Terminata la kermesse Expo 2015 (con un bilancio economico in perdita, riusciti test di gratuità del lavoro e processi di gentrification), comincia la tenzone per il riutilizzo delle aree, tra elevati costi di dismissione e bonifica, appetiti speculativi, interessi particolari. È un cliché che abbiamo già visto e che non risparmia alcuna metropoli, a Nord come a Sud del mondo. In questo prezioso articolo, Angelo Junior Avelli comincia a tracciare un quadro di ciò che si sta muovendo sull’area Expo Spa.

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Milano, 2 febbraio. L’incontro pubblico organizzato dall’Università degli Studi di Milano e presieduto dal rettore della Statale Vago e da Walter Bergamaschi, da momento di confronto che doveva essere (sulla carta) si è trasformato presto in un puntello informativo, dove le istituzioni dettavano sostanzialmente la tabella di marcia, scadenze ed esigenze alla platea. Una presentazione con una dozzina di slide in power point nelle quali il “duo” dichiarava che era stato effettuato uno studio, costato 8 milioni di euro che accreditava il progetto, mostrando profitti e benefici. Il Progetto del Campus Scientifico nell’ex Area Expo si affianca a quello della costruzione del Human Technopole. I due progetti coinvolgeranno una molteplicità eterogenea di soggetti tra il pubblico (compreso il Politecnico di Milano) e il privato (per intenderci, multinazionali del calibro di Bayer, Roche per citarne solo alcune). All’interno di questo panorama, tangenzialmente si intersecano gli interessi di due ospedali ubicati nel tessuto urbano di Città Studi, che, secondo il piano, finiranno a Sesto San Giovanni, come parte integrante della Città della Salute, all’interno dell’operazione immobiliare gigantesca della riqualificazione dell’ex Falck. I due attori sanitari coinvolti sono il Besta e l’Istituto dei Tumori. Attualmente nessuno ha avanzato ancora proposte dettagliate in merito al piano della riconfigurazione funzionale dei quartieri di Città Studi e Lambrate che, allo stato attuale, finirebbero semi disertificate, svalorizzando de facto il patrimonio immobiliare dell’Università, che dovrebbe invece coprire l’investimento e parte dei costi per il trasferimento. Questo senza tenere conto, del resto, che l’intera area perderebbe alcuni delle funzioni logistiche determinanti della zona, il che comporterebbe un ripensamento generale dei collegamenti esistenti tra il quartiere, la città metropolitana e il resto della Lombardia. Rimarrebbe giusto parte del Politecnico, che si è detto disponibile ad occupare alcune strutture lasciate vuote, ma non si è capito bene quali. Il che ha fatto storcere non poco i nasi a molti studenti delle facoltà scientifiche perché chiaramente il Politecnico si espanderebbe in maniera considerevole e rimarrebbe l’unica struttura in quartiere, non è chiaro ancora però entro quali termini e condizioni.

Nel corso dell’incontro è stato presentato il benchmarck ad opera del Boston Counsulting Group, incaricato da Arexpo di effettuare insieme ad una serie di partner internazionali e nazionali uno studio che certificasse la validità del progetto, in modo da qualificarlo e da promuoverlo sul mercato ai possibili investitori. Ricordiamo che l’intera operazione è frutto della triangolazione della società partecipata Arexpo S.p.A. (costituita nel 2011 e partecipata dal ministero dell’Economia e delle Finanze 39%, Regione Lombardia e Comune di Milano entrambe al 21%, Fondazione Fiera Milano 16%, Città Metropolitana di Milano 2% e Comune di Rho 1%) e della costellazione variegata già descritta, come mix finanziario, che va da grandi corporation estere a istituzioni gestite come imprese private (si pensi all’ IIT di Genova che si occuperebbe della supervisione del tecnopolo). A questo punto, un po’ a giochi avviati, si stanno cercando finanziatori e operatori immobiliari interessati a partecipare al bando. Ricordiamo che l’imperdibile affare, l’occasione unica, da cogliere assolutamente per l’Università Statale di Milano – così è stata ripetutamente descritta da il rettore Vago nel corso dell’incontro – fa riferimento ad un bando che è stato un totale fallimento la prima volta, poiché nessuno si è presentato (basti pensare ai costi di bonifica o ai costi di smantellamento dei padiglioni rimasti vuoti e montati all’interno dell’area, di cui nessuno evidentemente ha potuto e voluto ancora farsi carico, nemmeno la società stessa incaricata delle gestione, Arexpo, chiamata per gli amici anche ‘Operazione Profondo Rosso’). Anzi, proprio per questo motivo, per rendere più appetibile il secondo tentativo di gara d’appalto e incentivare la presenza di possibili interessamenti, è stata aggiunta nel testo una piccola postilla, molto significativa: la possibilità di estendere la concessione di quella fetta di terreni dell’area a destinazione libera, che andrà in mano a chi vincerà l’appalto. Lì si potranno edificare volumetrie non ancora ben specificate, si passerà così dai 50 anni ai 99 anni, stiamo parlando di circa 480 mila mq, all’interno di un’area che è grande circa 1 milione di mq, la cui destinazione del progetto Parco della Scienza, del Sapere e dell’Innovazione, prevede una copertura di circa 338 mila mq di suolo. Il bando si articola in momenti diversi: una prima fase di preselezione degli eventuali advisor in corsa per lo sviluppo tecnico dell’attività dei servizi finanziari ed economici per Arexpo S.p.A. attraverso la presentazione di un masterplan e di un business plan, ed una seconda fase più focalizzata sull’attuazione del masterplan e del piano industriale (progettazione, costruzione delle opere e gestione degli spazi). La scadenza della prima fase è fissata per il 28 febbraio, data in cui dovranno pervenire tutte le candidature ad Arexpo, la quale si prenderà poi 30 giorni di tempo per la valutazione dei requisiti e l’invio degli inviti ai candidati in concorso considerati meritevoli.

Nella legge di stabilità del 2017 dovrebbero essere previsti, come stanziamento iniziale dal Governo, 8 milioni di euro per l’avvio dell’attività di progettazione. Inoltre, nel novembre scorso, sempre il Governo insieme alla Regione Lombardia ha definito un accordo per affidare 700 milioni di euro, proveniente da un fondo europeo all’ente, di cui 130 milioni sarebbero destinati al finanziamento del nascente Campus. Arexpo assegnerà l’appalto entro la fine dell’anno. Entro quella data il Governo avrà stanziato 138 miliardi di finanziamenti pubblici per la copertura dei costi del trasferimento di Città Studi. A questa cifra andrebbe ad aggiungersi quanto verrà dedotto dalla vendita di parte del patrimonio immobiliare della Statale. In più è stato stimato un debito dell’ammontare circa di 130 milioni di euro.  L’Università dichiara che, dallo studio, il dato che emerge è che in questo modo è possibile risparmiare circa 380 milioni di euro – che invece l’ateneo dovrebbe sborsare da solo, tra costi di ristrutturazione, ammodernamento, manutenzione e adeguamento energetico. Chi vince il bando sarà costretto a rispettare le linee guida indicate da Arexpo e questo dovrebbe bastare a garantire la buona riuscita dell’operazione a garanzia del rispetto degli standard indicati, secondo Vago e la Statale. In realtà se si prende solo in considerazione come esempio il caso dei lavori di ammodernamento del Dipartimento di Informatica in Via Comelico, c’è poco da stare allegri, visti i continui ritardi, a causa dei fallimenti delle aziende appaltatrici: le previsioni più ottimistiche vaticinano la fine dei lavori entro il 2018.

Altrettanto allarmanti sono altri pezzi del puzzle che delineano il quadro. L’immagine che ne deriva se non fosca appare, quanto meno, molto poco nitida, rispetto a quella tanto decantata nello studio del benchmark. Aberrante il fatto che nel primo progetto sottoposto all’Università non fossero previste biblioteche per gli studenti, aule studio, e pochi fossero i luoghi di aggregazione (insomma Milano ha già la Bicocca come polo accademico “pubblico” sotto forma di centro commerciale, c’è davvero bisogno di un suo doppione più patinato, c’è da domandarsi?). Tra l’altro, rispetto alla prima versione delle linee guida, gli spazi riguardanti il residenziale studentesco, rispetto alla percentuale degli altri modelli universitari citati nel benchmark, presentato all’incontro, sono fortemente ridimensionati: si va dal 35% di Vienna al 23% di Rho. E ancora, come si pensa di ovviare ad eventuali infiltrazioni mafiose esplose, proprio in quella stessa area, in occasione della kermesse dell’Esposizione Universale, visti i continui scandali/processi riguardanti le commesse, i subappalti, all’interno dei quali anche il nome dell’attuale sindaco-fu-supercommissario Sala è stato menzionato più volte come parte in causa?

Un altro aspetto sul quale il CdA dell’Università degli Studi di Milano non ha prontamente risposto è l’esigenza di una consultazione popolare, a base allargata, rispetto alla ristrettezza degli organi consultivi. La questione della governance non è lontanamente messa in discussione, nemmeno per sbaglio. Non conta che gli studenti presenti abbiano chiesto apertamente di essere coinvolti per mezzo di un referendum nel processo decisionale, prontamente scavalcati, e che la stessa esigenza si stata espressa anche da molti abitanti del quartiere, con la proposta di un referendum cittadino, dal momento che si tratta di una gigantesca trasformazione urbana, che coinvolge gli interessi di tutta la metropoli. Vago però è di un altro avviso, poiché il piano di trasferimento è già stato avallato dal CdA e dal Senato Accademico, non ci sarebbe stato spazio per altri momenti di partecipazione diretta, in quanto la decisione è in realtà arrivata a Milano attraverso un processo che è stato attivato in altre sedi, e qui citando il Rettore, “in modo centralizzato” non lasciava grandi margini di intervento alla Statale, in quanto gli stessi enti pubblici in Arexpo, tra i quali il Governo e la Regione, assicuravano in questo modo un’exit strategy all’altezza della gravosa situazione, per dissesto economico e fatiscenza infrastrutturale e immobiliare dell’Università (dopo averle tagliato i fondi per decenni ci si meraviglia, vero? n.d.a.). A questo punto lo sblocco dell’ingente flusso di liquidità, andrebbe a risolvere ogni problema (doloso?!) riguardante da una parte il processo di innovazione e competitività delle facoltà scientifiche dell’Università Statale e contemporaneamente fornirebbe una soluzione strategica alla città di Milano e a tutta la società partecipata Arexpo, togliendole finalmente le castagne dal fuoco, per quanto riguarda la questione del bilancio e dell’attivazione di un piano di riqualificazione sull’ex area Expo. Le istituzioni e i privati, attraverso questa “connivenza” articolata realizzerebbero, secondo loro, un dispositivo strategico per l’Italia e la città di Milano, capace di connettere il mondo della produzione scientifica all’eccellenza biotecnologica, in ambiti centripeti, che aprirebbero proficue sinergie tra grandi investitori internazionali e l’università pubblica, mettendo a disposizione una strumentazione di ricerca all’avanguardia, stimolando la creazione di nuovi posti di lavoro e attirando un nuovo target d’utenza europeo, se non globale, di studenti e ricercatori, accompagnando in questo modo anche il riposizionamento della Statale nelle classifiche continentali, ai vertici per efficienza e concorrenza. In realtà è un modo per alimentare l’unico circuito che considerano plausibile e percorribile.

Questa soluzione però non sembra aver convinto tutti: una parte del corpo docente, del personale tecnico, del quartiere e la maggior parte degli studenti presenti, che sono intervenuti nel dibattito, (chissà se sarebbe mai stato aperto senza una contestazione studentesca contro il Rettore, in sala durante la presentazione?) si sono detti preoccupati all’idea che si attui un piano di questo tipo, che auspica un tale avvicendamento di interessi tra pubblico e privato (incarnato benissimo dalla figura di Azzone che da Rettore è diventato amministratore delegato di Arexpo), perché così facendo si mette a rischio, sensibilmente, l’autonomia della ricerca e il raggio di azione degli studi, orientando la ricerca in funzione del mercato, unicamente laddove le occasioni di guadagno si fanno più laute. Del resto il modello di sviluppo che viene perseguito è il frutto di una chiara indizione politica. Quello che viene individuato come “il futuro prossimo salvifico” in verità non è nulla di nuovo e rappresenta la perdurante invasione degli interessi di pochi sul diritto e la cosa pubblica, giocato anche stavolta in chiave avveniristica, l’ennesima creazione di debito per saldare debito, l’ulteriore dimostrazione che le grandi opere creano grandi buchi e pericolosi presupposti di ingovernabilità gestionale, che poi ogni manovra giustifica.

È una forma di ricatto e di terrorismo dettato da certa programmazione ideologica di matrice neoliberista, che avviene sotto la nomina di ultima generazione e verità univoca, e porta alla restrizione decisa, sempre più forzata, delle scelte da prendere: prima si crea il problema e poi lo si risolve con la logica dell’eccezione, che si rende da soluzione temporanea e confezionata ad hoc a norma sintetica e prodotto scontato, come risultante opaca di anni di dismissione del patrimonio pubblico, di tagli lineari alla ricerca, di abbandono delle istituzioni e del loro mandato (in quanto sono tutti dipendenti dei contribuenti) a difesa del mercato e di ogni aggressiva pulsione che esprime.

Quella che viene perorata non è la causa del sapere come forma di conoscenza indipendente dal potere e dalle dinamiche di speculazione, ma il suo asservimento totale e congenito. Permettere che multinazionali come Monsanto mettano le mani sui nostri laboratori e sui nostri studenti non significa abbracciare le nuove sfide, dettate dalla postmodernità con cognizione di causa, sfide capitali dalla portata epocale, come sostenibilità dell’impatto energetico, cambiamenti climatici, automazione dei processi produttivi, ma significa esattamente il contrario, perché quello che sta accadendo oggi è il frutto di uno smantellamento scientifico delle strutture pubbliche, all’interno di un paradigma che ci detta le proprie regole per continuare ad esistere, a danno della collettività e del pianeta.

Il piano di trasferimento del polo scientifico di Città Studi non tiene conto, non soltanto della storia, della memoria e dell’economia dei bisogni e dei servizi (già molto problematica) in quartiere e in città, ma ne rimanda per l’ennesima volta la risposta, attraverso questo nuovo stratagemma, in modo da nascondere la polvere di Expo sotto i conti dell’Università Statale, per non fare i conti con la propria insensatezza e con le conseguenze che già palesano la loro ombra dietro l’angolo (svalutazione degli immobili pubblici, assenza di un’idea complessiva e strutturata sulla riassegnazione per Città Studi, lievitazione dei costi, aumento delle rette universitarie nel caso in cui non si riuscisse a saldare le spese, svalutazione dei percorsi di studi meno “produttivi” a cui arriverebbero meno fondi, equipe di studio costantemente sotto ricatto, svendita dei progetti fatti dagli studenti – tanto per cambiare – a favore dei baroni, ecc.). Siamo sicuri che ne valga davvero la pena? Per me no. L’alternativa? Che l’opinione pubblica riesca a sorvegliare il processo che si sta innescando, dirottandolo verso un’altra idea di governance e di costruzione partecipata, perché Milano è la città di Expo 2015, e sappiamo bene a cosa porta il pubblico al servizio dei privati, al di là della retorica e dell’immaginario da smart ‘drug’ city che ci è stata inoculata dalla propaganda renziana: disfunzione, precarietà, nocività e debito; processi, mazzette, scandali e giri di poltrone. Siamo pronti a rivivere tutto questo? No, perché sta riaccadendo e glielo stiamo lasciando fare.

Immagine in apertura: lavori di smantellamento dei padiglioni di Expo 2015