Le immagini delle migliaia di iraniani che hanno invaso le città per celebrare la firma dell’accordo sul programma nucleare hanno fatto il giro del mondo. I ritratti delle bambine con fiocchi con la bandiera americana tra i capelli e le fotografie delle bandiere iraniane e americane unite hanno fatto dichiarare a molti che, finalmente, gli iraniani possono rappresentare il loro amore per gli Stati Uniti senza paura di ritorsioni. In una atmosfera di giubilo e ottimismo, più per la fine delle sanzioni che per il programma nuclear in sé, le prime analisi sono state pubblicate, tutte confermanti la fiducia nell’accordo che, si dice, porterà a cambiamenti positivi per l’Iran e per la sua economia.

Più complicato invece appare lo scenario regionale, già martoriato da conflitti incancreniti e di difficile soluzione come quello yemenita, siriano e arabo-israeliano in cui l’Iran gioca un ruolo importante. Nonostante l’atmosfera di gioia sia più che comprensibile (basti pensare che, a causa delle sanzioni, a Teheran i farmaci per le cure anti-tumorali non erano disponibili da due anni a questa parte), è necessario collocare l’evento in un più ampio quadro internazionale, al di là di assunti liberal-ottimisti; di politica interna, considerando la feroce lotta tra le diverse fazioni e le imminenti elezioni legislative; e di ricadute sociali.

Quali saranno le consequenze dell’abbandono delle sanzioni in termini di redistribuzione della ricchezza e di conflitto sociale? L’Iran, da anni a questa parte, ha implementato riforme in senso neo-liberale (riforma dei sussidi ai prezzi del cibo e dell’energia ad esempio) e sta da tempo chiedendo l’ingresso nel WTO. Il settore imprenditoriale, che crescerà a seguito della fine delle sanzioni, si trasformerà per accogliere multinazionali a cui offrire tax breaks e altri privilegi. Già succede nelle zone economiche speciali, che nel paese sono più di 60. Quindi, non saranno più solo le imprese e compagnie ‘semi-private’, ovvero legate al regime o di diretta sua emanazione, a fare parte del settore privato in futuro, ma anche le imprese multinazionali e le politiche economiche che queste si portano appresso.

L’accordo sul programma nucleare infatti apre la strada a una integrazione dell’Iran nella comunità internazionale e, soprattutto, nel mercato globale. Riforme strutturali, mancata redistribuzione della ricchezza e aumento delle tasse per la popolazione (aumento iva, prezzo dei trasporti ecc.) sono all’origine, secondo Adam Hanieh, Angela Joya, Koen Bogaert, delle rivolte arabe. Quale sarà la strada che l’Iran prenderà? Nonostante esso si trovi in una situazione estremamente diversa, non essendo per adesso parte di alcun accordo o partenariato, e’ importante ricordare questo aspetto e le sue potenziali conseguenze di lungo periodo.

Lo scenario internazionale

Il programma iraniano è per decenni stata la bestia nera delle relazioni internazionali al punto che tra il 2005 e il 2007, un attacco militare contro Teheran e i suoi siti nucleari sembrava una eventualità quasi inevitabile. Diversi colleghi, intellettuali e diplomatici si sono negli anni impeganti a far sì che questo non succedesse attraverso azioni di track two diplomacy e lobbying, sia sul governo statunitense e britannico, che su quello iraniano. L’idea che hanno sostenuto, per anni, coloro che si sono impegnati nella ricerca di una soluzione diplomatica alla crisi prende forma da un assunto liberale nelle relazioni internazionali, ovvero che se integri e dialoghi con un nemico, prima o poi, questo si trasformerà in un nemico ragionevole, se non addirittura in un amico.

Il progetto dell’Unione Europea è basato su questo assunto, e lo sono anche i tentativi di portare Israele e l’ANP allo stesso tavolo attraverso iniziative multilaterali come, ad esempio, il partenariato europeo-sponda meridionale del Mediterraneo. Le speranze legate all’accordo sul programma nucleare iraniano si spingono persino più in là, per arrivare a includere questioni come ad esempio il rispetto dei diritti umani. L’idea è che l’Iran diventerà un attore internazionale sempre più responsabile e che sarà possibile includere altri temi oltre al nucleare nel dialogo futuro, riuscendo a rendere il regime accountable alle norme internazionali sui diritti. E’ però importante ricordarsi che l’accordo ha una delimitazione specifica, ovvero regolare il programma nucleare, e che molti paesi, integratissimi, sembrano essere esenti dal rispetto delle norme sui diritti umani grazie a loro altre funzioni – come ad esempio quella di importatore di armi ed esportatore di risorse energetiche. Sarà il caso anche dell’Iran post-deal? Secondo Aron Lund sì, perchè l’accordo renderà l’Iran forte abbastanza da essere quasi unaccountable sulle politiche perseguite nella regione e internamente.

L’avere troppe aspettative, quindi, sembra irrealistico. Tuttavia, è necessario tenere a bada le ansie e la paura di un Medio Oriente sotto una dominazione, seppure soft, iraniana. Soprattutto, dato il contesto regionale, è possibile che l’Iran e il fronte ‘occidentale’ nel gruppo negoziatore, nonostante l’accordo, procedano con estrema prudenza, di fatto non modificando le proprie posizioni.

Data la reazione negativa all’accordo da parte di due attori ostili all’Iran ma alleati degli Stati Uniti, ovvero Israele e Arabia Saudita, la preoccupazione di Washington sarà soprattutto quella di convincerli che l’America resterà al loro fianco e che quindi il sistema di sicurezza regionale messo in piedi dal 2003 (ma a ben vedere dall’inizio degli anni ’90) non è diventato obsoleto. Non solo l’accordo impedisce all’Iran di diventare una potenza nucleare (il perche’ tecnico è spiegato qui da Aaron Stein), ma l’appoggio logistico e tecnologico che Washington dà ai suoi alleati più fedeli nei conflitti che li vedono coinvolti (Palestina e Yemen, e Bahrein precedentemente) è un indicatore importante. La situazione è diventata più complessa, ma la collaborazione continua stabilmente. Il Bahrein (teatro nel 2011 di uno scontro tra l’Iran e l’Arabia Saudita, l’uno a favore delle proteste, l’altra in opposizione ad esse) continuerà ad essere la base della quinta flotta statunitense, e gli Stati Uniti continueranno a dipendere dai paesi del Golfo per l’approvvigionamento energetico e le esportazioni di tecnologia militare.

Dal canto suo, l’Iran è impegnato in maniera differenziale in diversi conflitti nella regione: in Iraq contro Daesh, a capo di forze armate sciite (composte da tajiki, afghani, iraniani) capeggiate dalla quasi super star Qasem Suleimani (soprannominato Supermani per la sua sovra-esposizione mediatica), comandante della brigata di elite dei pasdaran al Quds, e a fianco delle milizie di peshmerga e delle forze regolari irachene; in Siria, dove al Quds è a fianco dell’esercito regolare di Bashar al-Assad e delle truppe di Hezbollah; e in Yemen, dove i pasdaran sono a fianco dei ribelli Houthi. Come spiegato da Ibrahim al Marashi qui, l’accordo sul nucleare difficilmente alterera’ questo contesto, anche nel caso in cui il flusso di denaro da Teheran verso Damasco e gli Houthi in Yemen aumentasse.

Non solo questa eventualità vedrebbe l’Arabia Saudita fare lo stesso, ma i ribelli yemeniti hanno dimostrato di essere in grado di avere un grande impatto bellico e logistico con o senza Teheran. E’ vero che con l’accordo si sono sbloccati milioni di dollari (di proprietà iraniana ma trattenuti dagli Stati Uniti in seguito alla rivoluzione del 1979) che presto arriveranno a Teheran, e da lì forse altre capitali mediorientali, ma considerando che l’economia iraniana è estremamente danneggiata dalle sanzioni, è probabile che l’azione del governo si concentrerà sull’alleviare i danni economici – anche per ragioni di politica elettorale, considerando l’avvicinarsi delle elezioni parlamentari il prossimo maggio e quelle presidenziali l’anno successivo.

Inoltre, come spiegato in un recente rapporto dalla CIA, l’Iran concentrerà le proprie risorse post-deal su economia interna e sul rafforzare il proprio arsenale, che rappresenta per l’elite di Teheran la vera assicurazione contro qualsiasi possibile attacco. Nonostante queste non siano per forza delle buone notizie per siriani e yemeniti, l’Iran difficilmente prenderà delle decisioni drastiche data la complessità del contesto. Lo ha anche dichiarato Ali Khamenei, il leader supremo della rivoluzione, che ha messo in chiaro che l’Iran non è disposto a negoziare su questioni globali o regionali.

Se è probabile che Iran e Stati Uniti non azzarderanno mosse, resta da vedere come reagiranno gli attori regionali. In un articolo pubblicato a maggio, Trita Parsi e Paul Pillar notano come questa sia una situazione ideale per una nuova guerra promossa da Israele nella regione. L’obiettivo, questa volta, potrebbe essere Hezbollah. In questo modo, Israele potrebbe tentare di fare jackpot colpendo un nemico storico, Hezbollah appunto, e facendo saltare l’accordo sul nucleare rafforzando il fronte contrario a Washington.

La politica interna

Molto spesso, le dichiarazioni dei politici iraniani sono mal interpretate al di fuori del paese perché ci si dimentica che, come nel resto del mondo, grossa parte della politica estera è composta da messaggi in realtà rilevanti per quella interna. Questo succede anche in Iran, che non ha una politica estera esclusivamente giudata da un cieco anti-americanismo e odio per l’ “Occidente” (parafrasando opinionisti come ad esempio Oriana Fallaci o Magdi Allam e compagnia bella) ma che calcola le proprie posizioni secondo coordinate più sofisticate e complesse. A differenza del contesto regionale, l’accordo sul nucleare cambia profondamente e irrimediabilmente gli equilibri della politica interna. Nonostante si tratti di un regime autoritario, il dibattito politico è estremamente vivace e dinamico in Iran, con le diverse fazioni (sorta di partiti, raggruppamenti politici) impegnate in battaglie molto violente per il controllo di istituzioni, commissioni, centri di potere più o meno informali.

La firma dell’accordo sul programma nucleare ha fruttato al governo in carica un ritorno di immagine enorme. Il ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif è stato paragonato a figure storiche di primissimo piano quali Amir Kabir, considerato “il grande ammodernizzatore” della storia moderna iraniana, e Mohammad Mossadegh, che forse più di tutti rappresenta la lotta per la dignità e l’autodeterminazione nazionale contro il colonialismo occidentale – celebrazioni di grandeur che contrastano con l’atteggiamento di Zarif, più vicino a quello di un “sopravvissuto”, come scrive Farideh Farhi qui. Anche Rouhani è stato celebrato come una sorta di liberatore, di eroe nazionale. Dal canto loro, le fazioni più conservatrici, contrarie a questo accordo ma non a un accordo, hanno accolto la notizia della firma con scetticismo e denunciando il testo come troppo arrendevole nei confronti degli occidentali.

L’Iran è stato più volte a un passo dalla stipula di un accordo. Gli accodi di Ginevra I e Ginevra II, pur essendo stati dei passi in avanti fondamentali, furono pesantemente influenzati da delicati equilibri di politica interna (iraniana e statunitense) che prevennero i team negoziali dal proseguire oltre con le contrattazioni. E’ ben noto, ad esempio, che Khamenei era estremamente avverso alle negoziazioni durante i primi anni 2000, perchè un eventuale accordo avrebbe favorito l’allora governo moderato e riformatore-liberale guidato da Mohammad Khatami. Tra esperti e osservatori, si diceva che, se un accordo ci doveva essere, Khamenei lo avrebbe lasciato fare a un governo conservatore, a lui più vicino politicamente.

Quando il conservatore Mahmoud Ahmadinejad fu eletto nel 2005, il conflitto tra i due, che andò aggravandosi durante il secondo mandato di Ahmadinejad (2009-2013), impedì il raggiungimento di una soluzione diplomatica alla questione del nucleare. Con il passare degli anni, e con il peggioramento dell’economia nazionale a causa di sanzioni sempre a più ampio raggio, la questione divenne pressante e non più rimandabile.

A partire dall’elezione del moderato e pragmatico Hassan Rouhani nel giugno 2013 e la conseguente ripresa delle negoziazioni, l’appoggio di Khamenei al team negoziale non è mai mancato e, nonostante l’avversione alle negoziazioni da parte dei conservatori (gli osulgarayan vicini a Khamenei e i membri del nuovo partito Yekta fondato da personaggi vicini ad Ahmadinejad), Khamenei si è sempre preoccupato che le critiche e l’opposizione alle negoziazioni non raggiungessero un livello tale da metterle in pericolo, inventando persino concetti come quello della “flessibilità eroica” per accontentare un po’ tutti.

Ora che l’accordo è portato a casa, e che le nuove elezioni si avvicinano, il livello dello scontro si alzerà – o meglio, si sta alzando. La posta in gioco è la maggioranza del nuovo parlamento che sarà eletto a maggio 2016. Nel caso in cui i cosiddetti riformisti vicini a Rouhani e al suo governo “della speranza e della moderazione”, come recita lo slogan da esso adottato, vincessero, si profilerebbe una situazione in cui la stessa fazione si troverebbe ad essere egemone in più istituzioni chiave: il governo, il parlamento, il consiglio per il discernimento (organo arbitro tra varie istituzioni). Sistema giudiziario, forze di sicurezza, consiglio dei guardiani resterebbero saldi nelle mani dei conservatori, ma con l’ostacolo di essere tutte istituzioni non elettive, pur potentissime.

I conservatori insomma stanno combattendo una guerra contro l’emarginazione in un contesto a loro decisamente sfavorevole, da un punto di vista politico. Come spiega Narges Bajoghli, persino alcuni veterani della guerra Iran-Iraq, normalmente rappresentati come acritici sostenitori della più oltranziste e conservatrici posizioni del regime, si sono spesi per l’approvazione dell’accordo.

Tuttavia, “vendere” l’accordo ai conservatori, quelli più “duri”, non si sta rivelando un lavoro semplice nemmeno per Khamenei. Lo dimostrano le dichiarazioni di questi ultimi giorni. Khamenei plaude l’accordo, pur ricordando che gli Stati Uniti sono un nemico dell’Iran, che l’Iran resterà a fianco degli alleati storici nella regione e che, in fin dei conti, le controparti nella negoziazione hanno accettato che delle turbine girino a Teheran. Tanto per ribadire il concetto, il Centro per la preservazione e la pubblicazione degli scritti del Grande Ayatollah Khamenei ha lanciato un nuovo settimanale chiamato “Khat-e Hezbollah”, la linea di Hezbollah.

Il termine, che nel contesto iraniano ha una accezione più ampia dell’ovvio riferimento a Hezbollah libanese, indica chiunque si iscriva in una linea politica di resistenza e lotta contro l’imperialismo e per la salvaguardia dei valori della rivoluzione islamica. La copertina del settimanale riporta una citazione recente di Khamenei: “con o senza accordo, la lotta contro l’arroganza (termine da leggere come “imperialismo”) continua”. Eppure, questo non sembra bastare per vincere i cuori degli oltranzisti e una quasi-polemica alquanto interessante sta prendendo forma con Mohammad Ali Jafari, comandante dei pasdaran, corpo di fedelissimi a Khamenei. Jafari infatti sta dichiarando che l’accordo non rispetta le “linee rosse” imposte dall’Iran, e che il testo, pur approvato da Khamenei, conterebbe dei dettagli che infrangono tali linee rosse.

Tuttavia, pur giocando la carta dell’oltranzismo, l’equazione non cambia. Grazie all’accordo firmato e, soprattutto, alla fine del regime delle sanzioni, l’immagine dei conservatori ha subito un colpo durissimo, e a poco serviranno anche i discorsi tecnocratici, tutti improntati sulle retoriche dell’efficienza e dell’expertise, del nuovo partito di Ahmadinejad. Colpiti da indagini e sentenze per corruzione, i membri di Yekta sembrano destinati a svolgere un ruolo molto marginale, mentre i conservatori vicini a Khamenei sembrano per il momento doversi riorganizzare per far fronte al nuovo contesto.

Sanzioni, economia di mercato e conflitti sociali

Le sanzioni hanno avuto un effetto piuttosto devastante e un costo sociale elevato. Con l’elezione di Rouhani alla guida del nuovo governo, per la prima volta, questi danni sono stati riconosciuti. L’incremento della povertà e la crisi idrica – che ha raggiunto livelli davvero preoccupanti come si è potuto vedere dalla scomparsa del fiume Zande a Isfahan e dallo stato del lago di Urmieh, nel nord ovest del paese – si accompagnano a una inflazione galoppante e alla stagnazione dovuta all’ammontare dei debiti che il governo avrebbe contratto con imprese e compagnie semi-pubbliche.

Durante i due mandati di Ahmadinejad, inoltre, diversi scandali di corruzione hanno portato a un ammanco finanziario di bilioni di dollari dalle casse di vari ministeri. Le politiche economiche si sono concentrate sulla “privatizzazione” di proprietà statali attraverso canali semi-pubblici (fondi pensione, cooperative semi-private, PPP, banche semi-pubbliche…) che hanno generato soldi da immettere nell’economia nazionale e da spendere per le importazioni; questo, insieme alla monetarizzazione dei sussidi statali per le categorie sociali vulnerabili e alla riforma delle sovvezioni ai prezzi del cibo e dell’energia (misura per cui l’Iran di Ahmadinejad si guadagnò il plauso del The Economist nel 2010), ha generato una spirale inflazionistica che a sua volta ha aggravato la situazione debitoria del governo.

Questa situazione è da considerare nel quadro più ampio dell’accordo appena firmato: vi sono infatti grandi aspettative per l’arrivo in Iran di investimenti stranieri diretti e di multinazionali che, so the story goes, dovrebbero risolvere questa situazione grazie all’aumento dell’occupazione, quindi dei consumi, quindi all’immissione di denaro nelle casse dello stato. Compagnie come Apple, ad esempio, sono già all’erta per cominciare a distribuire nel paese non appena l’accordo sarà effettivo. McDonald’s sta raccogliendo candidature per dirigere suoi negozi in franchising in Iran, come dimostra l’application form disponibile qui. L’Iran, un paese con una popolazione di circa 70 milioni di consumatori-cittadini, in gran parte giovani e ben istruiti, fa ovviamente molta gola.

Resta da vedere come si configurerà l’arrivo degli investimenti nel paese, e quali conseguenze porterà con sé. L’accordo sul nucleare aprirà infatti la strada alla piena integrazione dell’Iran nel mercato globale e, crucialmente, nelle istituzioni finanziarie internazionali. Fino ad ora, l’Iran è sempre stato escluso da esse per opposizione di Stati Uniti e Israele, ma ora le cose potrebbero cambiare. Soprattutto, questo potrebbe significare la necessità per Teheran di adottare riforme strutturali che fino ad oggi sono state solo parzialmente implementate dai governi Ahmadienjad (riforma dei sussidi governativi al prezzo dell’energia e del cibo nel 2010) e Rouhani (riforma dei sussidi economici per l’acquisto di cibo sostituiti da cibo vero nel 2013/2014). Inoltre, le compagnie nazionali si troverebbero a competere con multinazionali, condizione che potrebbe portare a una crisi del settore imprenditoriale nazionale, che ricadrebbe sul PIL. All’aumento del prezzo della benzina e dell’energia in generale, gli iraniani hanno reagito con proteste, che in alcuni casi si sono trasformate in vere e proprie rivolte taciute, ovviamente, dai media mainstream; tuttavia, nessuna forma di austerity “dura”, à la Troika per intenderci, ha per ora investito il paese, ma potrebbe in futuro.

Quali potrebbero essere le conseguenze di un tale scenario, considerando il ruolo fondamentale che i meccanismi di dispossession messi in atto attraverso le riforme economiche hanno avuto nelle rivolte arabe del 2010-2013? Come spiegano Ray Bush e Adam Hanieh nei loro libri, le riforme di liberalizzazione e di ristrutturazione del settore pubblico sono state cruciali nel coltivare dissenso e opposizione nelle popolazioni nordafricane. Certo, si tratta di traiettorie di antagonismo da inquadrare nel lungo periodo; ma l’attuale situazione di discontento nel paese, pur momentaneamente messa in pausa dall’entusiasmo per la firma dell’accordo, è piuttosto forte. Con grossa parte delle regioni meridionali in subbuglio e che reclamano investimenti e fondi per far fronte al disastroso declino economico (hanno fatto notizia le proteste ad Abadan, per esempio), la crisi ecologica che tocca gran parte del paese e il revival delle proteste contro la legge ancora più restrittiva del codice di comportamento e di abbigliamento, varata dal parlamento a fine 2014, l’Iran è in una fase di forte trasformazione e tensione. Inserite in una prospettiva di lungo periodo, queste proteste sono in linea con l’evoluzione dell’economia e dei movimenti, più o meno strutturati, sociali iraniani, dalle lotte per il lavoro (con le proteste di insegnanti e settore trasporti pubblici) a quelle, pur di orientamento liberale, in favore di maggiori diritti e libertà di espressione. L’accordo sul programma nucleare, quindi, è sì un accordo dalla portata storica, ma tale portata va ben al di là della riconfigurazione delle relazioni internazionali e degli equilibri regionali, o di calcoli tattici di corto o medio termine per andare a toccare lo sviluppo delle traiettorie sociali ed economiche nel lungo periodo.

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