capaci di promuovere misure veramente democratiche e sociali, la cui natura è ancora da definire, la restituzione ai parigini delle loro libertà municipali”.

Il primo tipo di scrittura è costituito dalle biografie di circa 500 protagonisti della rivolta, in continuità con il lavoro pluridecennale intrapreso da Maitron, un Dizionario biografico del movimento operaio francese ora accessibile online. I bandi sono stati scelti perché le vite che ripercorrono sono state segnate profondamente dalla Comune, come culmine, episodio centrale o punto di partenza della loro esistenza e del loro impegno. Forniscono una comprensione concreta della grande diversità di percorsi ideologici che possono aver portato alla fede comunarda.

Il secondo è costituito da brevi sintesi, problematizzate e documentate su quasi tutti gli aspetti storici dell’evento. Vi si vede come la Guardia Nazionale, con il suo funzionamento democratico che le consente di licenziare i suoi ufficiali, non sempre ha facilitato l’efficienza militare, senza però danneggiarla sistematicamente. Si capisce perché la marcia su Versailles del 3 e 4 aprile sia stata troppo tardiva e senza successo, poiché molti attori della rivolta non volevano aumentare il rischio di guerra civile e volevano dotare la Comune di indiscutibile legittimità organizzando elezioni prima di approfittare del vantaggio militare offerto dalla rivolta del 18 marzo 1871.

Si cercano le cause della rivolta all’incrocio di tre dinamiche “distinte ma confluenti” che risuonarono in quel preciso momento: il processo politico di “repubblicanizzazione”.

La Comune fu una «rivoluzione socialista»? 

La Comune fu una “rivoluzione socialista”? Apprendiamo anche di più sul ruolo delle donne nella Comune e sulla loro messa in discussione del modello sociale esistente, che non era di gusto per la maggior parte dei leader maschi della classe operaia, molti dei quali erano vicini, a questo riguardo, alle concezioni retrograde di Proudhon. Nessuna donna partecipa al potere politico della Comune, che si preoccupa poco delle loro rivendicazioni, anche se si stanno organizzando comitati femminili e alcune partecipano, sulle barricate o altrove, alla lotta contro i reazionari di Versailles. Nel 12° arrondissement fu addirittura organizzato un battaglione di donne, la “legione delle federate”.

Da parte del popolo di Versailles, si è radicò un immaginario particolarmente negativo nei confronti di coloro che avevano trasgredito le norme sociali; esso si cristallizzava nell’immagine delle “donne del petrolio” (dette le pétroleuses) che avrebbero vagato per le strade di Parigi per distruggerle con lattine di latte piene di petrolio, un sotterfugio “che simboleggia l’assoluta trasgressione dell’identità femminile”, da madre a piromane. Tuttavia, queste pétroleuses erano, come alla fine ammise lo scrittore di Versailles Maxime Du Camp, “esseri chimerici, analoghi a salamandre ed elfi. I tribunali dei reazionari non riuscirono a esibirne neanche uno”.

Rimane comunque il cliché della rivolta parigina, al punto che nella primavera del 2018, durante l’occupazione dell’Università di Tolbiac, questa si è autoproclamata “Comune di Tolbiac”, uno striscione dispiegato all’ingresso del cantiere avvertiva: “Se entrano i poliziotti … le compagne pétroleuses!”

Il libro “esamina anche il Comitato di Pubblica Sicurezza, istituito alla fine di aprile. Gli autori ritengono che, “lungi dal salvare la rivoluzione comunalista facendo affidamento sulla dittatura di pochi, la sostituzione di un organo di governo rozzo, ma democratico con un organo centralizzatore, si rivelerà in realtà un tragico errore nel rompere l’unità dei comunardi. Peggio ancora, negando l’idea stessa di democrazia diretta, questo “pasticcio rivoluzionario” contribuirà a distorcere un’esperienza sociale senza precedenti”.

Da notare anche che la Comune avvenne “in un periodo cruciale in cui la fotografia stava per soppiantare l’incisione e la litografia come mezzo di diffusione”. E ha dato vita a molti fotomontaggi che cercano di illustrare i “crimini della Comune”, spesso messi in scena da Eugène Appert, un fotografo forense le cui immagini ritoccate hanno contribuito a screditare i federati agli occhi dell’opinione pubblica e dei posteri, in particolare attraverso le immagini degli emblematici edifici di Parigi in fiamme. Tuttavia, l’opera ricorda che, dietro queste immagini emblematiche del Palazzo delle Tuileries o del municipio devastato dalle fiamme, furono i versagliesi a prendere l’iniziativa per la distruzione, “animati da una concezione moderna, se non innovativa, della guerra urbana”. Infatti, osserva il ricercatore Éric Fournier, “non viene mai dato ordine di attaccare frontalmente le barricate, ma di circondarle o passando per le strade adiacenti, o ‘camminando’ tra gli edifici, vale a dire perforando muri e tramezzi, per stabilire postazioni di tiro a sbalzo”. Secondo una tattica che riecheggia da lontano ciò che Eyal Weizman, il fondatore del collettivo Forensic Architecture, ha notato sulla strategia dell’esercito israeliano nel campo palestinese di Jenin nel 2002, nel suo libro Through the Walls. L’architettura della nuova guerra urbana. Non mancano quindi quasi gli aspetti che l’opera non esplora, anche se fa la scelta geografica di concentrarsi solo su Parigi, quando parte gran parte del rinnovamento storiografico dell’evento negli anni recenti si riferisce alla risonanza di questo in altre città della Francia o all’estero: un’assenza presunta, ma che gli autori riconoscono “criticabile”. Con l’eccezione di alcuni “movimenti comunalisti provinciali”, in particolare a Lione e Marsiglia, le regioni erano per lo più ostili o indifferenti alle richieste degli insorti, senza, tuttavia, schierarsi francamente con il campo di Versailles “, come hanno dimostrato i pochi successi nella raccolta di volontari”.

Al di là di queste sintesi prodotte dalle ultime ricerche, l’aspetto più originale, che costituisce la terza modalità di scrittura dell’opera collettiva edita dalle Editions de l’Atelier, è quello dedicato ai tanti “dibattiti e controversie “che continuano a lavorare sull’interpretazione dell’evento. Questi si riferiscono anche alle rispettive influenze di Proudhon, Marx, Bakunin o Louis Blanc, per quanto riguarda i rapporti che la Comune intratteneva con la “democrazia diretta” o la questione se la Comune fosse una “rivoluzione socialista”.

“Un momento di svolta” 

Non sono solo i grandi litigi interpretativi che il libro illustra, ma anche, in un approccio che va più dal micro al macro, ciò che consente la cura attenta a certi dibattiti apparentemente tecnici, come l’atteggiamento della Comune nei confronti della Banque de France. Nella memoria militante, prevaleva l’idea che il rifiuto di prendere il controllo delle risorse della Banque de France “fosse stato un grave errore, anche un errore commesso da menti troppo moderate”. Una convinzione alimentata in particolare da Marx nella sua rilettura, dieci anni dopo, dell’evento parigino, ma che non si trovava nella sua posizione a caldo, come espressa in La guerra civile in Francia. Gli autori notano che la Comune ha effettivamente mostrato “un rispetto abbastanza grande per la proprietà privata e per tutto ciò che non è stato direttamente sotto il governo municipale”, animato in particolare dall’idea di una necessaria separazione tra il locale e il nazionale. Nell’aprile 1871, pochissimi comunardi si opposero a una politica “che corrispondeva alle idee di gran parte del movimento operaio parigino, ansioso di difendere il credito e di non superare le prerogative comunali che si era assunto”.

Un altro esempio riguarda l’analisi puntuale delle elezioni del 26 marzo e del 16 aprile e quello che dicono questi scrutini sulla “legittimità” della Comune. Le prime trattative tra il comitato centrale della Guardia nazionale e sindaci e deputati di Parigi permisero, infatti, lo svolgimento di elezioni per la nomina dei rappresentanti del popolo parigino. Il 26 marzo 1871, 230.000 elettori su 475.000 elettori registrati diedero un chiaro equilibrio di potere per i candidati comunardi contro i difensori dell’ordine, mostrando un netto divario tra i distretti popolari e quelli più borghesi. La considerevole astensione potrebbe essere spiegata dalla partenza dalla capitale di molti parigini, molti dei quali temevano l’incorporazione di tutti i cittadini adulti nelle compagnie di guerra della Guardia Nazionale. Le elezioni complementari del 16 aprile, tuttavia, mostrarono una vera disaffezione tra gli elettori, con quasi il 70% di astensioni. Un dato che ha alimentato fino ad oggi un processo di illegittimità, ma sul quale gli autori ricordano che la situazione contrapponeva, di fatto, una dubbia legittimità a un’altra, visto che l’Assemblea Nazionale era stata eletta mentre gran parte del nord-est del paese era sotto l’occupazione prussiana e senza alcuna campagna elettorale.

Ma probabilmente la controversia storiografica più politicamente divisiva è quella sul bilancio delle vittime della Settimana di sangue, che alcuni ricercatori e attivisti stimano in oltre 40.000, mentre lo storico britannico Robert Tombs ha recentemente proposto, in un articolo intitolato “How Bloody Was the Bloody Week of 1871? At Revision”, una stima molto più bassa di circa 6.000 morti. Per lo storico Quentin Deluermoz, che ripercorre i dibattiti, questa battaglia di numeri non è vana. Per la storia della Rivoluzione francese, il lavoro recente ha così mostrato la sovra-estimazione storiche di alcuni eventi piuttosto che di altri, la cui portata mortale era tuttavia altrettanto importante, come la battaglia di Montréjeau, raramente menzionata, non lontano da Tolosa, che nel 1799 provocò tuttavia quasi 5.000 morti.

Ma questa battaglia vale soprattutto per le interpretazioni sottostanti che implica. Robert Tombs, che era interessato “ai grandi dimenticati di questa storia, al campo di Versailles e ai soldati della Settimana di sangue”, giudica che questa revisione non toglie nulla al fatto che questa settimana sia stata “uno dei massacri più terribili di civili nella storia europea del XIX secolo”. Ma questo gli permette di sottolineare che “nonostante i suoi evidenti abusi l’esercito di Versailles rimase relativamente controllato dalla sua organizzazione e dal suo comando” (a rischio di normalizzare un massacro di carattere eccezionale che costituisce una pietra miliare nell’antropologia della violenza di Stato).

Ciò che rimane sorprendente una volta chiuso questo libro-sommario è tutto ciò che ha prodotto e permea ancora una sequenza storica così breve. Iniziata il 18 marzo 1871, la Comune non fu insediata fino al 29 marzo e dovette interrompere le sue sessioni il 21 maggio: solo 54 giorni di esistenza. In queste condizioni, soprattutto combattendo una guerra, “avrebbero potuto i comunardi cambiare definitivamente la vita? No, senza dubbio. Tuttavia, hanno fatto di più e meglio dei governi che li hanno preceduti”, ritiene Michel Cordillot.

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Pubblicato su Mediapart il 24 gennaio 2021