Questo testo già ripreso da Effimera qualche tempo fa (estate 2014) ci appare ancora straordinariamente attuale ed efficace, in linea con i temi che verranno discussi al Convegno di Effimera domani e dopo domani. Lo proponiamo dunque tra i materiali per approfondire (lasciando l’introduzione che facemmo allora…)
Ieri, 23 luglio, tra cariche e manganellate, è stato sgomberato, per l’ennesima volta, il centro sociale Zam. Zam, acronimo di Zona Autonoma Milano, nasce nel gennaio del 2011, all’interno del circuito dei centri sociali milanesi, dalla necessità impellente di dare un posto ai bi-Sogni di una generazione X sempre più precaria. Attualmente, la sua sede era la scuola media “Giulio Cesare”, nel quartiere ticinese, abbandonata da anni e in via di degrado. Dopo l’occupazione, lo spazio, come sempre avviene in questi casi, è ritornata a vivere, grazie all’esistenza di un’osteria a prezzi popolari (in un quartiere sempre più gentrificato), una palestra, una sala-prove per la musica e numerose iniziative politiche e culturali. Tra queste, vogliamo ricordare la Ladyfest 2014, un festival autogestito, autoprodotto, queer e femminista di cultura indipendente, organizzato proprio a Zam all’inizio di giugno.
Questo bel dialogo tra Federico Zappino e Olivia Fiorilli, avviato proprio nel giardino di Zam durante la Ladyfest, testimonia il clima di partecipazione e di produzione di pensiero critico e di saperi che i luoghi occupati – in quanto espressione di socialità, desideri, resistenza – sono in grado di generare. Gli autori discutono di corpi, precarietà, sessualità, illegalità ai tempi del neoliberismo. Le spinte libertarie e liberatorie del queer possono rappresentare un potenziale di rottura rispetto al discorso dominante dell’impero del capitale e della finanziarizzazione? Il soggetto queer è necessariamente precario e dunque necessariamente impersona la possibilità di essere un soggetto politico capace di svelare le contraddizioni del presente.
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Un dialogo tra Federico Zappino e Olivia Fiorilli su corpi e sessualità ai tempi del neoliberismo
di Federico Zappino e Olivia Fiorilli
Federico Zappino: La Ladyfest di Milano ha offerto un’altra buona occasione per tornare a parlare di sessualità da una prospettiva distintamente queer, trans* e femminista – e dico “parlare”, ma in realtà alla Ladyfest abbiamo fatto anche molto altro… Un po’ come il segreto osceno di Nodo alla gola di Hitchcock, esposto al centro del salone, il tutto è avvenuto nel cuore di Porta Ticinese, un quartiere “perbene”, ormai completamente gentrificato, accanto alla basilica di Sant’Eustorgio che scandiva il tempo a suon di scampanate – nel tentativo, un po’ maldestro, di rivendicare (performativamente!) chi ha il potere di scandire il nostro tempo. Un luogo centrale, e tuttavia interstiziale, come ZAM, occupato “illegalmente” per essere riconvertito e risignificato, per contrastare con le armi impari della politica, della resistenza, della condivisione dei saperi, della relazione corporea, certi riconoscibilissimi processi di sussunzione neoliberista in atto a Milano, come in altre città nel mondo, ora più che mai.
Questa felice alchimia tra il queer e lo spazio occupato che resiste, mi sembra, ci esorta a non perdere l’occasione di fare il punto sulle differenze tra il nostro discorso sulle forme della sessualità, che un evento queer, trans* e femminista come la Ladyfest stimola, e il discorso invece neoliberale, e neoliberista. Non siamo certo la prima e il primo a toccare questo punto. E tuttavia giova enormemente farlo e rifarlo ancora, nel tempo, il nostro, in cui le prospettive di pensiero critico appaiono spesso silenziate, nel momento in cui molte parole sono state catturate e risignificate, in senso brechtiano, dal nemico; nel momento in cui il discorso critico è entrato letteralmente in crisi – e il queer non fa eccezione. Judith Butler, le cui teorie della performatività del genere hanno offerto a noi soggett* queer autentiche possibilità di soggettivazione, e forse di sopravvivenza, e di resurrezione, solo dopo un lungo silenzio ha pronunciato finalmente la parola “neoliberismo”, e forse tardivamente Nancy Fraser, di recente, ha posto una questione simile nel dibattito interno al femminismo; altrettanto di recente J. Jack Halberstam ha denunciato alcune tonalità neoliberali del queer. E Cristina Morini, Beatrice Busi e Simona de Simoni, proprio mentre raduniamo queste idee, pubblicano sui “Quaderni di San Precario” preziosi spunti di riflessione circa i modi in cui le prospettive femministe (e queer) possono essere impiegate per una analisi della relazione tra crisi, precarietà, debito e reddito, oltre le secche, anche nel loro caso, del femminismo mainstream, che sembra essersi ridotto – nella vulgata neoliberale – a fare la conta delle donne messe a sedere nei posti di comando o a strizzare l’occhio al securitarismo o a inneggiare al “fattore D” – finendo «con l’accettare la distrazione, il mascheramento e l’occultamento di nuove ingiustizie e contraddizioni sociali, con conseguente generazione di inedite gerarchie» (cito dal testo di Morini, Tutta la vita deve cambiare). Che le ladies [il collettivo costituitosi ad hoc, n.d.r.] abbiano dunque organizzato la Ladyfest a ZAM, esattamente come un anno fa al Valle Occupato di Roma si tenne il festival Da Mieli a queer, e potremmo forse continuare con altri casi in cui il discorso queer è impiegato attivamente nelle esperienze di occupazione, di resistenza, e di riarticolazione di forme varie di discorso politico critico a partire da relazioni creatrici di senso, come ad esempio Atlantide a Bologna, o Fuxia Block a Padova – in questo, dicevo, ci trovo qualcosa di autenticamente queer, o almeno per come reputo che il queer abbia un significato politico, al di là delle sue molte rideclinazioni, talvolta neutralizzanti, talvolta (direi spesso) miranti invece a renderlo l’ennesimo dispositivo di sapere-potere di iperteorizzazione della sessualità. L’occupazione “illegale”, indesiderata, sempre esposta, e vulnerabile agli sgomberi violenti, di spazi calpestabili, o di spazi impalpabili (il discorso, il linguaggio, il simbolico, l’immaginario – non per questo meno materiali); la risignificazione di quei luoghi, di quelle parole e di quei dispositivi dai quali dipendono forme variabili, e sempre contingenti, di invivibilità. Proprio con questo, d’altronde, coincideva la risignificazione, alla fine degli anni Ottanta, di quell’insulto che era la parola “queer” – frocio –, da parte di attivist* femministe, gay, lesbiche, trans* ecc. (e aggiungerei alcuni aggettivi a tutte queste categorie che ho elencato: poveri, non borghesi, non bianchi, non privilegiati ecc. ecc.). E cioè con l’occupazione abusiva di uno spazio all’interno del discorso dominante, ordinato e ufficiale, al fine di nominare dal suo interno l’esclusione e la sua violenza – non per ambire all’assimilazione pacificata nella società eteronormativa borghese, capitalista e familista, ma per disvelare, sfidare, e forse anche disarticolare, i presupposti che rendevano possibile una fitta rete di esclusioni violente. Olivia Fiorilli: Penso che la genealogia del queer – e uso il termine nel modo più ampio possibile – ci fornisca tutti gli strumenti di cui abbiamo bisogno per smarcarci da forme di complicità con la razionalità neoliberale – e neoliberista, direi –, benché condivida la tua apprensione. Che oggi “il potere” operi più attraverso la gestione, il management, l’organizzazione e la messa a profitto delle differenze e delle libertà sessuali, anziché attraverso la loro repressione, dovrebbe esserci chiaro. E dovrebbe esserci anche chiaro che non esistono “sessualità sovversive” di per sé: questo è tanto più vero in un clima sociale e politico in cui, all’occorrenza, le cosiddette sessualità “eccentriche”, possono diventare significanti di “modernità” e di “progresso” per essere messe a lavoro, che sia per “vendere qualcosa” (gli esempi sarebbero decisamente troppi) o “contro qualcuno”, come nelle operazioni di pinkwashing di cui abbiamo avuto l’ennesimo esempio alla vigilia del terrificante massacro tuttora in corso a Gaza ad opera dell’esercito israeliano, contro il quale molti gruppi e reti queer e femministe hanno preso parola [Sommovimento NazioAnale, Bella Queer, Cagne Sciolte, n.d.r.]. D’altra parte, ci diciamo ormai da tempo che il capitale valorizza i nostri desideri e i nostri bisogni attraverso il consumo e mette a lavoro la nostra esigenza – sacrosanta – di affermare la nostra esistenza e la nostra queerness – we’re here / we’re queer – attraverso dispositivi di vario tipo. Credo però che sia la stessa critica/politica queer per come la ricordavi a fornirci gli strumenti per renderci conto che la mera celebrazione e la mera visibilizzazione delle nostre sessualità e dei nostri generi dissidenti non possono portarci, da sole, troppo lontano in una società 2.0 in cui la vecchia sollecitazione biopolitica a “dire la verità su di sé” ha assunto una materialità e una pervasività inaudite. Alcune reti, collettivi e gruppi queer, come ad esempio il laboratorio Smaschieramenti o il Sommovimento NazioAnale, denunciano da tempo il fatto che, attraverso quello che potremmo sinteticamente definire diversity management, il capitale tende a valorizzare e mettere a lavoro la nostra “favolosità”, le nostre “capacità relazionali”, la nostra “creatività” (o almeno quelle di alcune di noi, generalmente cisgenere), così come la performance quotidiana della nostra queerness – il nostro legittimo desiderio di gridarla… E tenta di fidelizzarci. Naturalmente per sfruttarci meglio. Credo, dunque, che sia questo uno dei punti da cui possiamo iniziare ad aggredire il rischio di “complicità” con l’ordine del discorso neoliberista. Non è (solo) che limitandoci ad affermare la nostra libertà e la nostra autodeterminazione, senza assumere una prospettiva che metta in discussione la razionalità neoliberista, rischiamo di essere “complici” del capitale. Il punto è che il capitale ap-profitta di noi rendendoci sempre più produttivi e allo stesso tempo più poveri e precari. Ma credo che di questo una parte sempre crescente del movimento queer – o almeno di quello che conosco in Italia (mi posiziono nello spazio e nel tempo) – sia ben conscio. E che si stia attrezzando per rispondere in molti modi creativi, partendo dalla materialità delle forme di vita e relazione queer, dalle reti di interdipendenza e di mutuo sostegno che abbiamo già imparato a tessere in un mondo eteronormativo e omo-trans-sessuofobico. Queste reti affettivo-politiche forse possono diventare uno strumento politico di resistenza alla messa a lavoro delle nostre esistenze, uno strumento per sottrarre alla valorizzazione e restituire alla cooperazione e alla politica le nostre risorse queer, ma anche per sottrarci (almeno in parte) allo sfruttamento intensivo. E anche, come scrivono Beatrice Busi e Simona de Simoni nel loro testo, Soggettività insolventi, per «promuovere altre forme di senso comune, subalterne, queer o contro egemoniche che valorizzino le discontinuità, la cooperazione, gli stili di vita non riproduttivi e improduttivi, la critica, il “no future”, che facciano del fallimento un’arte». F.Z.: Fai bene a ricordare il prezioso lavoro del laboratorio Smaschieramenti o del Sommovimento NazioAnale, che sono alcune tra le esperienze queer, in Italia, a mostrare una straordinaria capacità di comprensione delle poste in gioco. E che smorzano, mi pare, quell’alone di ingenuità che spesso permea molti discorsi in materia di libertà sessuale, di autonomia sessuale, di nomadismo sessuale ecc., in modo trasversale, tanto tra gay, lesbiche e trans*, quanto tra gli etero-curiosi e gli etero-indecisi. Il potere, che come ben ricordi è oggi pressoché interamente potere del capitale, necessita proprio di soggetti “liberi”, “autonomi” e “nomadici”: di soggetti cioè liberamente, autonomamente e “nomadicamente” conformi ai presupposti del proprio assoggettamento – senza che ciò escluda necessariamente la riterritorializzazione del potere del capitale nella sovranità statale, ben visibile nelle forme stridenti, e solo in apparenza contraddittorie, di (neo)paternalismo. Tutte e tutti dobbiamo sentirci libere e liberi di sperimentare, di godere, di sovvertire, di giocare, di performare, di improvvisare, di decostruire ecc. ecc. – e il problema, per me, non sta nell’accresciuta libertà, bensì nell’ambigua risignificazione di tutti questi predicati. E dico questo senza sottovalutare né le forme sempre latenti di omo-trans-sessuofobia, alle quali siamo tenut* a resistere per ragioni indipendenti, né tantomeno l’eteronormatività – senza sottovalutare, per dirla con un esempio, quanto ancora possa essere rischioso, disorientante, forse anche doloroso, per un uomo eterosessuale, percepire di essersi innamorato di un altro uomo (discorso tuttora valido anche nella maggior parte dei paesi “occidentali”). Il punto è che siamo sotto scacco, e la domanda che ci troviamo a porre di nuovo è vecchia e forse irrisolvibile: come possiamo lottare per la libertà, e per il desiderio, senza con ciò lottare contro la giustizia sociale? Ciò di cui dobbiamo essere preoccupati è che la nostra critica alle opprimenti strutture di potere (l’eteronormatività, la Sacra Famiglia) ha finito col rendersi complice di forme impensate di diseguaglianza e di sfruttamento. In nome della libertà (da ruoli e codici prestabiliti), dell’autodeterminazione (rispetto a qualunque forma di potere precostituito) e del nomadismo si sono spesso celebrate forme di neoindividualismo che, per un alchimia letale, si sono coniugate perfettamente con la razionalità neoliberale. Come riorganizzare allora un pensiero, e una pratica, in modo da appianare questo conflitto? E come resistere, al contempo, alle soluzioni nichilistiche di chi vorrebbe la distruzione di tutte le relazioni, che sono forse davvero irrimediabilmente mercificate e corrotte – per contrapporvi un ripensamento radicale della relazione che passa tra libertà e desiderio e giustizia sociale, e che non può forse prescindere da quella vulnerabilità, da quella precarietà, da quella comune esposizione corporea alla violenza, alla rabbia, così come alla passione erotica dell’altr*, alla base della nostra esperienza di soggetti queer? Ma la sorpresa, temo, è che non sarà il semplice fatto di richiamarci a quel “noi” a collocarci tutt* dalla stessa parte. O.F.: A me sembra che la difficoltà di riorganizzare, come dici, un pensiero e una pratica di questo tipo – al di là delle soluzioni proposte a livello teorico e al di là delle pratiche insorgenti – sia resa ancora più acuta da un’altra considerazione. Se è vero che il potere funziona molto più attraverso il management delle differenze e l’incentivo alla libertà che attraverso la repressione, è pur vero che oggi assistiamo a un revival di forme di omofobia e di sessismo e che sembrano appartenere a un’altra era geologica. Penso, da una parte, ai deliri sulla “teoria del gender” – che non a caso hanno come minimo comune denominatore la difesa del Bambino, poiché è intorno all’infanzia che si sta sviluppando il discorso omofobico, oggi anche più di ieri. Penso, dall’altra, al montare delle politiche di controllo dei corpi (che sia sotto forma di leggi, come la vicenda della legge Gallardon in Spagna, o sotto forma di meccanismi di governance, come la dilagante obiezione di coscienza dei ginecologi in Italia). Ma, ancora una volta, penso che il movimento queer (e qui lo invoco performativamente…) abbia gli strumenti per decostruire le retoriche del “colpo di coda dell’eteropatriarcato morente” o del “ritorno al passato”. Queste letture, a mio parere, lasciano spazio – queste sì – alla possibilità di ricreare un binarismo claustrofobico in cui rischiamo di restare incastrate: da una parte la “barbarie”, o il “folklore”, dei catto-omofobi-integralisti; dall’altra la libertà neoliberale – o il neoindividualismo a cui ti riferisci. Credo che il movimento queer sia nella posizione giusta per leggere il modo in cui anche questo apparente “ritorno” o questa resilienza di forme di potere sovrano-repressivo siano parte integrante della fase di ristrutturazione neoliberista che stiamo vivendo drammaticamente, caratterizzato anche dallo smantellamento del welfare operato dalle politiche di austerità e quindi dalla “necessità” della tenuta dei ruoli di genere normativi, che devono essere messi intensivamente a lavoro. Credo che il nostro compito, oggi, sia quello di ri-costruire uno sguardo queer che ci consenta di capire come queste modalità apparentemente contraddittorie del potere, queste direzioni apparentemente opposte della società, funzionino insieme, e come contrastarle entrambe efficacemente. F.Z.: I casi che citi sono esemplari proprio di quel revival neopaternalista, solo in apparenza stridente: lo Stato che reprime (restringendo giuridicamente la libertà di abortire, nel caso della legge spagnola; impedendola, di fatto, nei casi di obiezione di coscienza), a fronte del Capitale che rende liberi e libere. E il caso della legge antiabortista spagnola è doppiamente significativo proprio se letto alla luce di quella ristrutturazione neoliberista caratterizzata dallo smantellamento del welfare di cui parli (d’altronde la Spagna, esattamente come l’Italia e la Grecia, è uno dei cosiddetti paesi PIIGS), in cui è necessario che i ruoli di genere siano mantenuti “al proprio posto”. Lo Stato e il Capitale, a un certo punto, hanno parlato all’unisono, seppur con linguaggi diversi: il primo, varando una legge autoritaria e illiberale; il secondo, risignificandola al contrario come foriera di libertà – nello spot della notissima multinazionale di abbigliamento femminile madrilena in cui la protagonista, con sguardo fiero, buca con un ago il preservativo del fidanzato. Tu decides, il pay-off – tu decidi. Ciò che vediamo all’opera in questo esempio è esattamente questa modalità operativa apparentemente contraddittoria del potere, di cui parli. Ma ciò che in esso vediamo all’opera, in fondo, sono quei significanti che il queer ci ha insegnato a decifrare – e che sono forse gli unici a preservare un’inalterata capacità di operare, anche in epoche diverse, come dispositivi di assoggettamento e come istanze di produzione tanto di colpa (morale) quanto di debito (economico): la famiglia, la sessualità procreativa, il futuro – con tutto ciò che questi tre dispositivi implicano di conseguenza: gli imperativi della riproduzione, della produttività, della subordinazione. Tu dici che il queer sia nella “posizione giusta” per decifrare il modo in cui il potere ci agisce (tutte e tutti) secondo modalità apparentemente contraddittorie; e questo è forse tanto più vero quanto più saremo noi a metterci nella “posizione giusta”, a ri-mettere a frutto le nostre genealogie scandalose e maleducate, la nostra “favolosità”, i nostri orgasmi non riproduttivi, anali e clitoridei (contro la Legge del Padre e contro il Capitale)… Per continuare a godere enormemente, in quegli spazi interstiziali di liberatoria invisibilità e intrasparenza, e per una maggiore giustizia sociale – per metterlo al centro di un lavoro critico permanente, come un modo di essere del presente e per il presente. Testo tratto da Il lavoro culturale