Intervista a Mathieu Rigouste – a cura di Carlotta Benvegnù, Simona De Simoni, Davide Gallo Lassere

Nelle tue ricerche elabori una genealogia coloniale e militare dell’ordine securitario contemporaneo. Quale ruolo ha giocato, a tal proposito, la dichiarazione dello stato d’emergenza durante la guerra di liberazione nazionale algerina?

Lo stato d’emergenza è un dispositivo giuridico creato in origine per poter condurre la guerra coloniale sul territorio nazionale senza paralizzare l’intero sistema d’accumulazione capitalistica. Lo stato d’emergenza permette infatti di condurre una forma di guerra poliziesca contro una parte della popolazione senza mettere il paese e l’economia interi “sotto assedio”. La Costituzione della Quinta Repubblica è stata forgiata per e tramite questo tipo di guerra: si tratta, infatti, di un sistema giuridico che garantisce al capo dello Stato la possibilità di sospendere ininterrottamente la separazione teorica dei poteri. In tale situazione, la borghesia nazionale al potere può prendere il comando della macchina da guerra e dirigerla contro una parte della popolazione, senza dover rispettare i vincoli di legittimazione giuridico-legali normalmente in vigore.

Si tratta di un modello costituzionale che l’imperialismo francese ha esportato assieme alle dottrine contro-insurrezionali verso diversi Stati neocoloniali. Paesi come la Colombia o le diverse ex colonie francesi in Africa, si sono dotati di questo dispositivo costituzionale, man mano che i loro stati-maggiori militari (prima) e polizieschi (poi) si appropriavano della dottrina francese della contro-insurrezione.

Il decreto dello Stato d’emergenza durante la guerra d’Algeria – così come in Nuova Caledonia nel 1985, durante le rivolte dei quartieri popolari nel 2005 e ancora oggigiorno – ha permesso d’intensificare gli strumenti della guerra ai “nemici interni” designati dalle élites politico-militari. Inoltre, esso consente l’uso di dispositivi che mirano a paralizzare la vita sociale di una parte della “popolazione” considerata potenzialmente sovversiva. Lo stato d’emergenza, infatti, viene dichiarato per poter decretare il coprifuoco e sistematizzare le perquisizioni amministrative; per moltiplicare le custodie cautelari, gli arresti domiciliari e le carcerazioni arbitrarie; per consentire di smantellare le reti, di vietare certi luoghi e territori, di svuotarli della loro popolazione e di aprire dei campi d’internamento camuffandoli come “centri amministrativi”. Tutto ciò, senza arrestare la macchina del mercato capitalistico.

Lo “stato d’emergenza”, dunque, è in primo luogo un dispositivo giuridico contro-insurrezionale. Allo stesso tempo, però, esso costituisce uno dei pilastri della ristrutturazione giuridico-politica dello Stato-nazione che consente agli imprenditori della violenza di trarre profitto dalle forme di guerra interna a intensità e durata variabili. Come molti dispositivi d’eccezione suscettibili di ottimizzare i costi del controllo, è stato integrato dal e attraverso il capitalismo securitario. Da questo punto di vista, le guerre coloniali degli anni ’50 hanno costituito il laboratorio e la matrice di nuove forme di potere e d’accumulazione basate sulla possibilità di trasformare il controllo in profitto mediante un uso industriale e razionalizzato del terrore di Stato.

Dopo il 1968 il controllo è diventato un autentico mercato. Obbligato a ristrutturarsi a causa delle crisi che esso stesso provoca, il capitalismo ha innanzitutto colto la possibilità di privatizzare il controllo come una valvola di sfogo. È così che la mercificazione della “guerra interna”, ossia il mercato della sicurezza, è diventata una delle sue prospettive di sopravvivenza del capitalismo stesso. Dopo il “keynesismo militare” che ha permesso al capitalismo di trarre profitto dalla crisi degli anni ’30, siamo ormai confrontati a una forma di “keynesismo securitario”. Per tutte queste ragioni e poiché beneficia da diversi secoli di territori coloniali e di enclave endocoloniali nelle quali sperimentare nuove forme di controllo e di sfruttamento, l’imperialismo francese gioca un ruolo di primo piano nella storia dello Stato e della ristrutturazione securitaria.

Anche durante le sommosse del 2005 lo stato d’emergenza è stato dichiarato da Chirac. A quale logiche rispondeva un tale proclamo?

Vi era una parte simbolica, di messa in spettacolo della vendetta di Stato. Si trattava in particolare di far passare il messaggio: “Attenzione, lo Stato sta veramente combattendo una guerra interna”! Siccome nel capitalismo securitario i governi e i media dominanti passano il loro tempo a dichiarare guerra a tutto ciò che si muove, è necessario investire anche nella messa in scena per suscitare e gestire ammirazione o terrore. Ma si trattava anche di concentrare le energie di tutte le istituzioni sulla “pacificazione” dei quartieri popolari segregati, in modo da non doverci inviare l’esercito. Nel 2005, infatti, diversi segmenti della classe dirigente avevano seriamente preso in considerazione questa possibilità in quanto il ricorso alla polizia si era dimostrato insufficiente.

In quell’occasione, decretare lo “stato d’emergenza” ha permesso di sperimentare una sorta di battaglia militar-poliziesca contro “le zone grigie interne”, per utilizzare una formula coniata dalla stessa ideologia securitaria. Le rivolte del 2005 sono state una risposta alla precarizzazione e alla repressione poliziesca dei quartieri, e ci hanno mostrato come l’ordine securitario sia nonostante tutto piuttosto fragile. Nel 2005, lo Stato ha testato e messo in mostra a uso e consumo degli stati-maggiori del mondo intero un prototipo di dispiegamento generale delle capacità poliziesche “in tempo di pace”, ossia tentando di non rallentare l’accumulazione del capitale. I “Retex” (feedback) di un esercizio del genere hanno appassionato gli stati-maggiori e le industrie militari-securitarie del mondo intero. Il costo e i mezzi dell’attuazione di un comando militare-poliziesco della “popolazione” – ovvero delle classi popolari – determinano infatti la possibilità di mettere in pratica le ristrutturazioni ultraliberali richieste dal gran capitale transnazionale.

A partire dagli attentati del 13 di novembre, ci ritroviamo di nuovo in uno “stato d’emergenza”. Che cosa ha prodotto tutto ciò nelle ultime settimane?

A inizio dicembre, lo Stato ha permesso ai suoi apparati repressivi di realizzare in modo relativamente autonomo – sebbene inquadrandoli a posteriori – oltre 2000 perquisizioni, 600 custodie cautelari (di cui 400 manifestanti contro lo stato d’emergenza o contro la COP21) e più di 300 arresti domiciliari (di cui una dozzina di militanti contro la COP21). I quartieri e le classi popolari sono stati sottoposti a un’intensificazione della segregazione e dei soprusi polizieschi, mediatici e giudiziari. Come normalmente avviene, chi sta sul fondo della scala sociale ha subito duramente l’inasprimento della repressione.

Dopo aver parcellizzato militarmente l’insieme del territorio metropolitano in seguito agli attacchi di gennaio 2015, decretando lo stato d’emergenza sull’interezza del proprio territorio, il governo francese ha cominciato a sperimentare una nuova forma di militarizzazione della società capitalista. È così che ha appena investito in 5000 nuovi poliziotti e gendarmes, ha aumentato il numero di “riservisti” mobilizzabili da 27.000 a 40.000 unità e ha disposto il budget per l’arruolamento e il dispiegamento di 10.000 militari nell’operazione Sentinelle.

Il decreto dello “stato d’emergenza” ha storicamente rappresentato per la coscienza collettiva della classe dirigente il repertorio giuridico-simbolico privilegiato della “guerra interna”. Quando arrivano le “crisi” che il sistema stesso genera a causa della sua rapacità, la classe dirigente può decidere di optare per una strategia che miri a strumentalizzare questo “choc” al fine di ristrutturare il sistema. Essa va quindi a pescare nel repertorio di idee e di pratiche che l’imperialismo ha storicamente messo a disposizione e di cui i segmenti militar-securitari della borghesia esigono l’impiego. Sin dagli anni Settanta, gli stati imperialisti hanno utilizzato strategie di choc per gestire situazioni di crisi.

L’ideologia securitaria utilizza “islamismo” e “terrorismo” per giustificare le nuove guerre coloniali in Mali, in Centrafrica, in Afghanistan, in Iraq o in Siria, ma anche per consentire lo smantellamento dei quartieri popolari che rallentano la ristrutturazione urbana, vero e proprio fenomeno di colonialismo interno. Dagli anni ’60 fino a oggi, inoltre, l’ordine securitario adotta schemi contro-insurrezionali contro i movimenti sociali.

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