L’Europa, la crisi e la guerra. Brevi considerazioni su quanto scritto da Alex Foti, Giso Amendola e Toni Negri

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Ho letto, tutti insieme e un po’ in ritardo, ma con curiosità e interesse, i tre interventi apparsi, separatamente, sul sito Euronomade. Le questioni poste sono davvero rilevanti e meritano meditata attenzione; la crisi politica legata ai temi della guerra (o meglio: delle numerose guerre) in corso e il (conseguente? non ne sono affatto certo) fenomeno di migrazione in massa mettono in discussione, radicalmente, le basi su cui gli equilibri del vecchio continente sonnecchiavano senza apparenti scosse.

Forse è eccessivo parlare di un terremoto, ma non è ormai più possibile credere in una crisi passeggera, di carattere periodico, cui far fronte con mezzi ordinari. Questa non è, infatti, una mera crisi finanziaria o una semplice (ricorrente) tempesta valutaria. La bufera del debito e le necessità governative di fare cassa investono con violenza il modo di vivere e le attese di reddito di una intera generazione ormai prossima alla pensione, quella nata dentro il c.d. welfare (sono molti, in percentuale, gli anziani in eurozona); questo maltempo non accenna a smettere e ormai ha incrinato la fiducia nel futuro immediato, creando un clima di panico, un senso di paura, un diffondersi di ansia. Così, a proposito di ansia, torna in mente l’esordio scelto da W.H. Auden per la sua egloga barocca (The Age of Anxiety appunto): Quando il processo storico si interrompe d’improvviso e le armate, con le loro dispute precostituite, organizzano il vuoto che segue alla crisi e che esse non potranno mai consacrare, quando la necessità si accompagna all’orrore e la libertà alla noia, allora per i bar è il tempo di buoni affari.

Fra i trentenni/quarantenni la forbice del reddito, la separazione fra ricchezza e indigenza, si è allargata: i poveri sono sempre più poveri e più numerosi, i ricchi sono sempre più ricchi e meno numerosi. Il crescente divario ha modificato anche le regole di accesso al potere, non solo in quello di gestione delle imprese (finanziarie o tradizionali) ma anche in quello di governo (locale e non, legislativo esecutivo o giudiziario). Per rimanere nei palazzi della politica serve denaro e inevitabilmente si consolida il legame con chi è in grado di offrirlo. I rappresentanti dell’interesse materiale operaio o contadino sono un retaggio del passato, non esistono più e tanto meno possono essere rimpiazzati dai delegati di una moltitudine precaria la cui vita è stata messa a lavoro; gli eletti emergono mediante una selezione interna all’organizzazione dello spettacolo, magari grazie a una qualche brillante intuizione comunicativa, poi rimangono comunque soli, alle prese con un ingranaggio complesso che non consente diserzioni. È sotto gli occhi di tutti, e non si sottraggono certo alla regola generale i parlamentari europei o i membri della Commissione dei singoli paesi.

Intanto sta per entrare in scena una nuova generazione, nata nella precarietà ormai istituzionalizzata e legittimata dal diritto positivo, abituata sia alla moneta unica sia, e soprattutto, a muoversi senza frontiere dentro l’eurozona in cui ciascuno ha avuto il destino di nascere. Come tutti i nuovi soggetti sono essi stessi gli arbitri del proprio destino; dunque ogni previsione aliena è davvero impossibile. Ma chi vuole tornare allo stato nazionale, alle barriere di filo spinato o alla famiglia tradizionale e patriarcale prima o poi dovrà affrontare la cosa con loro, e non è mai facile percorrere a ritroso il cammino della storia.

Alex Foti, utilizzando un vocabolario a mezza via fra Marinetti e Carducci, si diverte a provocare: come attivisti e rivoluzionari dobbiamo dar vita ad una unione politica, fiscale, sociale, militare (con quest’ultimo aggettivo vuol spaventare la sinistra pacifista). E propone di fondare la repubblica federale continentale su questi principi: uguaglianza di genere, antirazzismo, secolarizzazione, solidarietà, tolleranza. Il progetto (guidato dagli attivisti rivoluzionari) prevede l’unificazione di socialisti, ecologisti, femministe e anarchici, in tutti i paesi dell’eurozona (ben 19, compresa la Slovacchia del premier socialista Robert Fico, che ha fondato la campagna elettorale sul respingimento dei migranti e definito Schengen una groviera e si prepara a varare un esecutivo misto destra sinistra). Convincere i socialisti europei alla solidarietà e alla tolleranza è già impresa ardua; ma ancora più improbabile appare poter condurre gli anarchici dentro la Nato o le femministe all’alleanza con la teocrazia iraniana o gli ecologisti ad accettare la linea comunitaria in tema di alimentazione libera dai controlli, inquinamento industriale tollerato, uso imprenditoriale dell’acqua e delle risorse naturali. A sostegno di un programma in verità assai sorprendente Alex indica l’elaborazione teorico scientifica di uno studioso irlandese, Brendan Simms, presidente di Project for Democratic Union; per capire bene la collocazione politica del personaggio si consideri che il suo riferimento italiano è Giorgio La Malfa, l’ondivago repubblicano sempre a cavallo fra centrodestra e centrosinistra. Si badi bene. Il problema esiste, va affrontato senza pregiudizi, sollevarlo è sacrosanto. Tuttavia non è realpolitik ma una resa davanti alle circostanze il pensare alla ricomposizione insieme a questo socialismo reale. Non esiste attualmente alcuno spazio di mediazione possibile; e chi la rifiuta è la rete di governo, decisa ad estromettere qualsiasi opposizione dalla partecipazione ai meccanismi di gestione. Anarchici, radicali, sindacalisti di base, precari, migranti, minoranze di ogni tipo o genere debbono essere piegati alle esigenze del mercato. O essere puniti. La Commissione Europea intende ridurre (non aumentare) i diritti individuali (ne abbiamo avuto conferma in Francia, con le leggi speciali imposte da Hollande); nel momento in cui si accetta il principio di una guerra in corso (mai dichiarata, con un nemico di volta in volta annunciato, affidata solo a militari di carriera, senza regole e senza dibattito parlamentare) si attua una sorta di servitù volontaria e non esistono più i diritti del singolo soggetto. Anche la democrazia sociale appare incompatibile con le scelte attuali; nel momento in cui si procede alla scomposizione dell’orario lavorativo e viene meno, insieme, un luogo fisico in cui l’energia lavorativa diventa merce (e la merce si presenta essa stessa smaterializzata) la necessità di welfare cede il passo a quella di accelerare la sussunzione reale. Inevitabile, dunque, e inarrestabile aggiungo, è la dissoluzione (non dell’Europa, dell’Eurozona ma piuttosto) del patto sociale stipulato fra cristiani, liberali, riformisti, nel vecchio continente e nella parte a occidente della cortina di ferro. Vogliono la dissoluzione di quella Europa proprio i socialisti su cui il nostro amico Alex conta per farla risorgere nelle vesti di una repubblica democratica e federale. Dunque più che di realpolitik temo si tratti soltanto di una vana illusione, destinata ad incontrare (anche) una pesantissima sconfitta elettorale.

I paesi dell’est investiti dal gigantesco flusso migratorio si caratterizzano per maggioranze diverse (di destra o di centrosinistra) e solo in piccola parte hanno adottato l’euro; ma sono concordi nel rifiutare la solidarietà, la tolleranza e l’accoglienza, nell’erigere barriere di filo spinato a difesa delle frontiere nazionali, intercettando il malcontento dei ceti popolari che non sono disposti a sacrifici ulteriori, a nuovi tagli di un reddito già magro. In molti dei 28 stati cresce il peso elettorale di una nuova destra, piena di rancore e decisa a colpire la folla dei migranti percepiti come la sorgente di ogni disgrazia; al tempo stesso si avviano verso opzioni autoritarie anche le strutture dei partiti storici, spesso riuniti in coalizione. Nessuno vuole davvero rompere l’unione; è in discussione soltanto il metodo migliore per esercitare il comando. A ben vedere la Commissione dei 28 tiene saldamente le redini e impone obbedienza (la Grecia costruisce i campi di raccolta, la Francia sgombera Calais); l’ideologia della guerra all’Isis, necessaria e purificatrice, consente di mettere a tacere la coscienza collettiva, di procedere lungo la via della sussunzione, della nuova economia fondata sul prendere e nel pretendere l’esistenza intera della generazione precaria su cui viene esercitata la tirannia del capitalismo finanziario. La guerra poggia su mercenari e sull’esercito di mestiere (e non vi è a ben vedere gran differenza), regolata da decreti governativi espressamente segreti (ci si perdoni l’ossimoro); fazioni nemiche si trasformano in alleate o viceversa, sempre senza spiegazioni e sempre senza dibattito parlamentare. Intanto l’attività d’impresa prosegue inarrestabile nell’area. In Somalia si sono costituiti nuovi stati e sono sorte nuove città; al tempo stesso una folla si sposta a nord, abituata alla violenza e decisa a migliorare le condizioni di vita. Non fuggono dalla guerra, sono stanchi di precarietà. L’esodo di massa dalle terre asiatiche ed africane si congiunge all’abituale mobilità dei giovani europei, i destini si incrociano, governare il caos non è semplice e determina tirannia. Questa, caro Alex, è la vera realpolitik di fronte alla quale ci troviamo; il resto è sogno.

Ha dunque buon gioco Toni Negri nel rispondergli che nessun mutamento di rotta sarà possibile fin quando sopravvive l’attuale apparato di comando, ovvero l’elite (inefficiente e corrotta) responsabile delle politiche di austerità. Il ragionamento corre lucido nelle premesse: la crisi dell’unificazione europea (Schengen, Dublino, Brexit) è determinata dal fallimento di un metodo, quello che ha messo al centro del progetto federale l’unione doganale, privilegiando di fatto soltanto il liberismo di mercato e tralasciando invece la realizzazione di una solida comunità in cui i cittadini europei potessero riconoscersi, cooperando nel realizzare la ricchezza sociale e tenendo ferma (protetta) la rete di valori fondanti. Toni Negri sottolinea l’importanza e la centralità del rapporto dialettico fra Cina e Stati Uniti; questa sostanziale modifica dell’equilibrio complessivo sarebbe alla base del senso di isolamento nei territori orientali del nostro continente (e dunque del crescente sentimento xenofobo che sta caratterizzando l’intera area della ex cortina di ferro). Il pericolo appare duplice allora – dentro una crisi a carattere comunque irreversibile – e sta non solo nella possibile dissoluzione della struttura unitaria, ma anche (e sembra ci capire, secondo Negri, soprattutto) nella sua permanenza. Non è dunque per nulla scontato uno scenario (come quello evocato da Alex Foti) che veda la dissoluzione dell’Unione Europea quale diretta conseguenza della crisi finanziaria, della recessione economica, della contrazione dei redditi, della deflazione, della precarietà; non è scontato neppure che lo scenario di guerra contro il fondamentalismo islamico, evocato dagli apprendisti stregoni dei partiti socialisti (Hollande, ma non solo Hollande), si leghi, con effetto sinergico, ai movimenti della destra nazionalista provocando il blocco del processo storico (break out scriveva Auden nella citazione che ho utilizzato in apertura). Mi pare che, al momento almeno, l’accordo politico fra democristiani e socialisti sia solido e soprattutto senza alternativa parlamentare. Le liti sono senza dubbio continue e le divergenze profonde, ma entrambe le fazioni sanno di non poter fare a meno l’una dell’altra: la discussione fra Renzi e Merkel avverrebbe negli stessi termini se al tavolo ci fossero Sigmar Gabriel e Renato Brunetta. Ha ragione Toni Negri nel delineare la presenza di un diffuso fascismo molle il cui rilievo è acuito dalla inarrestabile marcia dell’emigrazione che attraversa tutta la vecchia Europa, dalle isole della Grecia fino a Calais ( e fino agli estremi confini della Finlandia, magari dentro il tunnel della Manica!). Ma non mi convince che una permanenza sciagurata sia destinata (per hegeliana astuzia della ragione) a sfociare nella fine dell’Europa, secondo tappe inevitabili e matematiche nel loro svolgimento. Soprattutto considerando il fatto che la Grecia di Tsipras sembra assai rassegnata allo stato di cose presente, che in Spagna e in Portogallo i successi elettorali non trovano la via per approdare al governo, che in Italia le opposizioni sembrano impegnate a sbranarsi fra loro puntellando una struttura di comando fra le più carnevalesche che questo paese (pur fertile nel generare questa sorta di prodotti) abbia mai conosciuto.

Non vi è dubbio che una società formata dentro una simile permanenza induca a scarso entusiasmo; ma questo ceto politico (inefficiente e corrotto) sembra allenato anche a cavar sangue dai muri. Bisogna sicuramente avviare un processo di liberazione; ma dubito che possa svilupparsi se insieme non si sviluppa un processo di emancipazione dalla forma attuale dell’organizzazione del lavoro imposta con forme di governance che non possono non essere di crescente autoritarismo (o dispotismo o tirannia: la tirannia della moderna forma di capitale). E’ pensabile un processo di emancipazione (fondato sulla cooperazione e sul comune) dentro uno scontro fra istituzione europea, americana, cinese, russa, araba? Ovvero possiamo ancora, non dal punto di vista del capitale ma dal punto di vista precario, ragionare in termini di appartenenza continentale? Ho molti dubbi. Il villaggio globale non ha cancellato il territorio in cui vivono, con senso di appartenenza, i protagonisti dello scontro sociale, pregando, lavorando, mangiando, scioperando e perfino sparando. Ma insieme alla caduta dell’orario lavorativo (della stessa giornata lavorativa) e alla scomparsa del luogo fisico in cui la cooperazione caratterizza l’odierno ciclo merce/denaro (finanza, ricchezza, reddito, rendita: tutto è assorbito nel tempo della biopolitica) non sono forse divenute fragili (tigri di carta avremmo detto in altri anni) le barriere, i muri, le frontiere? La mia impressione è che la repubblica federale europea sia insieme troppo e tuttavia troppo poco. Di certo non si intravede, in questa legislatura, una maggioranza capace di far proprio un Commonwealth e neppure di lasciar spazio (più modestamente) al DIEM25, nonostante l’adesione di John Mc Donnel; per Varoufakis i commissari probabilmente hanno in serbo un trattamento ancora più brusco di quello riservatogli quando era ministro!

Il senso di impotenza che ci coglie quando si procede alla valutazione della crisi e dello stallo che caratterizza la vecchia Europa apre l’ingresso alle valutazioni contenute in un saggio, davvero ampio e articolato, come quello di Giso Amendola. Parla più della situazione italiana, forse, che di quella europea; ma si mostra tuttavia capace di inserirla nel contesto internazionale, affrontando il problema alla radice, ovvero ponendosi il quesito che riguarda proprio la dissoluzione del sistema nella sua interezza. E coglie subito un primo punto essenziale , ovvero che le modifiche costituzionali e la riforma elettorale non possono essere considerate la causa del processo di esecutivizzazione ma piuttosto ne costituiscono l’effetto; e sotto questo profilo neppure si può ridurre la brusca accelerazione imposta da Matteo Renzi ad una semplice tattica autoritaria, ad una svolta di carattere tradizionalmente repressivo. Il sistema maggioritario (di cui, attenzione, la politica di Grosse Koalition costituisce appendice sostitutiva o qualche volta organica) non produce la crisi di rappresentanza, ma la presuppone. Il rovesciamento del metodo d’indagine mi convince. E anzi andrei oltre. Nel novembre 2005, in Germania, Angela Merkel aprì la stagione delle larghe intese; il meccanismo, solo apparentemente rispettoso del criterio proporzionale, si è consolidato e diffuso e costituisce il fondamento della commissione europea oggi al timone dell’imbarcazione. Nel 2005 vi era stata la bocciatura francese del referendum sulla costituzione europea, e la frattura si era rivelata subito significativa, aveva evidenziato proprio una crisi della rappresentanza, uno scontro sulle prospettive; l’unione dei due maggiori partiti era stata la prima risposta, dettata dall’urgenza e dalla necessità. La sinistra antagonista (francese, italiana e tedesca) era convinta di aver segnato un punto a proprio favore e non aveva compreso che invece si era determinato un cambio di passo che l’avrebbe messa essa stessa in difficoltà di rappresentanza. I partiti della sinistra radicale avevano tagliato il ramo d’albero sul quale stavano seduti. Nel momento in cui emergeva chiaramente la dissoluzione (non della repubblica federale europea ma) dell’orario lavorativo e dello stabilimento tradizionale (in Germania, negli ultimi dieci anni del secolo scorso, era sparito il bacino della Ruhr, grazie ad una formidabile riconversione) anche le costituzioni del lavoro varate nei singoli stati nazionali si stavano in qualche modo inceppando. Giso Amendola ha ragione e coglie nel segno quando rileva che era venuta meno l’impalcatura tradizionale di governo dei processi sociali, che si era verificata una rottura in senso verticale fra ordine normativo e soggettività. Non è solo specificità italiana; è l’unione europea nel suo insieme (ad est come ad ovest, a nord come a sud) che attraversa una tormenta istituzionale di intensità non inferiore a quella legata al debito e alle oscillazioni valutarie. L’immaginario collettivo dei giovani europei ha sempre in mente la caduta del muro di Berlino quale inizio di un tempo; un vecchio comunista, diventato codino e bacchettone (Mario Tronti) preferisce datare due anni dopo (26 dicembre 1991, scioglimento dell’Urss). Francamente non fa molta differenza. Il marco orientale fu cambiato ad un tasso politico che nulla aveva da spartire con il mercato valutario e l’unione europea non ebbe nulla da obiettare. Sono adulti (25-27 anni) i neonati di allora e ormai anziani i loro genitori.

Oggi le due generazioni sono destinatarie entrambe di un nuovo e ben diverso progetto elaborato dal potere per istinto di conservazione, per sopravvivere. La BCE e la Commissione hanno imposto agli stati nazionali il principio costituzionale del pareggio di bilancio. Senza alcun dibattito parlamentare effettivo l’Italia lo ha subito inserito nella Carta; e la modifica è passata senza bisogno di alcun referendum confermativo, a fronte di una maggioranza bulgara al momento dell’approvazione. In un quarto di secolo non erano apparentemente cambiate le strutture istituzionali eppure era cambiato davvero tutto; non esiste connessione o continuità fra il cambio del marco e il principio del pareggio di bilancio! Esiste invece uno scontro, materiale e strisciante, fra gli esperimenti costituenti (di un lavoro che aspira alla cooperazione sociale e al comune) da un lato e la costituzione finanziaria che viene imposta con la forza della tirannia. Lo scontro avviene dentro, a lato, al di fuori, a prescindere dalle forme di rappresentanza; il potere finanziario sa di non poter esercitare controllo, ormai, utilizzando i canali collaudati ma logorati della delega.

Dunque deve (come annota Giso Amendola) riannodare, ma dentro il controllo monetario, la costituzione materiale e la costituzione formale; e per farlo, mi sia consentito aggiungere, non esiste altra via che quella di procedere sulla via della riduzione degli spazi tradizionalmente concessi ai diritti individuali, di contenimento della democrazia tradizionale. Per questo hanno enfatizzato la guerra, chiamato il popolo alle armi, suonato la tromba del nazionalismo (il partito della nazione è il nuovo volto, lo vogliono Putin, Hollande e Renzi). E siamo ora giunti al cuore del conflitto. Non riguarda l’Islam e neppure la dissoluzione dell’Europa. Riguarda invece la decisione (che esige l’ideologia della guerra più che la guerra sognata dai neofuturisti) del capitale finanziario (finanziarizzato) di procedere con la violenza della tirannia alla sussunzione reale, dentro e fuori dai confini dell’unione. Nessuna nostalgia dunque per la vecchia costituzione (lo aveva ben chiarito Ferrari Bravo nel volume ormai risalente che Giso Amendola giustamente ricorda); ma se la via appare quella, unica, di una opposizione a questo neoriformismo costituzionale e di una centralità della cooperazione sociale, allora (e qui inizia non si conclude la discussione) l’indagine tecnico politica non può prescindere dai soggetti (individui e collettività) che possono essere destinatari della coalizione volta a ricostituire la centralità di questa cooperazione sociale. I diritti dei soggetti in condizione precaria, delle vittime della sussunzione reale sono contrapposti e incompatibili rispetto alle esigenze della Commissione europea; il rifiuto di qualsiasi rapporto con le istituzioni delle due componenti della grosse koalition (ma anche di chiunque accetti alleanze con loro) è la condizione imprescindibile da porre come base per costruire le nuove ribellioni e per iniziare il cammino dell’emancipazione. Non è l’unica Europa possibile; ma è l’unica democrazia possibile.

 

Immagine in apertura: “Dictatorial Democracy. Is where you have freedom of speech but the amministration doesen’t listen”, protesta contro la guerra in Iraq, Usa, marzo 2oo3, The Prophet, Flickr Photo

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