Effimera continua a ospitare riflessioni relative al significato assunto dal lavoro di cura nella società contemporanea, alle prese con la precarizzazione del lavoro degli operatori sociali su cui si basa buona parte della sostenibilità del Terzo Settore, mentre la cura diventa nuova frontiera dell’investimento e dell’accumulazione di ricchezza attraverso la sua finanziarizzazione. Dopo l’articolo di Davide Caselli che si interrogava sul senso profondo e sulle contraddizioni del lavoro sociale e sull’ambiguo significato del dono (volontariato), e quello di Silvia Fabrizio che scandagliava i concetti di vulnerabilità ed esposizione, pubblichiamo oggi un testo di Gabriele Toccaceli che racconta “una storia di precarietà e di riscatto” all’interno di questi mondi: l’esperienza di lotta degli Operatori sociali Autorganizzati di Perugia nei confronti di Arcisolidarietà Ora D’Aria Onlus. Per chi volesse ulteriori informazioni o capire come appoggiarli, la pagina Facebook di riferimento si chiama: Operatori sociali autorganizzati Perugia. Sabato 27 ottobre 2018, a Bologna, alla Mediateca Gateway, si terrà un incontro con loro per discutere di questi argomenti

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Tu c’hai idea quanto ci guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno

Salvatore Buzzi (braccio destro di Carminati)

 

Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone oppresse e amare quelle che opprimono

Malcom X

 

“..Le parole d’ordine sono sempre eguaglianza, giustizia, libertà, cioè i nostri valori. Anche in questi tempi difficili, cerchiamo di dare valore al lavoro quotidiano, il più importante e profondo che, nel lungo periodo, è quello a dare i frutti..”

Franco Calzini (Presidente di Arci Perugia)

 

Nelle scorse settimane è nato a Perugia il soggetto sociale chiamato: Operatori Sociali Autorganizzati- Perugia (d’ora in poi O.S.A). È un passo importante per la lotta che i suoi fondatori stanno portando avanti. Si tratta di operatori licenziati da Arcisolidarietà Ora d’Aria Onlus che hanno lavorato, negli scorsi anni, nel mondo dell’accoglienza dei migranti nel territorio perugino e che ora sono in vertenza contro il loro ex datore di lavoro.

La loro è una storia di precarietà e di ricerca di riscatto.

Prima di raccontarla, bisogna partire da una premessa, è necessario delineare il contesto politico che caratterizza l’Umbria. Questa regione è stata, sempre, caratterizzata dal dominio politico prima del Pci e poi dei suoi discendenti politici (PDS, PD, etc.) che hanno governato fino agli ultimi anni senza mai perdere le redini del potere. Ciò ha significato il formarsi di un anomalia, ossia la nascita di un sistema consociativo marcio fatto di alleanze di potere tra i vari pezzi della sinistra istituzionale, delle cooperative, di alcuni enti del terzo settore e di alcuni sindacati confederali, saldato da favori reciproci e da una certa dose di arroganza. I tentacoli di questo blocco hanno innervato molti aspetti della vita sociale, politica e del mondo del lavoro umbro, creando un clima omertoso nei numerosi luoghi di lavoro che gli gravitano intorno.

Tale vertenza si muove in questo contesto e ciò la rende una sfida ancora più difficile.

Gli ex operatori denunciano con la loro lotta (e in sede giudiziale con gli avvocati) una situazione di lavoro critica – all’interno della Onlus prima citata – che hanno vissuto sulla loro pelle e che è presente tutt’ora, ossia:

– l’applicazione di forme contrattuali non corrette e aderenti al tipo di lavoro svolto (erano ingaggiati con i cosiddetti co.co.co mentre rivendicano un rapporto di lavoro subordinato date le caratteristiche e le modalità del lavoro svolto). I co.co.co sono forme contrattuali che riducono di molto i livelli di tutela e di garanzia rispetto ai contratti subordinati, per esempio per quanto riguarda le ferie, la malattia, il trattamento di fine rapporto, etc.

– il fatto che la retribuzione fosse collegata al numero di migranti presi in carico in una sorta di cottimo degli esseri umani in cui perdevano entrambi. Si verificava un corto-circuito: gli operatori, da un lato, hanno la necessità di lavorare di più per guadagnare uno stipendio necessario per vivere dignitosamente, ma anche il desiderio di svolgere il lavoro con professionalità,  dall’altro lato i richiedenti asilo necessitano di un’attenzione particolare che si focalizzi sulle loro diverse esigenze, le quali naturalmente richiedono un tempo e un’attenzione difficilmente garantita a tali condizioni, a meno che  non si crei un’ennesima situazione paradossale denunciata dagli stessi O.S.A. In sostanza all’operatore capita che, in tali condizioni lavorative e data la peculiarità del terreno in cui opera, inizi a confondere il lavoro con una sorta di missione personale e/o di volontariato volta a garantire il benessere dei richiedenti asilo seguiti, comportando l’estensione del lavoro oltre i tempi previsti dal rapporto lavorativo. Per poter arrivare a fine mese ad uno stipendio “dignitoso” (circa 800 euro) erano costretti a seguire quotidianamente almeno tra i 30 e i 40 richiedenti asilo. La diversificazione dei servizi ordinari da svolgere per ciascun utente, oltre che la reperibilità per le urgenze, li portavano ad avere degli orari di lavoro spesso insostenibili. Il confine tra vita privata e tempo di lavoro diventava sempre più labile fino a scomparire. Inoltre, non era in alcun modo possibile richiedere il pagamento delle ore straordinarie maturate, in quanto formalmente i co.co.co. non prevedono alcun orario di lavoro.

Nel mondo delle cooperative, delle Onlus e più in generale del terzo settore vi è la tendenza a fare leva su questa ibridazione tra lavoro/missione sociale/volontariato affinché il lavoratore digerisca con più facilità le pessime condizioni di lavoro in cui si trova. Questo è reso possibile anche e soprattutto dalla grave condizione in cui versa il mercato del lavoro e quindi dalla facilità con cui si precipita nel limbo della disoccupazione.

– la mancanza di una seria formazione professionale fornita dalla Onlus ai suoi dipendenti e l’assenza della valutazione dei rischi (per esempio sanitari) a cui potevano andare incontro gli operatori. La professionalità del servizio reso veniva e viene cosi svilita e non riconosciuta.

– l’inesistenza di un supporto psicologico. Chi lavora nel sociale sa quanto è importante, poiché è maggiormente esposto a problemi di stress, ansia e a patologie come il born out. Il fenomeno dell’alienazione colpisce in generale la maggior parte dei lavoratori precari, ma con più gravità l’operatore sociale dato che si rapporta con delle persone (in difficoltà) e non con degli oggetti. “Il lavoratore precario è alienato dal prodotto del suo lavoro, perché non vedrà il prodotto finito, o lo vedrà in modo parziale o per intero per un tempo molto limitato; – è alienato dalla propria attività, perché non produce anche per se stesso, ma per l’ente presso cui lavora; il suo lavoro si svolge in un determinato periodo di tempo, stabilito dalla durata del contratto; – il lavoratore precario è alienato dall’ente presso cui svolge la proprio opera, che lo tratta come un mezzo temporaneo da sfruttare per incrementare il profitto. Nello stato di alienato, l’essere umano smarrisce se stesso, disperde la sua persona, non si appartiene e non si possiede” (Davide Pizzi, Quando è precario l’operatore sociale, pag 92).

– la precarietà dei rinnovi contrattuali a breve termine e la ricattabilità che ne deriva in termini di eventuali pretese da parte del lavoratore per i diritti negati.

Al fine di comprendere a tutto tondo la vicenda vanno aggiunti due particolari significativi.  Nel Gennaio 2017, Arci solidarietà ora d’aria sospende il rinnovo del contratto per supposta mancanza fondi a tutti gli operatori, successivamente gli avvocati degli O.S.A hanno dimostrato essere falsa questa giustificazione, in quanto Arci – precedentemente – aveva avuto l’impegno da parte della Prefettura del proseguimento del progetto “Accoglienza”.

L’ultimo particolare emblematico è rappresentato dal comportamento tenuto dal sindacato della CGIL, che ha avuto nella loro vicenda un ruolo determinante. Nel 2016, gli operatori, che nel frattempo aspettavano alcune mensilità arretrate, vennero convocati negli uffici di Arci. Alla presenza di un sindacalista della CGIL (mai visto prima dai dipendenti) e senza aver avuto alcun contatto col sindacato, gli operatori firmarono nei locali dell’associazione un foglio di conciliazione, già predisposto; contestualmente gli stessi si trovarono a dover rinunciare a qualsiasi futura rivendicazione in cambio del rinnovo del contratto e del pagamento degli arretrati. A fine 2016 gli operatori pretesero di incontrare nuovamente la CGIL Perugia per avere chiarimenti sulla “fantomatica” conciliazione che Arci si apprestava a riproporre nuovamente. Il sindacato dopo essere stato messo a conoscenza delle condizioni lavorative in Arci, si è limitato a temporeggiare e ad iniziare un dialogo infruttuoso con la Presidenza.

In sostanza le denunce dei lavoratori e le loro rivendicazioni sono cadute nel vuoto non trovando mai un reale appoggio da parte dei sindacalisti della CGIL.

A questi aspetti lavorativi si aggiungono delle domande spontanee. Perché l’Arci, che è il cappello organizzativo della Onlus, spende molti soldi per aprire attività commerciali come Umbrò o per ristrutturare immobili (dove in alcuni casi ha la sede il PD locale, per esempio a Moiano (PG) dove la struttura è di proprietà della Fondazione Pietro Conti – la fondazione a cui fanno capo nella Regione le proprietà dell’ex PCI-), mentre contemporaneamente afferma di non avere le risorse per stabilizzare il lavoro dei suoi dipendenti e renderlo più dignitoso? Cosa c’entra l’attività commerciale con la mission sociale di Arci? Questa vertenza pone una serie di interrogativi sul come l’Onlus spenda le non irrisorie risorse pubbliche ricevute nel progetto accoglienza. Recenti inchieste giornalistiche e le proteste di alcuni dei migranti hanno messo in luce il degrado delle strutture, a ciò si aggiungono le condizioni di lavoro precarie degli operatori. Considerando che si tratta di risorse pubbliche, la collettività dovrebbe forse avere il diritto di sapere come le stesse vengono spese?

Scandali come quelli di Mafia Capitale hanno dimostrato quanto sia profittevole gestire l’accoglienza con modalità orientate esclusivamente al profitto. Sulle spalle dei migranti si fanno molti soldi, che possono essere investiti per oliare un sistema politico perverso. Alcuni elementi, precedentemente indicati, delineano a Perugia un quadro di amministrazione delle fasi dell’accoglienza che necessita, quantomeno, di porvi l’attenzione e di farvi luce.

Il 19 settembre gli O.S.A., in concomitanza della prima udienza di alcuni degli operatori in vertenza, hanno organizzato, a Perugia, di fronte al tribunale un presidio volto a far conoscere alla cittadinanza perugina la loro problematica. Il presidio ha riscontrato un’ottima partecipazione, nonostante si trattasse di una mattinata lavorativa.  Hanno partecipato e dato il loro importante sostegno numerose sigle: Si Cobas (PG), Cobas (PG), Usb (PG), Circolo Island (Perugia), Spazio Popolare Rude Grifo (Perugia), Partito Comunista (PG), Città senza Centro (PG), Lautoradio (PG).

Oltre alla dimensione della rivendicazione lavorativa vi sono degli obiettivi che vengono posti in questa lotta: aprire un dibattito cittadino sulle condizioni del terzo settore e dei suoi lavoratori,  creare forme controllo popolare sulla gestione dei migranti al fine di evitare un business che lede le condizioni degli stessi richiedenti asilo, per realizzare una maggiore integrazione e autodeterminazione degli stessi e per garantire una maggiore trasparenza; la fine delle condizioni di precarietà e sfruttamento degli operatori da parte della Onlus, la valutazione complessiva dell’anomala gestione dell’accoglienza a Perugia.

È fondamentale il sostegno a questa vertenza, sia per combattere il ricatto del precariato in ogni luogo di lavoro, sia per affrontare il discorso dell’accoglienza con un approccio che non lasci spazio alle becere strumentalizzazioni razziste, sia per creare un blocco di solidarietà e lotta a Perugia che, insinuandosi nelle contraddizioni, rompa dal basso la continua strategia consociativa dei compromessi di sindacati come la CGIL.

È bene chiarire che gli O.S.A. si rivolgono non solo agli operatori sociali, ma – soprattutto nel territorio locale- anche a tutti quei precari, disoccupati e sfruttati (di qualsiasi provenienza geografica) che nel loro privato vivono in condizioni di difficoltà, al fine di uscire dall’isolamento e dall’emarginazione, unire le proprie voci e renderle più forti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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