Il 20 giugno 2018 il Guardian pubblica un articolo

[1], la firma è femminile: Amy Fleming. Si intitola:

Would you give up having children to save the planet? Meet the couples who have

Al di là del tono vagamente da tabloid, a metà tra una pubblicità di pentole “vieni a conoscere chi già le ha comprate e le usa quotidianamente!” e il moderatamente provocatorio (“bambini” e “pianeta” sono due temi piuttosto scottanti, e non solo a causa del riscaldamento globale), il titolo ci introduce nei complessi meandri della riflessione che le società occidentali stanno inaugurando intorno alla presente crisi ecologica e al che fare? cui essa ci pone di fronte. Si tratta dell’ennesima, chiara (per quanto forse non facile), ‘soluzione’ proposta: smettere di fare figli per salvare il pianeta. Ho 26 anni, ma quando ero piccola si parlava soltanto di spegnere le lampadine e chiudere il rubinetto mentre ci si lavava i denti. Al massimo diminuire l’uso della macchina. Pian piano l’elenco dei “comportamenti” non sostenibili si è espanso e con esso la lista delle cose a cui rinunciare per salvare il pianeta: viaggiare in aereo, usare l’asciugatrice, andare al ristorante e al cinema, comprare prodotti non biologici, mangiare animali e i loro derivati. Pare che l’orizzonte si espanda di giorno in giorno, come se per quanto noi ci impegniamo quotidianamente, i nostri sforzi non fossero mai abbastanza. La nostra società è alla costante ricerca di una ‘giusta’ soluzione che tuttavia sembra non materializzarsi mai.

Il sottotitolo è in questo senso ancora più interessante:

The environmental toll of having even one child is enormous – 58.6 tonnes of carbon each year. So is going child-free the answer to our climate crisis?

Mi ricorda lo spot di uno dei tanti prodotti anti-cellulite che invadono le farmacie e i supermercati: lo sappiamo che tutti quelli che hai provato finora non hanno dato alcun risultato, ma ti assicuriamo che questo è diverso – funziona! È una rincorsa, una riconcorsa quasi-consumistica alla soluzione “finale” che ad un tempo rende obsolescenti le precedenti e insieme non propone nulla di nuovo. Fu Malthus nel 1798 a indagare il nesso tra crescita demografica e pressione ecologica: la prima avrebbe comportato un inesorabile impoverimento della terra per effetto della crescente domanda di risorse. Propose lui stesso come soluzione (o meglio – ché i tempi erano diversi: prevenzione) il controllo delle nascite. E se per Malthus esso prendeva una forma autoritaria in cui la popolazione veniva esplicitamente gestita da poteri forti attraverso un sistema combinato di norme morali e pratiche istituzionali, oggi si invocano scelte apparentemente libere e individuali. Ma come l’anticellulite di ultima generazione sarà l’ennesima delusione poiché è la riproposizione del solito con un nuovo packaging, così ci pare che anche quest’ultima risposta alla crisi ecologica rimarrà probabilmente senza effetto poiché non fa altro che riproporre vecchie soluzioni in una nuova veste.

Conviene innanzitutto guardare brevemente al contenuto dell’articolo. Amy Fleming ci fa incontrare, come promesso, una serie di coppie (sono tutte etero, bianche, occidentali – per lo più di origini e residenza anglosassoni[2]) che hanno deciso di non avere figli e per questo, almeno in alcuni casi, sono ricorse a soluzioni anche definitive come la sterilizzazione o la vasectomia. Queste ci dicono essere decisioni piuttosto difficili in una società che vede nella procreazione uno degli aspetti centrali della propria realizzazione in quanto esseri umani – un pregiudizio culturale a cui si resiste tuttavia in modo convinto, contrapponendogli una sensibilità diversa: “ad oggi abbiamo così tante opportunità di fare cose importanti ed essere incinte più che di bambini. Possiamo essere incinte di idee e sogni e rivoluzioni”, come rileva un’intervistata. Fin qui, il discorso antinatalista che queste donne e uomini portano avanti pare avere dei risvolti emancipatori poiché rifiuta una certa etero-determinazione in materia di traiettorie vitali.

Ma guardiamo un po’ meglio nel testo. Perché si decide di non fare figli? Le varie testimonianze ci suggeriscono che tale decisione nasce in primis dall’essere venuti a conoscenza (per esempio, studiando biologia in università statunitensi, o attraverso i cosiddetti “mezzi di informazione”) delle conseguenze nefaste della crescita demografica sul pianeta e dell’impatto che ha ogni singolo essere umano. La conseguenza di questa consapevolezza è che per essere ecologicamente virtuosi uno dei primi passi è non fare figli. Inoltre, il cambiamento climatico e il crescente inquinamento terrestre aprono degli scenari distopici per il nostro futuro: pensare di mettere alla luce una vita umana in queste circostanze così difficili viene considerato irresponsabile ed egoista. Infine, guardata in senso razionale, la maternità/paternità ha ben poco di buono: i figli ci fanno spendere molto, tolgono tempo e piacere alla vita, danneggiano la terra. Queste ed altre osservazioni sono alla base del pensiero antinatalista del Voluntary Human Extinction Movement (VHEM) a cui con più o meno vigore aderiscono gli intervistati.

Non voglio entrare nella questione dell’estinzione umana tout court – se sia o meno cosa desiderabile è tema che va oltre il raggio di questa riflessione. Ciò che mi interessa è invece rilevare come questo argomento che si propone rivoluzionario o quanto meno emancipatorio sia invece profondamente plasmato dalla visione dominante della “sostenibilità” così come si configura all’interno del capitalismo neoliberista. E ciò è problematico in due sensi: (a) il capitalismo appare ormai strutturalmente incapace di far fronte alla crisi ecologica – per cui restare all’interno della sua logica equivale a produrre poco più che illusioni di cambiamento; (b) la sostenibilità diviene il tramite di una certa governamentalità che risponde a interessi di accumulazione capitalista molto più che umani o ecosistemici.

Cominciamo con un’osservazione molto banale e che tuttavia può passare inosservata. Già dal sottotitolo ci viene esplicitamente detto che è tutto un problema di numeri: la vita di ogni individuo è contabilizzata in termini di peso di CO2 che (presumibilmente) emette. In altre parole, la vita acquisisce un (dis)valore discreto e calcolabile – e più alto questo (dis)valore, minore il suo diritto a esistere. Sappiamo, specialmente grazie al pensiero marxista, che una delle caratteristiche principali del capitalismo è quella di ridurre il mondo, l’esistenza, a valore di scambio: ogni cosa, esperienza, divenire perdono le proprie qualità singolari per ridursi a delle quantità interscambiabili e indifferenti. In questo senso, la riduzione dell’individuo a un numero – una quantità di emissioni – risponde (se vogliamo, in negativo) alla stessa logica che sottende alla messa-a-valore della vita stessa che il capitalismo, soprattutto nella sua variante bio-cognitiva, opera costantemente[3]. Gli intervistati parlano spesso dell’avere figli in termini di costi e benefici, dando ulteriore conferma della colonizzazione della soggettività da parte di logiche economiche e di mercato pur in materie in principio così irriducibili. Ma se, come viene notato in ambito di critica ecologica, alla radice della crisi climatica e più largamente ecologica è la riduzione (operata dal capitalismo) del mondo a entità astratta e quindi infinitamente scambiabile/manipolabile/disponibile – come può un discorso che nasce all’interno di questo orizzonte produrre l’alternativa radicale che una transizione ecologica richiede?

Inoltre, se per decenni abbiamo sperimentato il fallimento delle politiche neoliberiste della natura verso la sostenibilità, dovremmo essere sospettosi di qualsiasi discorso che ne condivida assunti di base, pratiche, soggettivazioni. E che ci sia un’affinità di base tra questo tipo di antinatalismo e tali politiche è ulteriormente suggerito dalla prospettiva individualizzante che entrambi adottano. È ognuno di noi – ci viene detto – che, con le proprie “scelte” quotidiane, si fa di giorno in giorno responsabile delle sorti del pianeta. Si suggerisce che gli individui abbiano la libertà di scegliere razionalmente tra diversi corsi di azione, alcuni dei quali “virtuosi” e altri “viziosi” in termini ecologici. Di conseguenza questi comportamenti vengono moralizzati, poiché chi sceglierà i primi potrà essere considerato “buono” e chi i secondi “cattivo” – egoista, indifferente, stupido. Si suggerisce che una transizione verso la sostenibilità possa essere fatta dal sacrificio che alcune “anime belle” si sobbarcano di contro al resto di un’umanità vorace. Ma ciò nasconde il fatto che, in quanto individui, siamo solo parzialmente in controllo delle nostre azioni quotidiane poiché esse sono sempre parte di infrastrutture materiali, sistemi di valori, desideri e abitudini non liberamente scelti né “sceglibili”. Al contempo, l’individualizzazione della questione ecologica la de-politicizza: mette a tacere una più ampia riflessione sulle dinamiche sociali, culturali, politiche ed economiche che sono alla base della nostra crisi e la caratterizzano. Di conseguenza, si previene l’articolazione di alternative collettive di transizione verso modi di organizzazione socio-naturale più ecologicamente compatibili.

Tale depoliticizzazione ha inoltre un risvolto pericolosamente, e solo in apparenza paradossalmente, politico: l’effettiva cancellazione della differente distribuzione della responsabilità per la crisi ecologica tra la popolazione mondiale. Sappiamo che l’“impronta ecologica” di un individuo facente parte di società a capitalismo avanzato è esponenzialmente maggiore rispetto a quella di uno proveniente da un paese cosiddetto in via di sviluppo o sottosviluppato[4]. Tuttavia, nell’articolo, l’indicatore del bilancio ambientale di un bambino è unico e non viene contestualizzato: pare che tutti i bambini del mondo inquinino allo stesso modo. Come la critica al concetto di Antropocene[5] suggerisce, è un trucco ideologico quello di porre sullo stesso piano l’umanità come agente di trasformazione ecologica, poiché nasconde che solo parte (la più ricca, la più potente) di essa è responsabile delle azioni più ecologicamente impattanti. È una costruzione del problema che permette, anche di fronte all’ammissione di alcuni intervistati che le società occidentali hanno maggiore impatto sugli ecosistemi, di non mettere in discussione il sistema industriale e post-industriale di cui esse sono espressione. Il dibattito politico su tale modello socio-economico (che è poi un dibattito sulla civiltà: sulla forma del nostro esistere, vivere bene, morire, relazionarci con ciò che di non umano ci attraversa) è così messo a tacere e la soluzione alla crisi ecologica diviene un problema tecnocratico, “quantitativo”, di governo della popolazione.

Ancora più grave è la correlata implicazione neocolonialista ed eurocentrica di un tale discorso antinatalista. La crescita della popolazione globale è oggi principalmente legata ad un incremento della natalità nel Sud del mondo. Che dall’occidente “sviluppato” arrivi l’esortazione a limitare in modo “volontario” la natalità suona indirettamente come una criminalizzazione di comportamenti presunti “irresponsabili” da parte del resto della popolazione mondiale. Ciò con l’effetto paradossale che coloro che sono collettivamente più ecologicamente distruttivi (l’occidente ricco) assumono una posizione di paternalistica superiorità nel dettare i termini della virtuosità ecologica. Come ai tempi della più aperta e sistematica colonizzazione, gli occidentali si ergono a paladini di una buona e razionale condotta di fronte all’irrazionalità dei popoli “altri” i quali, in preda a presunti arcaici sistemi di valori, “ancora” percepiscono la procreazione come valore o, peggio, non sono capaci di “proteggersi” dalle conseguenze dei propri atti sessuali. Ma tutto ciò non parla della sistematica appropriazione della terra, dei corpi, delle civiltà che questi popoli hanno subito e continuano a subire per mano di un capitalismo ora globale; della funzionalità di questo eccesso di corpi nel riprodurre precarietà, manodopera a basso costo, neoschiavismo per un capitale in continua ricerca di nuovi territori di accumulazione.

Mi preme infine rilevare l’effetto biopolitico di questo discorso. Più sopra ho riportato che la decisione di non fare figli viene presentata come libera: si reclama la possibilità di auto-determinarsi in ambito riproduttivo. Tuttavia, a guardare meglio nei discorsi degli intervistati, le ragioni della loro scelta non hanno a che vedere con desideri singolari ed esperienze concrete, situate. Anzi, ci viene spesso detto che decidere di non fare figli è difficile, va contro la (presunta) biologia (femminile). Alcune intervistate (donne) riportano di sentire il proprio corpo spinto alla procreazione e di resistere a tale spinta per ragioni etiche di salvaguardia dell’ambiente. Vediamo così come la moralizzazione della procreazione attraverso un discorso di virtuosità ecologica individuale non solo depoliticizza la questione: infiltra i corpi e i desideri dei suoi codici socialmente costituiti e li sottomette a gerarchie rigide. È dovere di ognun* essere buon* nei confronti della terra. È quindi buono non desiderare un figlio | è cattivo desiderarlo[6]. L’imperativo morale di “salvare il pianeta” si fa così veicolo di una governamentalità a/di cui si fanno soggetti gli intervistati affermando la propria facoltà di scegliere liberamente se avere figli o meno. Si può allora dire che la “scelta” di essere “child-free” non è tanto auto-determinata quanto piuttosto prodotta da un apparato di potere che sistematicamente oscura l’aspetto politico delle lotte ecologiche rendendole materia di governance. In quanto tale, essa appare inoltre sottoposta ad un regime patriarcale in cui il corpo femminile (i suoi moti, il suo sentire, il suo divenire) viene adeguato a necessità socio-economiche[7]: è “giusto” desiderare e fare figli fintantoché essi sono funzionali a regimi di produzione e accumulazione, diventa “sbagliato” nel momento in cui essi diventano un problema (e sarà forse per caso che un tale discorso antinatalista prenda piede nelle società a capitalismo avanzato in cui la disponibilità di manodopera a basso costo è resa ridondante dall’automatizzazione e dallo sfruttamento dell’altro che è in sovrappiù – il povero, il migrante?).

Tutto ciò suggerisce che la scelta di non fare figli non solo non sia la soluzione finale alla crisi ecologica che viviamo, ma che possa addirittura divenire il veicolo di politiche economiche inique, neocoloniali, patriarcali e fondamentalmente funzionali all’accumulazione capitalista. Ma vale la pena soffermarsi per un momento sulla prospettiva quasi surreale di una totale, volontaria, estinzione umana. Viene da chiedersi se un pianeta “salvato” ma vuoto possa avere un senso, forse essere migliore. Forse tuttavia la questione è mal posta, come mal posto è l’inquadramento del problema della popolazione in termini di “impatto” o “impronta” ambientali. La loro premessa è che si possano distinguere gli (individui) esseri umani da un cosiddetto ambiente, o pianeta, o Natura ad essi esteriore, passiva, inerte. Pensiamo tuttavia che un “mondo” naturale separato dai processi storici umani (e vice versa) non esista. In quest’ottica, non c’è nessun mondo da salvare ma solo nuovi mondi da costruire assieme a tutto ciò che ci circonda. E quali (molteplici) forme questa costruzione possa assumere è tema fondamentale di lotta – una lotta che i sostenitori dell’estinzione non fanno altro che atrofizzare proponendone una (impossibile) univoca soluzione e di fatto riproducendo le odierne, inefficaci, necropolitiche (aggettivo più calzante non poteva esserci) neoliberiste.

*Questo pezzo nasce da una riflessione iniziata attraverso un post Facebook a cui molti amici hanno risposto. Ringrazio tutti in anticipo: tra queste righe c’è anche il loro contributo

NOTE

[1] https://www.theguardian.com/world/2018/jun/20/give-up-having-children-couples-save-planet-climate-crisis?CMP=fb_gu

[2] È interessante notare che una delle intervistate, la quale si auto-definisce ambientalista (e per questo vegana e child-free), è una racer professionista. Ossia: vive di gare automobilistiche, uno degli “sport” più inquinanti in assoluto nonché, mi sento di rilevare, pienamente in linea con una certa cultura capitalistica fatta di accelerazionismo (piuttosto letteralmente in questo caso), auto-affermazione, competizione e appropriazione. Questo già dovrebbe metterci in guardia rispetto al tipo di ambientalismo che qui si propone a modello.

[3] Sarà forse lecito rilevare come questo processo richiami il funzionamento dei mercati del carbonio: l’attività umana viene ridotta a quote presunte commensurabili di “emissioni” prodotte; un certo tipo di materia (CO2) diviene scambiabile attraverso un processo di astrazione e monetarizzazione che prescinde dalle sue qualità concrete. Vedi: http://effimera.org/introduzione-lavoro-natura-valore-emanuele-leonardi/

[4] http://data.footprintnetwork.org/#/

[5] Si veda: http://effimera.org/anche-le-creature-dovrebbero-diventar-libere-giustizia-planetaria-origini-della-crisi-biosferica-jason-w-moore/.

[6] Varrebbe la pena intrattenere un’ulteriore discussione sul carattere nichilistico di tale moralizzazione che rovescia l’ideologia della procreazione a testa in giù. I propositori dell’antinatalità possono essere visti come gli ennesimi “asceti” nel senso nietzschiano del termine: individui che, togliendo qualcosa al proprio desiderio in nome di un imperativo morale, possono affermare se stessi come esseri più razionali, migliori, superiori. Una volontà-di-potere (più che di potenza) che testimonia ulteriormente come anche soggettività che si costruiscono come altruiste prendono forma (in società inique) attorno a logiche di auto-affermazione sopra e contro il diverso.

[7] http://arielsalleh.info/published-work/books/easp.html

 

Immagine in apertura: immagine tratta dal profilo fb di VHEM Support WorldVasDay 2015

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