Benché ad essi l’intorbidar l’altrui pace

guadagno sommo paresse, molti pure

vollero chiarire a quai patti s’avrebbe

a far guerra, quai sarebbero stati i premi

donde le speranze e gli aiuti.

Sallustio (La guerra di Catilina, 21, trad. V. Alfieri, Asti, 2004, pag. 89)

 

La cronaca della guerra, in queste ultime giornate, è costretta a dividere lo spazio della comunicazione mediatica con i risultati elettorali, sia sulla carta stampata sia in rete. Mentre il giudizio sulla guerra, nella nostra vecchia Europa, si riduce ad un coro quasi unanime di sostegno alle posizioni americane e di condanna a qualsiasi forma, anche tenue, di opposizione-diserzione, i commenti ai risultati elettorali sono invece di contenuto contrastante, diversi nel valutare le possibili conseguenze, discordanti nell’individuare le soluzioni più utili, quelle più adatte a risolvere i problemi di controllo sociale e a mantenere l’ordine. Il contrasto che caratterizza le posizioni assunte dagli analisti di regime non si limita all’esito delle consultazioni concluse, ma affronta pure quelle in arrivo, proponendo anzi complicate strategie volte ad ottenere, per il tramite delle urne, la stabilità necessaria della cabina  di comando creata per garantire il potere (sempre più chiaramente biopotere) del capitalismo contemporaneo. L’idea forza, a modo suo non priva di un certa genialità creativa, lanciata da Mario Draghi ormai più di dieci anni or sono con la formula del c.d. pilota automatico, comincia a sentire  gli effetti del tempo, ogni tanto si inceppa o quanto meno lascia spazio a possibili imprevisti. Nulla, del resto, dura in eterno.

Guerra, elezioni, crisi

L’allargarsi delle aree di conflitto armato ha generato, nel cuore della vecchia Europa, una miscela di astioso rancore e diffidenza sociale sviluppando insieme una crescente attitudine a convivere con la morte: al fronte, sui barconi in mare aperto, sotto le bombe, dentro la pandemia, fra tumori e incidenti sul lavoro, fra alluvioni e disperati suicidi. In un clima di conflitto permanente la prima vittima, come spesso accade, è stato il sentimento di solidarietà, di fratellanza; senza le due tradizionali sorelle anche la libertà non pare essere il primo pensiero della comunità.

Così, per la prima volta, la chiamata alle urne in occasione delle elezioni europee ha visto una partecipazione sotto la soglia del 50%, gli astenuti sono diventati maggioranza, e, per completezza, bisognerebbe aggiungere al conteggio le schede bianche o nulle, senza dimenticare il cospicuo numero di coloro che hanno indicato raggruppamenti rimasti a bocca asciutta per non avere raggiunto il limite minimo previsto, nei 27 stati, per l’ingresso nel parlamento multinazionale. La destra estrema ha raccolto una marea inquietante di consensi nella minoranza che ha espresso voti validi; comunque emerge una evidente radicalizzazione di posizioni, un desiderio aggressivo di trovare i responsabili che portano la colpa del disagio, per punirli e, se possibile, annientarli. La destra più tradizionale rimane la formazione di maggior peso, ma i loro esponenti di spicco (in Spagna e in Germania soprattutto) non nascondono di essere sensibili alla tentazione di allacciare un duraturo rapporto di alleanza con l’emergente truppa autoritaria, con le nuove formazioni reazionarie desiderose di archiviare ogni residuo di democrazia ottocentesca, liberale, socialista, cristiano-sociale. Certo. L’ipotesi al momento più probabile è quella di una riconferma della coalizione dei due partiti storici, ma il prezzo del compromesso questa volta sarà più alto: una ulteriore erosione del welfare residuo, il pieno appoggio incondizionato ai piani di egemonia nordamericana (dazi e armi), criminalizzazione del dissenso e delle rivendicazioni popolari, contrasto militarizzato al flusso migrante con istituzionalizzazione di fatto del lavoro clandestino sottopagato. Il cedimento programmatico del socialismo europeo è visibile, ma più che una resistenza tattica in attesa di tempi migliori viene alla mente l’immagine del boscaiolo incauto intento a segare il ramo dell’albero sul quale sta seduto. Riesumare la grande coalizione per escludere le pressioni della destra, in un quadro di conflitto armato e di evaporazione del centro politico necessario a legare le due ali (conservatori-progressisti), rinvia e aggrava ma non risolve i problemi. Dentro la transizione la crisi galoppa esasperando le tensioni, domina una gran voglia di arrivare ad una sorta di resa dei conti senza riflettere sulle conseguenze; la violenza verbale (a volte non solo verbale) che caratterizza le ultime campagne elettorali è un sintomo significativo dell’imbarbarimento. L’estrema destra promette l’annientamento del nemico e su questo ha costruito il successo nel bacino minoritario dei votanti, toccando probabilmente anche le corde di un segmento non irrilevante degli astenuti.

Le contraddizioni dentro il suffragio universale

Il voto a suffragio universale (senza preclusioni di sesso e/o di censo) è stato a lungo parte del programma del movimento operaio e delle formazioni politiche di sinistra. Fu inserito (silenziosamente, ovvero evitando di porre limitazioni pur senza enunciazione formale) nella Costituzione della Repubblica Romana (1848-49), di fatto senza trovare poi concreta applicazione nel breve tempo di quell’esperienza da Marx definita eroica. Poi, nel novembre del 1917, regolò l’elezione dell’assemblea costituente durante la rivoluzione russa, con un’affluenza (48,44 %) quasi pari a quella dell’ultima consultazione europea. In Italia prese vigore, per la prima volta, a seguito del Decreto Luogotenenziale Bonomi n. 23 del 1 febbraio 1945, con il convinto appoggio del partito comunista, allora nel governo di unità nazionale.

La partecipazione era altissima, l’astensione costituiva un fenomeno fisiologico quasi residuale, nonostante l’assenza di mezzi comunicativi diversi dalla radio e dalla carta stampata. Le organizzazioni di massa filtravano i candidati, quasi sempre legati al territorio, alla filiera produttiva, all’esperienza maturata nella gerarchia di partito. Erano le strutture a finanziare i candidati, salvo poche pittoresche eccezioni come quella del ricchissimo armatore Achille Lauro, monarchico, deputato, senatore, sindaco di Napoli e presidente della squadra di calcio cittadina.

Nell’ultima parte del secolo scorso le cose mutarono profondamente: la rivoluzione dei mezzi di comunicazione e il prepotente ingresso dei dati informatici nella battaglia politica (i sondaggi d’opinione in particolare) trasformarono le scadenze elettorali in uno spettacolo, in una scommessa, in un investimento. Il capitale finanziario riuscì a dare un prezzo di mercato ad ogni singola carica, nella modulistica istituzionale trovò ingresso la voce persona politicamente esposta. Qualsiasi ruolo istituzionale per poter essere ricoperto imponeva di sostenere un costo rilevante, non alla portata di tutti, anzi generalmente alla portata di pochi. In linea di tendenza la rappresentanza parlamentare (nazionale o regionale) si era fatta impresa; e l’impresa aveva finanziatori, soci, amministratori, testimonial, protagonisti, seguito mediatico da mettere a valore. In quegli anni l’organizzazione della campagna elettorale diventò un mestiere specializzato, agli addetti non si chiedeva adesione di coscienza ma capacità di ottenere un risultato.

Così venne meno il rapporto fra elettore ed eletto; o, meglio, nel periodo di mandato era sufficiente mantenere o aumentare il numero di  followers (ormai certificato o almeno misurabile tramite sondaggio d’opinione, Facebook, X, e simili); in fondo il voto è anonimo, il singolo può essere rimpiazzato perché fungibile, il sondaggio d’opinione consente di adeguare il programma proposto al sentiment rafforzando la posizione e/o il valore di un rappresentante del popolo sovrano anche in vista di future consultazioni, di nuove alleanze, di progetti redditizi. Certamente la regola generale (disporre di capitale) consente eccezioni; il mondo delle imprese prevede l’ingresso di startup e questo naturalmente avviene anche nel pianeta delle urne, con tentativi ripetuti di nuovo ingresso, a volte coronati da successo, più frequentemente conclusi in un fallimento. Come giustamente rileva Steve Blank  la scalabilità è un elemento portante di questo genere d’impresa; l’avvio di un’attività non scalabile è incompatibile con l’aspirazione  ad una crescita indefinita che contraddistingue il nuovo ingresso. Il caso dei Cinquestelle è di scuola, ci sta tutto: arrivo imprevisto, tentativo di emarginazione, consolidamento istituzionale, cambi casacca, scalate ripetute, ristrutturazione. Ma, anche in questa eccezione numericamente più rilevante, vince la regola: per partecipare bisogna investire, bisogna avere i mezzi che  consentano di acquisire visibilità. Questo, in linea di massima, garantisce il palazzo del potere, è la colonna su cui si era costruita la teoria draghiana del pilota automatico, oggi tuttavia pervenuta ad una soglia critica.

L’intelligenza artificiale e l’odierna rete di comunicazione mediatica (che ormai pervade l’intera cooperazione sociale, l’insieme delle esistenze messe a valore) si trovano sempre più spesso in contraddizione con l’istituto del suffragio universale, per come venuto alla luce fra Ottocento e Novecento. Per un verso il sondaggio pretende ormai un ruolo di elezione permanente, incompatibile con il conferimento di un mandato (di fatto incondizionato) a scadenza prefissata; per altro verso la persuasione occulta ha affinato gli strumenti di intervento sul campo, ben oltre ogni più futuristica previsione di Vance Packard nel suo celebre Hidden Persuaders del 1957. Le continue mutazioni di singoli segmenti del sentiment si incrociano, periodicamente, con scadenze elettorali convocate a suffragio universale, a volte con imprevisti risultati che a loro volta generano conseguenze non sempre misurabili con i normali strumenti d’indagine.

Benché talvolta non misurabili rimangono pur tuttavia conseguenze reali; il rafforzamento elettorale dell’estrema destra in queste ultime elezioni europee ha già provocato un piccolo terremoto in Francia, con la mossa a sorpresa di Macron, deciso a rimanere, disposto anche alla coabitazione con Marine Le Pen pur di non ammettere la prossimità del capolinea, l’evaporazione del centro che si era illuso di rappresentare quale ago della bilancia. Sconfitto sul campo di battaglia in Sahel e dai risultati elettorali di rinnovo del parlamento europeo cerca ora una rivincita minacciando l’invasione armata della Russia. Andò male a Napoleone, che pure era un formidabile cervello militare, possiamo immaginare la sorte di questo arrogante funzionario senza alcuna esperienza sul campo di battaglia, da cui si è costantemente tenuto ben distante, al sicuro nelle retrovie, limitandosi a periodici incontri con l’ex attore, costantemente in maglietta dell’esercito (mediaticamente una bella trovata, sembra che arrivi direttamente dal fronte, fa quasi tenerezza).

Sorprese dalle urne

Ridimensionati i verdi tedeschi, sconfitti quasi ovunque i liberali, in questo quadro di radicalizzazione due sono state le sorprese uscite dalle urne: la valanga di voti raccolta dal generale Vannacci (unica diga che ha limitato il capitombolo leghista) e il pieno successo (per niente scontato) della candidatura di Ilaria Salis. In entrambi i casi l’investimento economico è stato quanto mai modesto, il consenso è arrivato in ragione dell’immagine proposta alla minoranza di elettori votanti.

Vannacci in veste di soldataccio, uomo del popolo, difensore della patria e della famiglia, un sicuro argine in divisa da combattimento, contro il diverso che cerca di rubarci il pane. Ha mostrato senza imbarazzo il simbolo della tristemente celebre X MAS (l’acronimo sta per Motoscafi Armati Siluranti e lui è un paracadutista, ma non importa, siamo tutti patrioti). Con una faccia di bronzo straordinaria il generale ha spiegato ai giornalisti (categoria più vicina al non saper nulla che al saper poco) che la X cui si riferiva non era quella repubblic(hi)(a)na diretta da Junio Valerio Borghese fra il 43 e il 45, ma quella monarchica, a suo dire eroica e pluridecorata. Fondata come prima flottiglia (erano solo tre) nel 1939 non ammetteva, già in origine, ebrei per via delle leggi razziali; operò nelle file nazifasciste e finalmente il 10 marzo 1941 prese il nome X MAS in onore di Giulio Cesare (Vannacci omette di chiarire quale fosse l’orientamento sessuale dell’imperatore romano, per non imbarazzare l’uditorio). L’impresa più ardita e nota della X MAS fu l’attacco sferrato alla flotta alleata nella baia di Alessandria, il 19 dicembre 1941, arrecando gravi danni all’esercito inglese e favorendo così i nazisti di Rommel, gli alleati di Re Vittorio e di Mussolini. Gli ebrei di Alessandria, a rischio di lager, non furono felici di questa impresa. Fu comunque il fascismo (non la patria) a decorare gli autori dell’impresa, che a onor del vero poi si riscattarono, evitando di seguire il comandante Borghese nell’esercito di Salò (era a capo della X MAS già dal 1 maggio 1943, prima del 25 luglio) e arruolandosi invece a fianco degli alleati (russi compresi). I più noti furono il marchese Luigi Durand de La Penne (nel dopoguerra parlamentare per DC e PLI, anche membro di governo) e l’ammiraglio Ernesto Forza, comandante della divisione Mariassalto durante la guerra di liberazione (medaglia d’argento) contro la sua vecchia X MAS, rimasta invece a fianco dei nazifascisti. Furbo il Vannacci, abile nel costruire il personaggio.

Ben diversa la vicenda di Ilaria Salis. Non era per nulla sicuro che AVS riuscisse a superare il quorum del 4%, per via della lista concorrente legata a Santoro, dell’astensionismo disobbediente ben presente nel bacino in cui la candidatura andava a pescare, delle ambiguità sul tema della guerra, soprattutto nell’area tradizionalmente verde. Eppure è accaduto qualche cosa che non avevano messo in conto PD, Cinque Stelle, Santoro e, forse, neppure l’intera AVS che pure aveva deciso di assumere il rischio di proporre la liberazione di una compagna detenuta, senza porre condizioni. Con la sola eccezione di Mimmo Lucano (altro candidato anomalo) lo scarto fra le preferenze raccolte da Ilaria Salis e quelle politiche per così dire tradizionali è di notevole portata, ha reso più chiara la sostanza dell’evento: AVS ha raddoppiato i consensi, nulla giustifica un simile risultato se non una candidatura che si poneva fuori dagli schemi prefissati, legata alla concreta possibile liberazione di una vittima del dispotismo occidentale. Invano i media hanno sottolineato le condanne precedenti di Ilaria Salis in Italia (compreso Marco Travaglio sul Fatto quotidiano), invano la cronaca ha evocato debiti verso l’erario, legati all’uso di una casa di proprietà pubblica, tralasciando ogni dettaglio per rendere più forte l’accusa. Così facendo hanno solo convinto i dubbiosi a votarla, senza una sola apparizione televisiva, contando sull’emozione collettiva, sulle parole del nemico. Lo scontro radicalizzato genera anche questa contraddizione: il suffragio universale mantiene una sua doppia natura, la regola che consente al potere di prevalere grazie alla forza e al denaro, l’eccezione che compare di quando in quando sulla scena unificando – magari solo per un istante – i segmenti precari divisi.

Il suffragio universale come trappola e come occasione

Il suffragio universale è profondamente cambiato, non ci sono dubbi. Il capitalismo finanziarizzato, quello delle piattaforme, ha capacità di influenza e di controllo davvero straordinarie. I mezzi di comunicazione e l’intelligenza artificiale, specie in un tempo di guerra, di stragi, di malattie e di allargamento della fascia povera, hanno quasi sempre la meglio. Le armi sono pronte per essere usate ove i mezzi ordinari non bastino.

Avere fiducia in un cambiamento dello stato di cose presente a mezzo di elezioni a suffragio universale è una grande illusione, un oppio dei popoli avrebbe scritto un nostro antenato cui dobbiamo molto.

Ma il suffragio universale contiene nelle sue pieghe una sorta di natura doppia, angoli inesplorati che dobbiamo imparare a coltivare in forme laiche, non fideistiche, concrete, soprattutto sovversive. Bisogna imparare a interpretare criticamente questa doppia natura, trasformare l’analisi in scienza, piegando alla ribellione anche gli strumenti moderni del dominio capitalista contemporaneo. Le contraddizioni le abbiamo davanti.

In Francia si gioca fra breve una partita da non sottovalutare.

In Italia Landini ha raccolto firme che porteranno al referendum su quattro quesiti sociali: la tutela dei licenziati (due quesiti), il contratto a termine e l’infortunio sul lavoro. Sono temi importanti, non decisivi, almeno da soli. Rimanessero isolati difficilmente potrebbe essere raggiunto il quorum altissimo necessario (50% degli aventi diritto al voto e già così più della metà oggi sia astiene). Probabilmente lo scopo vero di Landini è trattare qualche miglioria, acquisire forza al tavolo. Ma la scelta tattica non tiene conto del fatto che oggi prevalgono le estreme, non la diplomazia o il compromesso; il governo punta sulla forza e non intende venire a patti.

Bisogna che ai quattro referendum si aggiunga quello sull’autonomia differenziata; va aggiunto proprio perché spacca il paese. Tocca la distribuzione della ricchezza; non sarà mai oggetto di referendum costituzionale (che non prevede quorum) trattandosi legge ordinaria e sull’astensione punta l’alleanza di destra al potere. Ma la percezione di un esproprio è forte in tutto il meridione già scippato del poco reddito di cittadinanza; l’autonomia differenziata tocca la spesa sanitaria, l’assistenza medica, le ultime sacche di welfare. È il grimaldello per far pagare ai poveri il deficit di bilancio. Raccogliere 500.000 firme è alla portata di mano; poi va accorpato ai 4 referendum sociali, mettendo Landini di fronte alla scelta che voleva evitare, anticipando i tempi.

Non basta. Bisogna aggiungere, studiando bene la forma anche sul piano dell’effetto mediatico, espressamente, la sanità, la casa, l’ambiente. Ricordate il referendum sull’acqua pubblica? Sembrava impossibile, eppure la soglia fu superata. Ricordate l’energia nucleare? Il palazzo fu sconfitto due volte. Oggi ci riprova, la propone di nuovo sostenendo che si è ripulita. Va battuto per la terza volta, anche qui trovando una via adeguata. Con pazienza. Con fantasia.

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