Pubblichiamo l’introduzione al libro La rivolta della cooperazione. Sperimentazioni sociali e autonomia possibile, a cura di Andrea Fumagalli, Gianni Giovannelli, Cristina Morini (Mimesis Edizioni 2018). Il testo raccoglie i contributi presentati durante il convegno organizzato a Milano a Macao, alla fine dello scorso ottobre, dalla rete Effimera in collaborazione con il progetto europeo PIE News / Commonfare e l’associazione BIN Italia partner del progetto. Autori  e autrici: Chiara Bassetti, Emanuele Braga, Paolo Cacciari, Nicola Capone, Chiara Colasurdo, Marco Fama, Andrea Fumagalli, Andrea Ghelfi, Gianni Giovannelli, Leon del Cantiere di Milano, Stefano Lucarelli, Susana Martin Belmonte, Cristina Morini, Elena Musolino, Riccardo Sacco, Marco Sachy.

Di queste tematiche e della proposta Commonfare si discuterà a Milano, giovedì prossimo, 5 luglio, a Piano Terra, Via Confalonieri 3, a partire dalle h. 19.00 in occasione della prima presentazione pubblica del libro.

Sul sito pieproject.net si trova pubblicata, in contemporanea a questa anteprima, la notizia dell’uscita del libro (in inglese).

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Il libro che avete tra le mani è in realtà un tassello di un variegato mosaico che conferma l’intramontabile tensione umana a individuare le forme ade­guate del vivere in comune. I tempi che abitiamo sono difficili e complessi: gli imperativi del capitalismo attuale puntano alla creazione di una forza lavoro frammentata, stratificata e dequalificata, con l’effetto di aumentarne la disponibilità all’interno dei processi produttivi e ridurne l’agibilità politi­ca, la capacità di negoziare condizioni e diritti
[1]. Eppure, mai come in questi anni, vediamo crescere l’attenzione verso la possibile alternativa rappresen­tata da una trama di rapporti sociali all’interno di gruppi o di comunità la cui esistenza non dipende dalla mediazione né dall’intervento istituzionale dello Stato. D’altro lato, proprio lo Stato – così come l’istituto del salario oppure quello della famiglia monogamica eterosessuale, tutti assi portanti del patto fordista – è oggi organismo profondamente attraversato dalla pro­pria stessa crisi, da cui la necessità vitale di rappresentare concretamente altri modelli, altre forme di alleanza, altri patti, altri prototipi di assicurazio­ne sociale. Prendiamo spunto dalla ricognizione che, nel 1977, André Gorz fa delle differenti “forme di vita” di quella che chiama “la società civile”: “Le relazioni cooperative o di mutuo soccorso che si possono trovare in una comune, in un quartiere, in un edificio; la coesione e la solidarietà delle vecchie città operaie; le associazioni di volontariato e le cooperative fon­date dai cittadini stessi per il loro comune interesse; i rapporti famigliari e le comunità domestiche allargate; l’insieme di scambi e comunicazioni che costituisce la vita locale o di quartiere”[2] Evidentemente, almeno guardan­dolo dall’Italia, tale inventario si avvicina in modo piuttosto preciso anche ai vari tentativi di mappatura contemporanei, ai quali dovremmo aggiungere le forme di riappropriazione di spazi pubblici abbandonati o sottoutilizzati e cioè gli usi civici del bene comune da parte di comunità di riferimento con relativi tentativi di riconoscimento dell’itinerario giuridico partito dal bas­so, ispirato appunto agli usi civici, un antico istituto tutt’ora vigente eppure anche esso troppo spesso dimenticato[3].

Oggi, il tema della valorizzazione “del tessuto di rapporti sociali au­toregolatesi e non istituzionali” e quello del Comune e dei beni comuni risorgono nella letteratura accademica così come nel dibattito politico, “risollevando poco alla volta quel velo che era stato steso sul loro ruolo storico. […] Con la crescita fordista e lo stato keynesiano, la dialettica del pubblico e del privato diventa a tal punto omnicomprensiva che la stessa organizzazione della solidarietà sembrerà essere sempre più presa a cari­co dall’organizzazione burocratica del Welfare State. Durante i cosiddetti Trenta Gloriosi, il senso stesso del concetto di Comune sembra cadere de­finitivamente nell’oblio della storia”[4].

Gli interventi qui raccolti sono stati presentati al convegno, organizzato dalla rete Effimera, Bin-Italia e Commonfare.net/PieProject.eu[5], “Coopera­zione sociale, autodeterminazione, Commonfare. Sperimentazioni sociali e autonomia possibile” che si è centrato esattamente su questi temi, cioè su una riscoperta che è invero una progressiva scoperta, concettuale e di prati­che. A proposito di inventari aggiornati, si sono interrogate le esperienze di Welfare dal basso che già operano nell’autonomia della cooperazione socia­le per la soddisfazione sia di bisogni immediati che di istanze di solidarietà e mutualismo. La riflessione e la ricerca sulle possibilità di recupero delle capacità autonome di un sistema sociale oggi fondato sull’“eteroregolazione generalizzata”[6] rappresenta un groviglio politico centrale, il nucleo intorno al quale ricominciare a concepire un individuo integrale e un mondo di nuo­vo desiderabile. Fatichiamo perfino a immaginare una realtà che esprima, pur nella sua immanenza sociale, tutte le potenzialità di un tessuto autore­golato e autogestito: “Uno degli effetti della divisione internazionale del lavoro, basato su flessibilità, specializzazione e differenziazione, è quello di necessitare, quasi paradossalmente, di un esteso coordinamento tra le varie attività; tale coordinamento tende a ridurre la qualificazione e l’autonomia del lavoro, anche quello più qualificato”[7]. Il dispositivo di precarietà struttu­ra infatti profondamente la dipendenza dell’individuo dal lavoro produttivo eterodiretto per l’accumulazione capitalista, articolato nelle diverse posture e funzioni che questo ha assunto, invadendo esplicitamente la riproduzione del soggetto stesso, dalla formazione, al consumo, all’obbligo alla repu­tazione e alla interazione continua, attraverso piattaforme come Facebook dove gli scambi umani (riproduttivi) sono anch’essi diretti dall’esterno e producono valore in senso capitalistico.

Contemporaneamente, è innegabile che il potenziale delle tecnologie e grazie a esse il diffondersi della conoscenza, rendano tangibile una realtà di produzione e di coordinamento alternativa. Si tratta di favorire i processi di autogestione attraverso l’uso di strumenti che possano essere interamen­te autogestiti e autogovernati. Tornando ancora a Gorz, se “la distruzione delle capacità autonome a tutto vantaggio della divisione capitalistica del lavoro permette di estendere a dismisura il rapporto di merce”[8], si tratta di recuperare, con Ivan Illic, “l’eteronomia dei programmi di produzione [integrandola] con le azioni spontanee e personali della gente”[9].

Possiamo allora sintetizzare il piano di questo testo, affermando che la proposta di Commonfare (Welfare del Comune), allude a un preciso movi­mento, cioè alla possibile “costruzione di una regolazione socio-relaziona­le in grado di promuovere la governance autonoma della propria vita per consentire una produzione di valori d’uso alternativa alla produzione di valori di scambio”[10].

Si tratta di discostarsi chiaramente dalla logica neoliberale, dal suo in­dividualismo e dal tentativo di mercificare ogni forma di relazionalità. Il femminismo è, in questo, fonte di ispirazione nel proporre “una riscrittura dello spazio politico, economico, domestico dove la misura sia la vita. Una vita che non è qui, come nella biopolitica, oggetto di governo, ma – nella forma singolare delle vite di ognuna e ognuno – punto di orientamento per la costruzione (molecolare, microfisica, contingente) di un’altra economia, di un’altra cittadinanza, di un altro lavoro, fondato sui desideri delle sin­gole e dei singoli”[11]. Silvia Federici sottolinea la discussione in atto sul­la “creazione di ‘movimenti capaci di auto-riprodursi’ e di ‘comunità di cura’”. Una discussione che si accompagna materialmente allo sviluppo di nuove strutture comunitarie, laddove è necessario “ampliare il concetto di commons e dargli un significato politico più ampio”. Il potere di trasforma­zione di tali esperienze, di tali movimenti in avanti, di tali pratiche, “deriva proprio dalla loro capacità di appropriarsi di spazi che sono controllati dal­lo stato e mercificati dal mercato e di trasformarli in terre comuni”[12].

Per tali ragioni, la prima questione che ci siamo posti, anche alla luce dei primi risultati della ricerca europea PIE News/Commonfare[13], che è stata presentata nell’occasione del Convegno, è se tali pratiche possano comporre un modello alternativo di Welfare, in grado di dare risposte più attuali rispetto ai tre modelli principali di Welfare ieri e oggi esistenti: il Welfare pubblico keynesiano, il Welfare familiare, il workfare di matrice anglosassone o un ibrido tra questi.

Queste esperienze collettive, legate alla gestione dei “beni comuni” intesi nella loro accezione più larga, non solo “materiale”, ovvero anche socialità, convivialità, cultura, formazione, così come la diffusione di spe­rimentazioni (a volte ambigue) di forme di reddito di base, ci portano a pensare a un nuovo sistema di Welfare, che riconosca e distribuisca la ric­chezza comune prodotta (Commonfare). Si apre qui, allora, la questione impegnativa del rapporto tra una possibile autonomia della produzione e reti di sostegno collettivo adeguate.

Nella prima parte del volume, Chiara Bassetti illustra le finalità e il contenuto del progetto Commonfare[14], ricerca finanziata dalla Comunità Europea, che ha l’obiettivo non solo di informare sulle offerte di Welfare esistenti nei tre paesi pilota al centro della ricerca – Croazia, Italia, Olanda – ma di condividere e diffondere alcune esperienze significative e repli­cabili di “buone pratiche” di Welfare dal basso: una realtà già esistente di processi di autodeterminazione e di forme di mutualismo solidale in gra­do di rispondere a quei bisogni che oggi le politiche di smantellamento e privatizzazione del Welfare pubblico non sono più in grado di intercettare. Partendo da queste premesse, cercando di formulare una proposta politica adeguata alla sfide che abbiamo davanti, Andrea Fumagalli discute un pos­sibile Manifesto per il Commonfare[15], tra riproduzione sociale, uso libero dei saperi e della conoscenza, accesso gratuito al comune, reddito di base incondizionato come reddito primario ma soprattutto come strumento di scelta e autodeterminazione contro il ricatto del bisogno. Cristina Morini rileva come, partendo dalla presa d’atto che oggi il terreno del Welfare è esso stesso terreno diretto di valorizzazione in quanto luogo/modo della produzione contemporanea, sia necessaria la crescita di una consapevo­lezza che oggi la battaglia sul Welfare è un terreno decisivo nella partita tra capitale e vita e che il piano del diritto deve assumere un approccio più ampio, sia in termini di spazi di azione che di tematiche, superando la distinzione netta tra sfera della produzione e della riproduzione.

Molto spesso, infatti, – come argomentano Stefano Lucarelli ed Elena Musolino – sperimentazioni sociali molto innovative, proprio per la loro originalità e dirompenza, diventano preda della valorizzazione capitalisti­ca, come ad esempio la formazione e la conoscenza. Leon, che porta l’e­sperienza del Cantiere di Milano e dello spazio SMS, sottolinea come il processo di smantellamento (privatizzazione e finanziarizzazione) del Wel­fare pubblico, sia in grado di liberare momenti di sperimentazione sociale i quali, se non trovano gambe autonome su cui marciare, o sono destinati a perire o si ritrovano sussunti dal sistema. Generando, da capo, segmenta­zione, negazione dei principi di solidarietà e di universalismo.

E qui ci addentriamo progressivamente nel tema della seconda parte del libro, intitolata “Cooperazione sociale”, che raccoglie gli interventi di Paolo Cacciari, Andrea Ghelfi, Riccardo Sacco, Emanuele Braga, Marco Fama e Marco Sachy. Come evitare che tale processo di captazione ab­bia luogo? Quali fattori di struttura possono consentire il mantenimento di un’autonomia sociale, più libera dalle gerarchie del mercato capitalista? Il tema della sostenibilità monetaria e della sostenibilità eco-solidale sono dirimenti. Entrambe queste forme di sostenibilità (autonomia finanziaria e autonomia ecologica e sociale) richiedono lo sviluppo di capacità relazio­nali e la costruzione di un nuovo terreno di cooperazione (tendenzialmente conflittuale) in grado di ripristinare quei rapporti e quelle filiere sociali che il neoliberalismo ha distrutto con il mito dell’efficientismo e della competi­zione individuale. Se Marco Sachy interviene sul delicato tema dei circuiti monetari alternativi, illustrandone le potenzialità, Emanuele Braga descri­ve le originali sperimentazioni di moneta del comune e di altri strumenti di scambio alternativi all’interno di uno spazio alternativo come quello di Macao a Milano, che possono incarnare una tensione verso una nuova economia politica e una nuova politica monetaria fondata su nuovi imma­ginari, nuove relazioni e anche nuovi rapporti con le macchine, mentre Marco Fama si domanda come evitare che tali sperimentazioni monetarie e finanziarie possano rischiare di trasformarsi in docili strumenti di controllo sociale e di governance della povertà. Parallelamente, sul versante dell’a­gire concreto e degli scenari del possibile, Paolo Cacciari e Andrea Ghelfi affrontano il tema della costruzione di eco-sistemi in grado di replicarsi e perpetuarsi nel tempo: il primo si addentra nell’esemplificazione di modi di produzione, relazioni economiche, comportamenti e stili di vita indivi­duali che già parlano la lingua dei commons; il secondo ci invita a pensare la questione delle pratiche e delle strategie ontologiche come dimensione centrale della politica del nostro tempo e a collocare i processi trasformati­vi dentro a specifiche relazionalità ecologiche, tutte da inventare. Riccardo Sacco ci aiuta ad addentrarci tra i vincoli, sempre più stringenti, della crisi ambientale e quindi della necessità di offrire prospettive di un’autorganiz­zazione produttiva e sociale che non sia ingorda di energia, di ambiente e di spazio, a partire dall’esperienza istruttiva dell’Ecuador e della pratica co­munitaria delle minga. In questo quadro, il buen vivir ci restituisce l’imma­gine di una società più austera dove “non c’è spazio per l’accumulazione e l’opulenza, ma nella quale il benessere e la felicità individuale sono legati alla qualità delle relazioni in cui l’individuo è inserito e alla possibilità di accesso ai diritti fondamentali”.

La terza sezione del volume, intitolata (non casualmente) “Autodeter­minazione”, affronta, a questo punto, l’aspetto dirimente delle questioni e dei claims politici che inevitabilmente si pongono per poter prospettare un futuro possibile. Il contributo di Giovanni Giovannelli tratta della radicale modifica intervenuta nella legislazione del lavoro, della previdenza, dell’as­sistenza, rilevandone le conseguenze: un processo funzionale alla restaura­zione del comando capitalistico dentro la nuova organizzazione dell’estra­zione di valore. La cooperazione solidale e il mutualismo rappresentano l’alternativa del Comune che è per sua natura “il nemico irriducibile della macchina costruita per accumulare profitto” mentre l’uso della coopera­zione sociale “intesa sia quale lavoro morto macchinizzato sia quale forza invenzione collettiva necessaria allo sviluppo e alla creazione di valore) si presenta come terreno di battaglia fra le classi nel ventunesimo secolo”.

Susana Martin Belmonte nel suo testo esamina invece l’assetto sociale, esistente e possibile, fra stagnazione e transizione, fra finanziarizzazione e cooperazione sociale; l’esame riguarda soprattutto il tema dell’introdu­zione di un reddito di base e le modalità del suo finanziamento, con parti­colare riferimento all’esperienza catalana. I contributi di Nicola Capone e di Chiara Colasurdo affrontano il tema dell’uso civico dei beni comuni e delle sperimentazioni al riguardo, a partire da sguardi diversi che nascono dall’esperienza napoletana dell’ex-Asilo Filangeri, estremamente sugge­stiva. Una strategia ambiziosa, quella della riscoperta degli usi collettivi che può ambire a una possibile ricostruzione della nozione di proprietà pubblica, progressivamente rimosso dalla riflessione giuridica e politica dei diritti collettivi, in un clima di esasperata esaltazione della proprietà individuale, ci fa notare Capone. Mentre Chiara Colasurdo pone il proble­ma reale dei mezzi di produzione e cioè della possibile realizzazione di un piano dove lavoro e desiderio possano evitare di essere in antitesi, attra­verso l’illustrazione dell’esperienza di CNRL, piattaforma cooperativa che agisce nell’ambito del diritto d’autore.

Dall’analisi teorica e dalla ricerca sulle buone pratiche con le quali que­sto testo è cominciato siamo giunti a verificare che tali buone pratiche non solo esistono (pur tra mille contraddizioni e spesso con elevate pressioni di legalità), ma sono sostenibili, replicabili e possibili.

Le pratiche sociali diffuse vanno reinterpretate e valorizzate; e costruite con paziente fantasia. Viceversa la risposta dello Stato sembra essere l’op­zione autoritaria: integrazione, sussunzione, silenzio, repressione, ritorsio­ne per domare i processi che sorgono dal basso. Spesso alla politica sfugge drammaticamente la esemplarità strategica delle esperienze di mutualismo e delle pratiche cooperative. Non viene perdonato il carattere ontologica­mente antagonista che dentro questo assetto sociale vanno assumendo, in modo oggettivo, la solidarietà e il comportamento mutualistico. Un patri­monio innovativo di coesistenza sociale, un bacino virtuoso dove tornare a tessere “legami sociali”, una vera e propria risorsa, che dovrebbe costituire proficua materia prima e che, all’opposto, viene dimenticato e/o represso. È questa, appunto, la possibile (e auspicabile) rivolta della cooperazione.

 

NOTE

[1]  V. Borghi, Lisa Dorigatti, Lidia Greco, Il lavoro e le catene globali del valore, Ediesse, Roma 2017

[2]  A. Gorz, Ecologia e libertà (a cura di Emanuele Leonardi), Orthotes, Napoli 2015, pag. 73

[3] L’uso civico urbano rappresenta una forma d’uso collettivo – non esclusiva e regolamentata – di beni pubblici e privati, destinati ad uso pubblico o vincolati al diritto d’uso pubblico. In quanto ricadente nella categoria giuridica degli usi esso è fonte del diritto così come previsto e disposto dall’art.1 e dall’art.8 delle Preleg­gi. Esso si ispira all’antico istituto giuridico degli usi civici risalente ad un periodo precedente al diritto romano e tuttora esistente. Da questo istituto l’uso civico e collettivo urbano riprende quattro principi fondamentali – inclusività, imparzia­lità, accessibilità e fruibilità – su cui si fonda l’autonormazione e l’autogoverno delle comunità insistenti sui beni. Questa forma d’uso si rifà altresì ad un’inter­pretazione estensiva dell’art.43 della Costituzione Italiana il quale prevede «a fini di utilità generale» di «riservare originariamente (…) a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali (…)». Al riguardo, si rimanda al contributo di Nicola Capone: “L’uso civico e i beni comuni” in questo stesso volume

[4] C. Vercellone, F. Brancaccio, A. Giuliani, P. Vattimo, Il comune come modo di produzione. Per una critica dell’economia politica dei beni comuni, Ombre Corte, Verona 2017, pag. 14

[5] ll convegno ha potuto usufruire dei finanziamenti europei nell’ambito dei progetti di ricerca Horizon 2020 research and innovation programme con il contratto No 687922. Questa ricerca è stata realizzata nell’ambito delle attività del progetto PIE NEWS Poverty, Income, Employment, finanziato dal Programma Europeo Hori­zon 2020, call H2020-ICT-2015. Il Consorzio a cui è affidato l’intero progetto è composto dall’Università di Trento, capofila; Basic Income Network Italia, Fon­dazione Bruno Kessler, Italia; Centar za mirovnestudije, Croazia; Museu da Crise e Dyne.org, Olanda; Abertay University, Scozia; Madeira Interactive Technolo­gies Institute, Portogallo. Sul sito di progetto http://pieproject.eu/2017/03/29/d2-1-research-report/ è possibile leggere e scaricare il documento integrale in inglese, che comprende anche i risultati emersi negli altri Paesi coinvolti, ovvero Croazia e Olanda.

[6] A. Gorz, op. cit., pag 73

[7] V. Borghi, L. Dorigatti, L. Greco, op. cit., pag. 106

[8] Ibidem, pag. 71

[9] Ibidem, pag. 78

[10] A. Fumagalli, Economia politica del comune. Sfruttamento e sussunzione nel capitalismo biocognitivo, DeriveApprodi, Roma 2017, pag. 11

[11] T. Dini, La materiale vita. Biopolitica, vita sacra, differenza sessuale, Mimesis, Milano 2016, pag. 112

[12] S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione, lotta femminista, Ombre Corte, Verona 2014, pag. 29

[13] Il risultato della ricerca sul campo prodotta in Italia per il progetto Commonfare è scaricabile in italiano dalla Commonfare Book Series: “Generazioni Precarie. Una conricerca tra percezione del rischio, bisogni emergenti, Welfare dal basso”, a cura del BIN Italia (team di ricerca Giuseppe Allegri, Sabrina Del Pico, An­drea Fumagalli, Sandro Gobetti, Cristina Morini, Luca Santini, Rachele Serino). https://zenodo.org/record/1169827#.WoBs2OfSKUl

[14] MoneyLabReader, 2nd volume, edited by the Institute of Net Cultures in Amster­dam, under the supervision of Inge Gloerich, Geert Lovink and Patricia De Vries. http://networkcultures.org/wp-content/uploads/2018/01/MONEY LABREADE­R2OVERCOMINGTHEHYPE.pdf

[15] Una prima versione del Manifesto per il Commonfare è reperibile in inglese nell’articolo collettivo firmato General Intellect Collective con il titolo: Common­fare or Welfare of the Commonwealth: towards a manifesto in I. Gloerich, G. Lovinck, P. De Vries, MoneyLab Reader 2: Overcoming the Hype, Institute of Net Cultures, Amsterdam 2018.12 La rivolta della cooperazione

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