Recensione al libro Domani Urbani. Futurologia e immaginari a cura di Alberto (Abo) Di Monte e Giulio D’Errico (Agenzia X, 2022)

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“Si può parlare di futuro come di quanto non è ancora accaduto”? L’affermazione, qui modificata in interrogazione, è di Alberto (Abo) Di Monte in apertura al volume collettaneo Domani urbani (Agenzia X, 2022) da lui curato assieme a Giulio D’Errico. L’interrogativo viene spontaneo a seguito della premessa che “da qualche tempo l’avvenire si è guastato e, persino alle più confortevoli latitudini sociali, non gode affatto di buona salute.” La vecchia fantascienza ci aveva abituato all’idea di uno spazio carente, tutto era già esplorato, conosciuto, e la pressione demografica ne accentuava il bisogno in termini di sopravvivenza; oggi, qualunque visione futuribile non può non sentirsi oppressa da questa nuova sensazione di privazione del tempo, di tempo mancante e di quello ancora a nostra disposizione come guasto, in cattive condizioni di salute.

A prima vista questa antologia che i curatori definiscono, più prosaicamente, piccolo manuale di futurologia urbana, potrebbe sembrare l’ennesima raccolta, una delle tante che si possono trovare nella sterminata produzione del genere fantascientifico, di racconti intervallati da brevi saggi sul futuro delle nostre città e del nostro vivere urbano. Nella realtà l’appassionato del genere rimarrebbe alquanto deluso e probabilmente anche irritato da questo miscuglio di narrativa e saggistica che si confonde e ibrida continuamente rendendo difficile la nostra consolidata esigenza di partizione tra il serio e il faceto, l’evasione e l’impegno, tra il lasciarsi andare ai sogni ad occhi aperti e la raziocinante indagine del reale.

Siamo qui di fronte a quella FS, cioè a quell’acronimo che “sta per fantascienza, femminismo speculativo, fabula speculativa e fatto scientifico, [che] evoca un grande gioco della matassa. Partecipare al gioco della matassa equivale a trasmettere e a ricevere degli schemi, lasciando pendere dei fili, preparandosi a sbagliare, ma riuscendo di tanto in tanto a scovare qualcosa che funziona, qualcosa di congruo e magari bellissimo che prima non c’era; equivale a trasmettersi connessioni ricche di significato, storie rivelatorie che passano di mano in mano, dito per dito, luogo di attaccamento dopo luogo di attaccamento, fino a creare le condizioni per una prosperità possibile sulla Terra. Il gioco della matassa può essere svolto da tanti soggetti allo stesso momento, soggetti che mettono in gioco qualsiasi tipo di arto, basta mantenere il ritmo del ricevere e del dare.” (1)

E allora l’idea di Abo e Giulio: l’aver “composto un manuale di futurologia urbana” andrebbe sostituita con quella di aver composto un misto di materiali organici capaci (in condizioni particolari) di trasformarsi in altro, dove “composto” diventa la parola chiave per capire il senso di questa “sfida immaginativa” che poco, o nulla, ha da vedere con le tentazioni resilienti di un immaginario mortifero distopico piuttosto che, nei suo rovesci ottimistici, col cosiddetto “solarpunk” o le sempiterne conquiste dello spazio.

“Occupare l’immaginario” come nel suggerimento di Antonio Caronia ricordato da Emanuele Braga nel capitolo “Milano utopia” è oggi il compito più urgente, per quanto disperato visto le forze in campo dalla parte avversa, quella di un potere che ha saputo far suo il compito di portare l’immaginazione al potere. E oggi, l’immaginazione del potere guida e determina il nostro desiderante, anche quando pensiamo di essere riusciti a declinarlo in modo sovversivo.

Questo manuale forse più che di sovversione potrebbe parlarci di una sorta di perversione, di una sua intima capacità di pervertire argomenti seri: la pedagogia (Andrea Perin, Città bambina), la viabilità ecosostenibile (Askapen, Sarà una bicicletta a salvare il mondo), l’abitabilità (Stefano Portelli, Sic transit real estate), la medicina (Asantewaa Boykin, Medicina, ribellione e ricostruzione, e Hakan Geijer, Un futuro per la sanità urbana), e così via, in potenziali figure del divenire mostri.

E a poco serve la pudica suddivisione in Premessa, Introduzione, capitoli e appendici, che non può salvare il tutto dall’essere, di fatto, un groviglio di figli, fili della stessa matassa del fare fantascientifico “nell’epoca della caduta del cielo dell’immaginario sulla terra del reale”. (2)

Manuale di futurologia? Per orientarsi? Nonostante l’intervento di un vero futurologo (Roberto Paura, La città e le stelle) diciamo piuttosto un manuale per perdersi! Allora un manuale per “mondeggiare” (per rimanere sempre nell’ambito di Donna Haraway precedentemente evocata). Cioè per credere nel rapporto con questo mondo, per quanto possa sembrare impossibile. “Qualunque cosa si faccia è dentro questo mondo” nella consapevolezza “che non c’è un fuori” (E. Braga). E quindi se “un altro mondo è possibile” può esserlo solo al di fuori, fuori da ogni possibile mondeggiare.

È duro far morire vecchi slogan, quando difficile uscire dagli schemi abituali di poter interrogare solo le risposte e mai le domande come invece tenta di fare Carlotta Cossutta (Città transfemministe, senza centri) nella pratica della cura in cui ripensare radicalmente gli interrogativi è indispensabile per capire “chi può e deve essere soggetto di cura e su chi può e deve offrirla.” Ecco due fili da passare “di mano in mano, dito per dito”: se non c’è un fuori a cui rimandare, le domande ci interrogano sul nostro vivere qui, e a noi sta chiedere a loro da quale mondo (astratto o concreto, dentro o fuori) si sentono in diritto di potersi porre a noi.

Che cosa fareste voi se foste al potere, a dover decidere di…? “Niente polizia, niente carcere, NESSUN FOTTUTO TEMPO LINEARE!” il graffito riportato da Amanda Priebe (Immaginare la fine della polizia è immaginare la fine del mondo) è la non lineare risposta. Se parliamo di abolire ciò che riteniamo ingiusto e sbagliato dobbiamo sapere che: “Abolizione non è un punto nello spazio-tempo a cui si può arrivare, perché abolizione non è un risultato, è una relazione. Concepire l’abolizione come una prassi relazionale significa perciò farla finita con alcune delle nostre credenze più profonde e interiorizzate: la nostra attenzione costante verso obiettivi e risultati; l’alto valore che diamo alle figure eroiche, ai traguardi e all’indipendenza personale a spese della collettività.”

E ancora Annina Torre (Rete miceliare): “Decostruire è parte della costruzione (…) Quando sottraggo un pensiero a una categoria divento libero di costruire. Divento un costruttore, non un’entità che ripete schemi, ma un animale umano.” Animali umani, cioè cyborg! Che altro voleva dirci Donna Haraway se non che il diventare cyborg significava diventare ciò che già si è. Da quando il buon Dio innestò nelle menti di Adamo ed Eva (come riporta Cartesio) i ricordi di un’infanzia in realtà mai vissuta. Animali, e in quanto cyborg, umani.

Ma se ora vogliamo costruire dalla decostruzione, tornando a restringere l’ottica all’aspirazione di questo manuale, di guida (per quanto modesta) per le città di domani, “occorre tenere presente che l’immagine della futura geografia urbana dovrà essere in grado di sostenere e comprendere tutti quei fantasmi, illusioni, scarti, insomma, tutto quel vero e proprio kipple che il dispositivo fantascientifico novecentesco ha depositato lungo tutta la storia delle nostre ‘mirabili sorti e progressive’ della civiltà del capitalismo maturo” (Giuliano Spagnul, Città, fantascienza, futuro).

Potremmo chiamare questi scarti, o kipple nel lessico dickiano, anche cliché, cioè tutti quei luoghi comuni, quel ciarpame immaginativo impossibile da debellare mediante qualsivoglia critica, pur feroce, o con la più maliziosa parodia, perché saranno sempre pronti a rinascere dalle proprie ceneri. “Lo stereotipo è indistruttibile” (3). Occorrerà invece liberarli, farli emergere in piena evidenza per poterli riconoscere come tali e poter così saper resistere per tracciare le possibili vie di fuga che le nuove forme del mondeggiare ci offrono. Sfilare, sottrarre un pensiero a una categoria; quel filo che avevamo tirato da Annina Torre… Questo credo sia il gioco che questo libro ha tentato di fare e che offre ora a tutti quelli che vogliano continuare a giocarlo.

NOTE

Nota 1: Donna Haraway, Chthulucene, Nero, Roma, 2019, p. 24.

Nota 2: Antonio Caronia, L’insostenibile naturalità della tecnica, in Millepiani n. 14, Mimesis, Milano, 1999. https://www.academia.edu/314713/Linsostenibile_naturalit%C3%A0_della_tecnica

Nota 3: Jun Fujita Hirose, Il cine-capitale, Ombre corte, Verona, 2020.

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