A un mese dalla fuga di Yanukovich e dall’insediamento del nuovo governo a Kiev, la crisi interna all’Ucraina si è trasformata in crisi internazionale, segnando una possibile svolta nelle gerarchie e nei rapporti geopolitici globali. In questo articolo, si cerca di dare una lettura degli ultimi avvenimenti da questo ultimo punto di vista, soffermandosi sui rapporti Usa-Russia-Europa (alias Germania).
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Non è facile prevedere l’evoluzione dello scontro in Ucraina. Da un lato, si è visto all’opera il meccanismo ben oliato del regime change impulsato da Occidente non per via militare ma grazie alla mobilitazione di una parte della popolazione sulla base di uno scontento reale (a scanso di complottismi). Accompagnato dal pervasivo dispositivo della comunicazione sul cui terreno le postdemocrazie occidentali sono semplicemente imbattibili: il popolo ucraino sovrano ha scelto, Putin è l’aggressore… Quale anima democratica (o fan delle Pussy Riot) potrebbe nutrire dubbi? Se poi i russi di Crimea vogliono il referendum per la loro, di sovranità… infrangono il diritto internazionale.
Questa volta, però, l’incedere oramai parossistico della marcia imperialista (si può dire o urtiamo i diritti umani?) – sotto il nobelpremiato Obama: Libia, poi Siria, forse Venezuela, senza contare quanto avviene in Africa centrale o si prepara in Asia ai danni della Cina – è arrivato ai confini della Russia. E se l’attivismo di innesco di Berlino pare ora voler frenare, viste le possibili conseguenze in Europa, Washington invece provoca, la Clinton paragona Putin a Hitler (inquietante refrain già sentito…), Obama sbava di rabbia e vorrebbe, una volta per tutte, coalizzare il mondo contro la Russia. Per gli Usa la destabilizzazione dell’Ucraina è, comunque vada, un fatto positivo per il quale non hanno mai smesso di lavorare negli ultimi quindici anni. Mosca è quella che rischia di più ma a sua volta non può recedere del tutto perché la minaccia è altissima: associarsi all’Occidente in posizione di servile subordine o misurarsi con provocazioni continue e uno sfiancamento permanente. E se finora Putin sta dimostrando una notevole saldezza di nervi, non è detto che riesca a conservarla a lungo anche perché la contrapposizione oramai aperta tra nazionalisti ucraini e popolazione russofona può facilmente sfuggire di mano (che è poi quel che qualcuno spera). In ogni caso, qualunque tipo di compromesso comporterà danni pesanti per qualcuno e la storia non finirà qui.
Insomma, invece delle litanie sul diritto internazionale – sempre con due pesi e due misure nel determinare aggrediti/aggressori, autodeterminazioni legittime/illeggittime – sarebbe bene mettere a fuoco quanto con la crisi globale si stiano rinfocolando tensioni internazionali vecchie e nuove su tutto lo scacchiere geopolitico mondiale. Certo, le mosse dei vari soggetti non sono già consapevolmente ordite sulla base di un progetto esplicito di precipitazione bellica, cercano “semplicemente” di rispondere ai problemi che si pongono sul piano immediato. Tuttavia, è proprio questo a dirci quanto la situazione sia grave, quanto oramai l’evoluzione generale dello scontro tenda sempre più verso un conflitto generalizzato ai vari livelli. Colpa del nuovo zar?
Proviamo allora a ragionare con un minimo di lucidità sull’insieme e non sui singoli pezzi, se anche non si ha modo per ora di far valere praticamente la nostra voce al di fuori e contro ogni deriva imperialista e nazionalista e contro il futuro di guerra che il capitalismo in crisi va preparando. Lucidità non facile perché abbiamo davanti un groviglio quasi inestricabile, e in parte contraddittorio, fra il rinnovato Drang nach Osten occidentale, la reazione difensiva (in senso borghese) di Mosca e una mobilitazione sociale, di “ceti medi” e giovani innanzitutto, ma non solo, che partendo da istanze reali finisce nel supporto di piazza a un governo filo-occidentale, filo-Fmi, nazionalista anti-russo e con presenze simil-neonazi!
Ucraina: tra due forni, ma è finita
Finora l’Ucraina ha goduto di una residua rendita di posizione, pur dentro gli sconvolgimenti del post-’89. Facendo sponda sul lato russo per proteggersi dalla concorrenza economica occidentale – non solo per le forniture di energia ma anche per i mercati di sbocco – ha potuto evitare quelle devastanti ristrutturazioni al proprio apparato industriale che hanno invece completamente cambiato il tessuto economico-sociale degli altri paesi europeo-orientali. Al tempo stesso, i vari governi che si sono succeduti hanno giocato a far sponda anche su Unione Europea e Stati Uniti-Nato in funzione, ora più velata ora più aperta, anti-russa permettendo agli “oligarchi” di continuare la politica dei due forni.
Se in questo modo le ricchezze sono andate nelle tasche di questi ultimi invece di essere direttamente appropriate da “competenti” manager occidentali – è anche vero che in questo modo è stata fin qui rinviata anche la resa dei conti con il proletariato che non a caso ha potuto usufruire di “prezzi politici” quasi alla sovietica o almeno evitare tagli più dolorosi a posti di lavoro e prestazioni sociali (su questi aspetti è importante l’intervista a un sindacalista rivoluzionario ucraino). In cambio la classe lavoratrice tradizionale, collocata soprattutto nell’est e nel sud del paese e maggiormente rappresentata da russofoni, ha continuato nella sua attitudine di sostanziale passività sociale e politica e delega al partito di quegli oligarchi impropriamente considerati qui da noi “filorussi”. Un’attitudine che spiega la diffidenza prima verso la mobilitazione di Maidan, e oggi le reazioni in senso nazionalista grande-russo a fronte del nuovo governo di Kiev che promette di rompere col compromesso sociale introducendo le ricette del Fmi. Insomma, questa parte del proletariato – a meno di voler essenzializzare il dato “etnico” – è al momento decisamente schierata con la Russia per il motivo che vi vede la possibile conservazione del posto e delle condizioni di lavoro, consapevole che un’apertura verso ovest vorrebbe dire scomparsa di molte aziende e soprattutto del welfare.
In ogni caso la precipitazione attuale è insieme espressione e causa dell’eclisse definitiva della tenuta per l’Ucraina di una posizione intermedia. È arrivata l’ora di chiudere ogni legame col passato “socialista”, ma la modalità cambia radicalmente se lo si fa al modo tedesco o al modo russo. Yanukovich sperava di rimandare la resa dei conti. Si è bruciato e, con lui, si è definitivamente bruciata la possibilità per l’Ucraina di continuare a lucrare sulla sua posizione di frontiera. Prodigi della crisi globale che scongela ogni cosa a partire dalle linee di faglia geopolitiche…
È in questo quadro che da un lato la pressione occidentale – non nuova ma ravvivata dal ghiotto boccone – e la mobilitazione di quei settori della popolazione ucraina non coperti o non più soddisfatti dei vecchi assetti, dall’altro, sono andate a convergere ponendo fine al compromesso di cui sopra.
I nodi di Maidan
Si tratta dei “ceti medi” – categoria quanto mai vaga e ambigua, va da sé, da assumere in senso allargato a comprendere anche qualunque proletario che giustamente si percepisce come “cittadino” espropriato da una cricca di oligarchi. Strati sociali e giovani indotti a pensare che solo una situazione di “libertà” economica dà la possibilità di sfruttare il proprio capitale o le proprie capacità (vere o presunte): investire su se stessi, la chiave del successo. Per questi settori non solo ogni residuo di “collettivismo” è anatema, ma la stessa autorappresentazione nazionalista – qui forse la differenza di fondo con l’estrema destra organizzata – fa perno su una nazione di individui. È del tutto naturale che essi propendano per la sponda Ovest e in particolare si illudano sull’accoglimento immediato dentro la “civile famiglia europea”. Vi vedono maggiori possibilità di affermazione, più “libertà” individuale, vi ripongono speranze di maggiore mobilità (dato essenziale per i giovani e per chiunque abbia intenzione di emigrare o sia già fuori dal paese).
Piazza Indipendenza, soprattutto nella prima fase, ha messo in luce tutto ciò. Ma ciò che questa volta ha portato ben oltre la prima “rivoluzione arancione” è stato l’intreccio di tre fattori che hanno condotto la situazione al punto di rottura. Primo, una più forte e trasversale istanza anti-corruzione – pervasiva e ambivalente – con la rabbia comprensibilmente amplificata da una situazione economico-sociale sempre più insostenibile. Secondo, la presenza organizzata, addestrata e pagata, anche grazie alle attività dell’ambasciata Usa a Kiev, di una destra ultranazionalista militante (e militare, come si è visto) capace di raccogliere lo scontento anche di strati proletari profondi (soprattutto della parte occidentale del paese, non russofoni) e attivare aspettative “anti-sistema” in perfetto stile nazional-socialista (più Sa che Ss, per ora). Terzo, la più diretta ingerenza dall’esterno, questa volta non solo statunitense ma anche direttamente tedesca.
L’applicazione da manuale del metodo “non violento” di Gene Sharp ha così fatto da preludio al golpe vero e proprio – impulsato dagli Usa per far saltare l’accordo in extremis siglato tra Berlino e Yanukovich (non a caso la Nuland, la Neocons alla corte di Obama responsabile per l’Ucraina, aveva detto: “fuck the EU” scandalizzando la ben educata Merkel). Qui va inserita l’”indiscrezione” (casuale?) sul lavoro dei cecchini della destra che avrebbero sparato sia sui poliziotti che sui manifestanti per far saltare la situazione (). Sembra alquanto veritiera ma non cambia la sostanza della questione. Non la cambia perché le “rivoluzioni colorate” non sono soltanto delle straordinarie pulp fiction (anche se sangue vero ha iniziato a scorrere) ad uso dell’opinione pubblica occidentale per convincerla che ci si sta premurando di realizzare i desideri degli altri popoli oppressi dai loro stessi governanti. Sono anche il sintomo della disgregazione interna di determinate società, giunte al limite della loro sopravvivenza dopo essere state per anni aggredite economicamente e con un sottile assedio mediatico che celebra i fasti dell’Occidente in contrasto con le miserie di lì.
L’imperialismo, insomma, ha a tutt’oggi una capacità attrattiva su una parte significativa, non ristrette frange, di popoli rimasti indietro nello sviluppo capitalistico invece di provocarne, come in cicli definitivamente trascorsi, reazioni antimperialiste. L’aggancio con le grandi manovre geopolitiche “esterne” sta esattamente in questo intreccio di fattori soggettivi e oggettivi che rende ridicola ogni lettura complottista (e/o “antimperialista” filo-russa) e legittimista rispetto al vecchio regime. Né Russia né Cina, per dire solo dei due principali “emergenti”, hanno quella presa sull’immaginario e sulle prospettive della propria gente e soprattutto dei giovani (per non parlare del nullo appeal fuori), ma se non riescono sul breve-medio periodo a crearsi una solida base sociale di consenso nel ceto medio “allargato” rischiano all’interno dei loro stessi confini. (Le riforme in vista in Cina puntano anche a colmare questa lacuna, ma non ne sarà pacifico il risultato visto il contesto globale di crisi).
Tutto ciò è per certi versi paradossale se solo guardiamo al fatto che dentro il mondo “libero” la middle class è in profondissima crisi, dagli Usa obamiani ai… 9D nostrani. Del resto, la fenomenologia superficiale della mobilitazione di Maidan potrebbe far pensare ai diversi occupy di questi anni. Non che non ci siano assonanze (la questione andrebbe approfondita) anche se a detta degli osservatori più perspicaci è mancato l’elemento fondamentale dell’autorganizzazione e dell’autodecisione (pur nella spontaneità propria di un fenomeno relativamente di massa) né la piazza è stata di per sé “ingenuamente” immune al discorso nazionalista più duro. Ma la differenza fondamentale è appunto di “ciclo di aspettative” – lì ci si aspetta ancora molto dal mercato, in Occidente inizia a emergere per quanto confusissima una percezione del declino – e, su tale base, la determinante geopolitica fa il resto. Dura lex sed lex. Kiev è l’ultimo lembo dell’89 ma i tempi per il riscontro fra desideri e realtà questa volta saranno assai più brevi.
Resta il nodo politico di fondo, maledettamente ingarbugliato, per ogni prospetti vari antagonistica “dal basso a sinistra”: la questione dell’individuo. L’uscita dal “socialismo reale” nei paesi dell’Europa orientale e la fine del compromesso capitale-lavoro in quelli occidentali hanno aperto le condotte e l’individualismo è dilagato dando in prima battuta una carta in più alle forze del mercato rispetto alle precedenti fasi e condizionando in maniera ambivalente qualunque ripresa di conflitto sociale. Autentiche e sacrosante spinte alla realizzazione dell’individuo rischiano così seriamente di finire diritte nelle fauci del capitalismo più aggressivo. Ma qualunque reazione regressiva non ha presa. Non ci sarà risposta seria a questo nodo fino a che non sorgeranno lotte radicali in grado di porre la questione dell’individuo come terreno di scontro contro i padroni del mondo, che sono gli stessi che se ne fanno oggi paladini. Nel frattempo si tratterà di vedere se l’Occidente farà prima a far saltare le altre pedine, e magari qualche pezzo importante, della scacchiera mondiale – energizzando un sistema marcio – o se viceversa vedrà finalmente scoppiare al proprio interno quella crisi sociale e politica di cui i vari occupy sono stati fragili avvisaglie.
Ucraina-Europa-Russia. Berlino tira la volata…
Una relativa novità nella vicenda ucraina sta nell’attivismo crescente della politica estera tedesca, che ha condotto in prima persona la corsa alla riconquista del territorio orientale salvo farsi soffiare all’ultimo da Washington, almeno per ora, il risultato più favorevole. Come nella vicenda jugoslava, infatti, Germania e Usa marciano uniti ma perseguono, sulla lunga distanza, obiettivi divergenti.
Per Berlino la tappa ucraina è la prosecuzione dell’espansione tedesca-europea verso est iniziata a partire dall’’89: conquista di mercati per le proprie merci e, soprattutto, acquisizione di braccia a basso costo. Ma la domanda cruciale è: perchè la Germania ha accelerato questa spinta fino a rischiare i rapporti fin qui buoni con la Russia di Putin? Perchè non c’è alcuna possibilità di sopravvivenza per il capitalismo europeo a (inevitabile) guida tedesca se non conserva la sua forte connotazione produttiva industriale, stante la scarsa o nulla potenza finanziaria e militare rispetto agli Stati Uniti, la mancanza di energia a basso costo, e una collocazione comunque centrale nella concorrenza capitalistica che non permette la pura conservazione di rendite di posizione. Ma l’apparato industriale si preserva solo se alimentato da capitali alimentati da profitti alimentati da forza-lavoro sufficientemente produttiva. Negli ultimi venti anni i risultati sono stati notevoli: la grande industria tedesca si è ulteriormente espansa con l’allargamento della cerchia dei paesi destinati alla subfornitura (ciò che l’Italia non è riuscita a fare avendo praticamente perso la sua grande industria non