Lo scoppio e la diffusione della pandemia COVID-19 sono state un’occasione per riflettere sulle geografie ineguali di minacce e disastri in relazione a diversi gruppi di popolazione, sollevando preoccupazioni fondamentali su questioni di ingiustizia spaziale e sociale. In diverse aree del mondo le più colpite dal virus sono categorie di persone che già sperimentano situazioni di vulnerabilità e disuguaglianze. I confini e i processi di confine hanno avuto un ruolo importante nella formazione di queste asimmetrie e qui mi concentro esplicitamente su di essi e sulla loro rinnovata importanza come tecnologie per la produzione e la riproduzione delle disuguaglianze.

Sono ancora pochi i dati sull’impatto differenziale della pandemia[1], sebbene sia già chiaro il nesso tra emarginazione e maggiori possibilità di essere esposti al virus: migranti prive di documenti, persone richiedenti asilo o in attesa in campi sovraffollati, così come comunità nere e impoverite negli USA, non sono state l’obiettivo principale delle misure adottate per contenere la diffusione del COVID-19. Al contrario, nella maggior parte dei casi sono state abbandonate in situazioni di pericolo e condizioni di salute precarie, mostrando come la loro vita e i loro corpi siano soggetti a un trattamento diverso, anche e soprattutto in situazioni di emergenza.

Tra coloro che sembrano essere più a rischio per quanto riguarda la pandemia, migranti e rifugiate presentano forme di vulnerabilità che si trovano all’incrocio tra classe, razza e status (Guadagno 2020, p. 5; Marin 2020), oltre a genere ed età (Eaves e Al-Hindi 2020). Vari fattori influenzano le migranti nelle diverse fasi del loro percorso migratorio, a partire dalle drammatiche condizioni di salute nei campi sovraffollati, la mancanza di diritto all’assistenza sanitaria, l’esclusione dai programmi di welfare, e la situazione di illegalità che spesso ne determina l’invisibilità.

In aggiunta, la stigmatizzazione e la creazione di stereotipi legati alla diffusione del virus hanno creato un clima dannoso per le migranti. In molti contesti questo fenomeno è stato politicamente strumentalizzato per diffondere narrazioni razziste e promuovere un maggiore controllo sull’immigrazione, l’interruzione delle operazioni di ricerca e soccorso in mare e la riduzione dei diritti dei e delle migranti (Banulescu-Bogdan et al. 2020). La disinformazione è stata una componente essenziale delle reazioni razziste alla diffusione della pandemia, definita come il “virus cinese” in paesi come gli Stati Uniti, che ha portato alla vittimizzazione delle minoranze etniche e alla discriminazione socio-economica dei gruppi emarginati (Teixeira da Silva 2020).

Che impatto stanno avendo le reazioni alla pandemia messe in atto dagli stati o dalle istituzioni sovranazionali in relazione ai processi di confine e alle politiche migratorie?

In un recente webinar[2], Tim Cresswell ha parlato della relazione tra la mobilità e l’attuale crisi sanitaria. Non sorprende che l’aumento delle connessioni e dei movimenti in tutto il mondo sia direttamente correlato alla velocità e all’estensione della diffusione del virus. Tuttavia, come ha sottolineato Cresswell, l’idea di una “mobilità patologizzata” è anche correlata a specifiche geografie morali che rendono certi tipi di movimento più accettabili di altri. Il COVID-19 sta dimostrando in modo molto chiaro e forte che le ingiustizie legate alla mobilità sono una questione fondamentale del mondo contemporaneo, insieme a una tendenza al localismo che spesso dà origine a forme di nazionalismo.

La chiusura dei confini come difesa delle società nazionali dal contagio ha rivelato la miopia di risposte territorializzate nella lotta contro un virus, sottolineando al tempo stesso il ruolo di lunga data dei confini come strumenti per difendere la sicurezza ontologica dell’Occidente. Inoltre, la metafora della guerra che è stata ampiamente utilizzata per definire la lotta contro il COVID-19 rafforza un immaginario geopolitico che non si adatta alla sfida di uno scenario pandemico globale in cui l’efficacia delle misure trarrebbe probabilmente beneficio dal coordinamento e dalla collaborazione dei paesi, nonché dalla protezione e cura di coloro che sono più vulnerabili alla diffusione del virus.

Impatto delle limitazioni alla mobilità sui migranti

Il divieto di viaggiare e l’interruzione dei flussi migratori sono state le prime e più prevedibili reazioni di emergenza all’aumento delle infezioni, insieme alla sospensione temporanea della migrazione per lavoro in diversi paesi.

Non appena la pandemia si è diffusa in vari paesi, è aumentato il controllo alle frontiere con l’obiettivo di evitare la formazione di nuovi focolai della malattia. Sono state attuate diverse strategie, dai divieti d’ingresso ai periodi di quarantena forzata, solitamente rivolte alle persone in arrivo dai paesi con i più alti tassi di contagio. Queste misure, tuttavia, erano principalmente indirizzate alla gestione della migrazione “regolare” attraverso porti e aeroporti ufficiali di ingresso e uscita. Nel contesto caotico della risposta politica e amministrativa generale al COVID-19, il destino di rifugiate e migranti prive di documenti è stato a malapena considerato. Mentre le restrizioni del coronavirus sui viaggi aerei e terrestri e le relative politiche hanno ricevuto molta attenzione, molta meno ne è stata data al modo in cui le chiusure hanno influenzato duramente questo diverso tipo di mobilità, complicando ulteriormente le già precarie condizioni di viaggio e di vita di persone che cercano di raggiungere paesi dove chiedere asilo o cercare migliori opportunità.

Una delle inevitabili conseguenze della chiusura delle frontiere ha riguardato l’interruzione del movimento. Il numero di ingressi “irregolari” nell’UE è notevolmente diminuito durante l’attuazione della chiusura delle frontiere: nell’aprile 2020 il numero di arrivi registrati è calato a 900 rispetto ai 6.400 dell’anno precedente (EASO 2020).

Lungo la costa nordafricana, migliaia di migranti sono detenute forzatamente nei cosiddetti paesi di transito che, grazie all’esternalizzazione delle frontiere e del controllo migratorio da parte dell’Unione Europea  e dei suoi stati membri, filtrano, rallentano e spesso arrestano il passaggio verso l’Europa. Le persone in quei contesti vivono nella maggior parte dei casi in campi, in isolamento e in condizioni drammatiche, prive di cibo, acqua e cure mediche (Hargreaves et al. 2020).

In Asia, la chiusura delle frontiere ha messo seriamente in pericolo la vita delle lavoratrici migranti transfrontaliere che si sono trovate senza lavoro e costrette a trasferirsi (Dhungana 2020). Le persone migranti in detenzione in suolo statunitense sono state trattenute e le persone arrestate al confine meridionale sono state soggette a respingimenti (Slack e Heyman 2020). Allo stesso tempo, i rifugi lungo le rotte migranti in Messico hanno dovuto chiudere o ridimensionare le operazioni a causa della diffusione del virus, lasciando le migranti senza rifugio da aggressioni, rapine e rapimenti (Gottesdiener e Diaz 2020).

Anche in tempi “normali”, le persone che migrano affrontano diverse interruzioni lungo i loro percorsi e sono bloccate a intermittenza in campi, centri di detenzione o altre strutture per nulla preparate e attrezzate per affrontare una pandemia. Al contrario, le condizioni di salute sono generalmente molto precarie e il sovraffollamento è la norma, così come l’impossibilità di rispettare le regole base per ridurre il contagio, cioè il distanziamento e l’igienizzazione.

Già nel marzo 2020, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati Filippo Grandi affermava che “se vengono identificati rischi per la salute, è possibile mettere in atto accordi di screening, insieme a test, quarantena e altre misure. Ciò consentirà alle autorità di gestire l’arrivo di richiedenti asilo e rifugiati in modo sicuro, nel rispetto degli standard internazionali di protezione dei rifugiati progettati per salvare vite umane”[3]. La chiusura delle frontiere, tuttavia, ha reso praticamente impossibile per le richiedenti asilo fare domanda di protezione internazionale (Banulescu-Bogdan et al. 2020; Ahmed et al. 2020).

Le procedure di asilo sono state sospese in diversi paesi[4]: in alcuni stati membri dell’UE, come Cipro, Grecia e Ungheria, alle richiedenti asilo è stato vietato l’ingresso, mentre in altri, come il Belgio, i centri di arrivo sono stati chiusi (Babicka 2020; Brannon 2020). L’Italia e Malta hanno dichiarato i loro porti “non sicuri”, negando sostanzialmente lo sbarco di rifugiate anche se salvate dalle navi delle ONG da situazioni di emergenza (Marin 2020; Tondo 2020). Gli Stati Uniti, dove l’amministrazione Trump aveva già introdotto restrizioni all’immigrazione prima della pandemia, hanno sospeso il diritto di asilo al confine terrestre meridionale indicando le migranti come un rischio per la salute pubblica (Chishti e Pierce 2020; Slack e Heyman 2020).

Tutti questi esempi indicano la totale indifferenza alla sorte di migranti e rifugiate in relazione alla pandemia, un’indifferenza che riecheggia l’apatia generalizzata – con poche eccezioni – di fronte alla morte di tante nel Mediterraneo o nel deserto di Sonora, la violazione dei diritti umani fondamentali in diversi paesi in cui la gestione della migrazione è esternalizzata e lo sfruttamento quotidiano delle lavoratrici stagionali da parte delle società occidentali. La risposta territoriale alla pandemia ha mostrato chiaramente le disuguaglianze di trattamento e considerazione delle categorie di migranti e rifugiate, le cui vite precarie sono sacrificabili e i cui corpi subiscono l’ingiustizia del confine e le politiche a esso associate. Attraverso l’uso dei confini e dei processi di confine come limiti alla mobilità umana, il COVID-19 porta in primo piano il rapporto tra globalizzazione, (in) sicurezza, disuguaglianze e migrazioni globali.

Confini quotidiani e accesso alla salute

Oltre a coloro che sono rimaste bloccate fuori dai confini dei paesi di destinazione, i processi quotidiani di confine colpiscono anche migranti e richiedenti asilo che sono arrivate ​​dall’altra parte del confine. “Le minoranze etniche sono risultate sovra rappresentate tra le persone che sono state infettate e ricoverate in ospedale e che sono morte per COVID-19, così come quelle con insufficiente sicurezza alimentare e finanziaria” (Guadagno 2020, p. 4).

Durante la crescita della pandemia nell’UE, molte migranti vivevano in campi sovraffollati e “hotspot”, dove la necessità di salvaguardare la loro reclusione e la sicurezza dei cittadini europei era considerata una priorità rispetto all’intervento per garantire condizioni di salute e sicurezza per evitare la diffusione del virus. Allo stesso modo, “non c’è stata alcuna mossa significativa per rilasciare soggetti in detenzione” negli Stati Uniti (Slack e Heyman 2020, p. 1). In Grecia e a Malta sono state prese decisioni per chiudere i campi e vietare le visite, sigillando le persone all’interno di strutture malsane e privando le detenute dell’assistenza volontaria[5] (Brannon 2020; D’Ignoti 2020; Le Monde e AFP 2020). Médecins Sans Frontières, nel marzo 2020, ha esortato il governo greco a evacuare i campi profughi sulle isole greche poiché le condizioni antigieniche e il sovraffollamento rappresentavano una vera minaccia per la salute pubblica (MSF 2020).

La vita delle lavoratrici migranti è stata seriamente compromessa per diversi motivi: sono rappresentate in modo sproporzionato nelle occupazioni in prima linea nella risposta al coronavirus, come i lavori di assistenza, le consegne, i servizi di ristorazione, l’agricoltura, i lavori di costruzione e i servizi di pulizia (Chishti e Pierce 2020). Questi settori sono rimasti attivi durante le crisi e l’impossibilità di lavorare a distanza rende le lavoratrici più vulnerabili a causa della vicinanza fisica con colleghe o clienti. Allo stesso tempo, le immigrate sono generalmente sovra rappresentate anche in settori che hanno subito misure di blocco, come ristoranti, hotel, servizi di pulizia privata (Gelatt 2020), mentre la maggior parte di queste lavoratrici non ha accesso a prestazioni assistenziali o coperture assicurative.

Le migranti prive di documenti che vivono nell’invisibilità hanno difficoltà ad accedere a cibo e riparo in situazioni di lockdown o altre forme di limitazione della mobilità, e spesso non hanno accesso a cure mediche e screening.

Anche le migranti “regolarizzate” subiscono varie forme di discriminazione e razzismo, come nel caso di alcune città italiane dove sono state apertamente escluse dallo stanziamento di misure finanziarie di emergenza per contrastare l’effetto di lockdown e interruzioni del lavoro (Polchi 2020), o nel caso di Singapore dove le lavoratrici migranti non avevano “diritto a mascherine gratuite e disinfettante per le mani per gentile concessione dello Stato” (Chia e Poh 2020) che erano invece disponibili per i cittadini. A un livello più generale, le lavoratrici migranti incontrano più barriere nell’accesso ai servizi nei paesi ospitanti, e questa situazione è peggiorata a causa della potenziale paura della quarantena imposta dal governo e della perdita di reddito (Liem et al.2020).

La pandemia ha anche mostrato l’importanza delle lavoratrici stagionali nell’economia globale: lo sfruttamento di migliaia di migranti illegali nel sistema agricolo è stato reso possibile anche durante i periodi di più alto contagio in Europa, quando la Spagna ha permesso temporaneamente alle migranti prive di documenti di raccogliere frutta e verdura (Davies 2020) e il governo italiano ha discusso un programma di regolarizzazione per le lavoratrici migranti irregolari (Casadio 2020).

Pur rendendo palese il contributo essenziale di queste figure in occupazioni critiche nei paesi ricchi, la crisi COVID-19 e i relativi processi di confine hanno anche portato in primo piano le disuguaglianze e le asimmetrie già esistenti, esacerbandole al punto da creare forme radicali di ingiustizia sanitaria.

I confini come fattori chiave di ingiustizia

Per diversi motivi, negli ultimi decenni i confini hanno occupato sempre più la scena della politica interna e internazionale. Sono stati caricati di significati importanti riguardanti la sicurezza e la protezione della nazione da diversi tipi di minacce sempre identificate come provenienti dall’esterno. Che si tratti di fermare una presunta invasione culturale e demografica o di contrastare le istituzioni sovranazionali, i confini sono stati strumentalizzati per promuovere un senso di sicurezza interiore contro i crescenti pericoli di un mondo globalizzato.

La tensione tra inclusione ed esclusione originata da questi processi, riguardo alla circolazione sia delle persone sia delle merci, sta dando sempre più forma a disuguaglianze di mobilità su scala globale.

Lo scoppio del coronavirus ha dato la possibilità di vedere chiaramente i risultati della chiusura delle frontiere e dell’inclusione differenziale su categorie di persone in situazioni di vulnerabilità. Il coronavirus non è senz’altro un problema migratorio, tuttavia, la forte reazione territoriale della maggior parte dei paesi, combinata con una mancanza di attenzione verso specifiche categorie, ha portato al radicamento dell’ingiustizia spaziale che coinvolge migranti e richiedenti asilo.

Questa breve panoramica delle diverse situazioni di esclusione vissute da queste persone in diversi contesti ha lo scopo di denunciare il trattamento inaccettabile che ricevono. L’emergenza non fa che amplificare le ingiustizie rendendole più visibili.

Il confine, sia che implichi la chiusura verso l’esterno sia che riguardi i processi interni quotidiani di esclusione, si sta dimostrando un forte meccanismo per creare o rafforzare le disuguaglianze a vari livelli.

Oltre all’esperienza che stiamo vivendo nel mezzo della crisi, sorgono legittime preoccupazioni per quanto riguarda l’effetto a lungo termine delle politiche di controllo e delle limitazioni alla libertà individuale e collettiva introdotte o rafforzate nella lotta contro la pandemia. Sono state proposte azioni per salvaguardare la salute della società attraverso limitazioni alla mobilità, sorveglianza e sanzioni, sviluppo di app per il monitoraggio delle persone, misure di quarantena, interruzione radicale della vita sociale. Dall’inizio della pandemia, le società informatiche e le aziende biometriche hanno ricevuto livelli record di contratti per la sorveglianza, il monitoraggio e il tracciamento di migranti (TNI 2020), con un aumento dell’utilizzo di dati biometrici per il controllo delle frontiere che ha introdotto il riconoscimento facciale per sostituire le impronte digitali. Le stesse tecnologie utilizzate per controllare la migrazione sono proposte da queste aziende per la salute e le attività di polizia legate al COVID-19 (ibidem).

Tutte queste misure potrebbero essere utilizzate anche per aumentare la sorveglianza e rafforzare il controllo, limitando effettivamente i diritti civili, e potrebbero “servire come un precedente drammatico per limitazioni alla mobilità umana, prendendo di mira i più vulnerabili e istituendo future restrizioni draconiane” (Slack e Heyman 2020: 5).

Inoltre, la proposta di un passaporto digitale per la vaccinazione anti COVID-19, avanzata da aziende e gruppi tecnologici, crea uno scenario distopico in cui l’accesso ai privilegi dell’assistenza sanitaria determinerebbe la capacità di muoversi, in un contesto in cui la distribuzione del vaccino è chiaramente sbilanciata e sta già creando forti disuguaglianze. Si realizzerebbe così in pieno l’idea di una “mobilità patologizzata” potenzialmente sempre più sanzionata, sia moralmente che legalmente.

Le sfide che le società stanno affrontando si riverbereranno nel prossimo futuro e sollevano interrogativi riguardanti il ​​raggiungimento di una solidarietà transnazionale e di un diritto alla mobilità, per contrastare il crescente controllo biopolitico e sempre più violento delle persone in movimento. La centralità dei confini e dei processi ad essi associati richiede un impegno critico nel valutare, analizzare ed esporre le potenziali ripercussioni di un’ulteriore esacerbazione del controllo, in particolare sulle persone che sono più spesso oggetto di misure di sicurezza.

NOTE

[1] I dati e gli studi sulla disuguaglianza razziale del coronavirus negli Stati Uniti sono già stati pubblicati, si veda ad esempio il lavoro aggiornato di APM Research Lab https://www.apmresearchlab.org/covid/deaths-by-race; Dyer 2020; Millet et al. 2020.

[2] “Valuing Mobility in a Post-Covid World” – Seminario di Tim Cresswell, 17 dicembre 2020. https://www.mobilityandhumanities.it/2020/11/24/valuing-mobility-in-a-post-covid-world/

[3] https://www.unhcr.org/news/press/2020/3/5e7395f84/statement-filippo-grandi-un-high-commissioner-refugees-covid-19-crisis.html.

[4] Il Portogallo rappresenta un’importante eccezione poiché il Paese “ha regolarizzato temporaneamente tutti i migranti, compresi i richiedenti asilo, che avevano richiesto un permesso di soggiorno prima della dichiarazione dello stato di emergenza del 18 marzo [2020]” (Guadagno 2020, p. 11).

 

[5] https://aditus.org.mt/how-are-coronavirus-measures-affecting-refugees/#.X9oPO157lTY

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