Per arginare l’egemonia discorsiva dei nuovi autoritarismi occorre una rinnovata presa di coscienza. Non solo coscienza di classe ma anche di genere. Solidarietà e fare comune (commoning) sono due strumenti con cui costruire ponti tra le persone, prendendo coscienza delle diversità e costruendo un “comunismo stravagante”.
Perché stravagante? Come ricordava Alexander Langer vivremo sempre di più in villaggi globali. Questo non significa accettare passivamente la trasformazione dei territori in corso. Tale suggerimento indica piuttosto la strada verso l’adozione di strategie che si fondano sulle relazioni sociali che trasformano il presente. Vivere le differenze dei villaggi globali non è facile, ma anziché rifugiarsi nelle proprie identità, vanno cercate pratiche di convivenza e solidarietà attiva.
In questa fase politica, convivenza e solidarietà sono sotto l’attacco del potere “molle” della comunicazione. Questo potere riesce là dove le campagne d’odio etnico e razziale non affondano la spada a sufficienza.
Se, a partire dagli anni Novanta, il movimento autonomo no-global ha articolato una critica frontale ai capitali finanziari delle multinazionali, denunciando la trasfigurazione delle istituzioni locali, nazionali e regionali in apparati di riproduzione di comando neoliberista, oggi assistiamo ad una manipolazione del discorso no-global da parte dell’estrema destra e dell’autoritarismo nazionalista. Da Trump a Putin, da Salvini a Bolsonaro, la ragione umanitaria è attaccata per la sua debolezza. Non a caso, il coraggio è riqualificato in chiave reazionaria, quando invece, come ricordano gli amici più accorti, ci vuole del coraggio già solo ad alzarsi per andare a lavorare.
Attraverso i nuovi mezzi di comunicazione, l’estrema destra ha manipolato il discorso no-global che aveva legato in modo chiaro il tema materialista a quello ecologico, offrendo a questo mondo un immaginario alternativo, portando al centro del sociale i soggetti marginali, e quindi la maggioranza minoritaria all’interno dei processi istituzionali attivati dalla globalizzazione.
Un esempio concreto sono gli attacchi alla Open Society Foundation, fondazione internazionale che ha come visione di sviluppo il rafforzamento della democrazia legato alla liberalizzazione dei mercati, e che è diventato oggetto di attacco dalle destre. Ma fu proprio il movimento no-global a denunciare l’esperimento neoliberista nell’arena della cooperazione internazionale.
Eppure, nonostante dovrebbe essere ovvio che l’adozione di discorsi neofascisti non può essere integrata nelle critiche a sinistra del capitalismo, troppo spesso capita di leggere l’assunzione di messaggi nazionalisti, antisemiti e islamofobi nel linguaggio e nell’apparato critico della sinistra anticapitalista. Per evitare una tale confusione, è necessario riprendere la critica allo sviluppo là dove si è lasciata.
In questa fase di difesa della solidarietà, anziché attaccare le organizzazioni non governative delle compagne e dei compagni che usano tale status legale come mezzo tattico di rottura, bisognerebbe attaccare in alto.
In primo luogo, occorre denunciare il “populismo dello sviluppo”, il quale ha rifiutato il tema centrale dell’analisi di classe e della precarietà, assente dagli obiettivi sostenibili di sviluppo, negando la connessione tra giustizia sociale, disuguaglianze economiche e libertà di movimento. Ma attaccare la ragione umanitaria non può significare rigettare le persone o, peggio, l’umano, come certe correnti vorrebbero far passare. Al contrario, e potenziando ciò che le lotte femministe, cyborg e queer continuano a praticare, occorre riscoprire la centrale parzialità di tutti i soggetti minoritari.
Dall’altra parte, è necessario rigettare la retorica neo-nazionalista. Il lavoro da fare è quello del rovesciamento dei rapporti di causa ed effetto che il potere della comunicazione ha invertito. La colpa non è dei migranti ma della colonizzazione. Le lotte femministe non sono state avviate dall’apertura del capitalismo alla sfera della riproduzione sociale. È vero il contrario. Marx non è responsabile della nascita del Capitale, né Deleuze e Guattari del post-moderno… e così via. Fino a liberarsi dell’attuale regime di comunicazione, prendendolo per quello che è: militarizzazione delle coscienze.
Abbiamo bisogno allora di un comunismo rinnovato, di un comunismo stravagante e di “incontri alieni”. Liberarsi dalla penetrante cultura di destra corrisponde ad una presa di coscienza critica rispetto alle nuove infrastrutture del desiderio. Senza però cascarne dall’altra parte, contro di esso.
Sulla linea di quello che Mark Fisher, Andrea Fumagalli e Jeremy Gilbert, hanno scritto su questo blog rispetto alla cultura psichedelica e alla felice espressione “acid communism”, occorre rinnovare la coscienza di classe per abbattere un individualismo diffuso e settario. Ma tale classe deve essere incosciente, “fuori posto”, capace di costruire un comunismo stravagante, fatto di intrecci culturali, etnici e linguistici.
Come ricorda Andrea CavallettiA in una bella nota su Benjamin, per il filosofo tedesco una rinnovata coscienza di classe avrebbe potuto provocare uno smottamento strutturale della massa operaia, i cui poli verticali accettarono la corruzione “pressante” del fascismo. Un comunismo stravagante può “allentare” le pressioni sulla massa, la può far “rilassare”, estendendola a macchia come nel Paesaggio con camino della fabbrica di Vasilij Kandinskij.
Comunismo stravagante? Bah!…
Destra, Sinistra… Chiunque vada al potere impone comunque la propria dittatura. Al massimo, se ci va bene, ci lasciano il ruolo del gregario, non altro.