Perugia, una città in crisi depressivo-repressivo-pandemica: presso il dormitorio, precedentemente gestito da una cooperativa in appalto al comune, gli ex utenti senzatetto decidono di occupare lo stabile.

Le marginalità di solito private di ogni voce prendono parola e decisioni: in autogestione da domenica 16 maggio reclamano un tetto la cui presenza non dipenda dal meteo (“beside the weather we need a roof, a stable shelter” dice uno degli ex utenti in assemblea), e la necessità di cure e assistenza come diritto.

Ma facciamo un passo indietro per fare chiarezza nelle dinamiche che hanno portato, con una resistenza, a oggi, 27 maggio, di 11 giorni, a questa strana bolla temporo-spaziale in cui si galleggia più grazie all’attesa che alle risposte.

Il contratto della cooperativa che gestisce, con operatori e servizi, il dormitorio presso il Cva (Centro di vita associativa) dei Rimbocchi di Perugia scade, e dopo qualche pressione si riesce a posticipare in proroga il servizio per altri 15 giorni.

Il tempo non è clemente ed inspiegabilmente maggio, travestito da Novembre, non sembra rispettare le esigenze economiche del comune: nonostante il freddo, la pioggia ed il vento il 16 dello stesso mese si conclude il servizio e la maggior parte delle persone ormai ex utenti non hanno molti dubbi ma una domanda retorica da porre: e dove andiamo, adesso, secondo voi?

Un gruppo di solidali arriva in supporto e da lì in poi rimarrà antistante la struttura, intessendo relazioni con gli le lu occupanti e proponendosi come mediatorx con le forze dell’ordine (e non solo).

Il concetto è chiaro: per quanto possibile metteremo a nostra disposizione il nostro privilegio bianco e/o di cittadinanza per dilatare i tempi e provare a diffondere e dare visibilità ad una protesta e delle rivendicazioni di cui non vogliamo farci detentorx.

Purtroppo, sia sostenitori solidali che occupanti assistono ad una kermesse del grottesco di cui vogliamo rendere partecipi il numero più ampio di persone possibile. Come in un brutto film, i flashback  si affastellano quasi fino a farci dimenticare , per stanchezza o per meccanismo salvifico di rimozione, la sequenza cronologica.

Le ore sotto la pioggia di turno per (sperando di non) avvistare le volanti, il poliziotto che chiede agli ex utenti neri come mai non vanno a cogliere i pomodori, così come quell’altro che passa – osservando persona per persona – domandando: “Ma sei hai la residenza qua nel documento, vai a dormire lì no?”. E attonite risposte, tutte pressoché uguali: “Ma se c’evo na casa stavo di qui? (dialetto per: se avevo una casa stavo qui secondo lei)?”.

Gli accordi con i vigili: se voi liberi cittadini ci promettete di portare loro il cibo noi li facciamo rimanere.

Gli sguardi di intesa, quelli per rassicurarci, quelli di domanda su cosa possiamo fare, dire.

La cooperativa scompare. Sin dall’inizio serpeggia un dubbio che piano piano acquisisce la consistenza della certezza: nessun altro servizio della stessa può o vuole farsi vivo e non solo per questioni legali ma per i soliti, sottesi, rapporti di potere ed economici che legano appalti e servizi.

Scopriremo che anche consegnare del cibo non solo a singole persone costituisce un gesto di supporto che non ci si può permettere.

Scopriremo anche che il comune, in una continua amnesia, retrogusto fior di loto, non sa chi è presente nella struttura, ignora il cambiamento climatico, ed infine lo stesso stato di pandemia e le norme vigenti. Difatti, alla insistente ed incalzante questione delle persone senzatetto – che facciamo in strada se c’è il coprifuoco? – le Ffo (Fondi di finanziamento ordinario) decidono di adottare la rinomata tecnica di Andreotti: fingiti morto finché qualcuno non chiama la pubblicità.

Alla richiesta dell’intervento della protezione civile, arriva la visita del geometra del comune, la motivazione? Ispezionare lo stabile come possibile sede della protezione civile. Quando? In un futuro prossimo ed indeterminato.

Lo stesso futuro che viene man mano promesso allu ex utenti al susseguirsi dei giorni perché una volta vista che la tattica dello sgombero pret à porter non funziona, il comune si attiva per disgregare tutte le forme di relazione e resistenza biopolitica che si stanno creando.

Ad uno ad uno, purché sia il più accettabile tra i marginalizzati o il soggetto la cui messa in strada costituirebbe lo scandalo più scabroso, vengono proposte sistemazioni di pochi giorni, senza nulla di garantito che poco più di un letto.

Già, un letto della giusta durata per uno sgombero senza clamore.

E intanto, come parenti antipatici, i vigli passano sempre meno a fare visita e tra un gossip e un commento di sfuggita otteniamo la conferma: non c’è intenzione nemmeno di immaginare una proroga del progetto, ma di disseminare queste persone, poco importa delle loro necessità, importa ancora meno sradicarle dal gruppo di ex utenti di cui si sentono di far parte.

Come nella litania dal famoso racconto 10 piccoli indiani uno per uno li spostiamo, li illudiamo con una lista fittizia lungo la quale scorrere con il dito: oggi il signore ipovedente, domani quello italiano con i documenti a posto e giù e su e giù e su con il dito a scremare e ridurre a farti prendere con la busta della spazzatura i tuoi stracci. E giù e su mentre i servizi della cooperativa fanno da trasporto tra una spalluccia e un dito degli operatori.

Dunque due ordini del discorso ci appaiono evidenti: il primo è il dito che scorre, il secondo è la ricattabilità del lavoro. Il lavoro per il quale probabilmente pensavi di poter contribuire un minimo al welfare e al benessere di chi ha accesso a quasi nulla e per cui ora non puoi dare risposte che non siano spallucce.

Le assemblee sotto il sole e poi la pioggia, le apparizioni in tarda serata di chi i documenti li vede traballare o se li è visti stracciare.

“Io ho dovuto lasciare dei pezzi di me per ricordargli che esisto, e ora eccoci ad aspettare di essere mandati via come scarafaggi” dice uno degli otto piccoli indiani che rimane in questa bolla, a galleggiare più per l’attesa che le risposte.

E a chi si domanda ora se per caso, dopo sette giorni in questo tenore, qualcunx di noi ha forse perso di lucidità, a ricordare a tuttx di cosa è fatta questa occupazione ci pensa chi occupa, ci pensano le persone che questa occupazione la hanno “fatta”: da chi, anche dopo la sistemazione, è comunque tornato dicendo che preferirebbe la galera a tutte le restrizioni che tocca vivere ogni giorno, da chi è tornato dicendo che non vuole smettere di sostenere i suoi fratelli e da chi è perfino rimasto quando poteva andare e dagli altri piccoli indiani veniva così avvertito: “Se puoi andare vai, che qui non è sicuro”.

 

 

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