Ci siamo arrivati: il giorno del global climate strike arriva il commento di Salvo Torre all’intervista di Gennaro Avallone a Jason Moore (qui la prima e la seconda parte).

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La natura è un progetto di classe, non più una categoria prodotta dalla cultura occidentale, non possiede più solo i connotati del progetto coloniale di appropriazione del pianeta, ma quelli specifici del tentativo di conquistare il mondo e trasformarlo in uno spazio di produzione e consumo. Il taglio che Jason Moore ha deciso di dare alle sue risposte è fortemente indicativo del percorso intellettuale che ha seguito finora, ma anche delle scelte che hanno guidato la formulazione delle prime linee interpretative della world-ecology e che adesso possono disegnare uno sviluppo della teoria, soprattutto sostenendo la ridefinizione di molte delle categorie centrali del pensiero critico. Il suo tentativo di riformulare la definizione di natura è sicuramente uno dei vari passaggi cruciali delle risposte alle domande poste da Avallone e Leonardi. Moore sottolinea ovviamente una certa linea di continuità tra la world-ecology e il quadro interpretativo fornito dal pensiero di Immanuel Wallerstein e di Giovanni Arrighi, ma ciò che emerge dai riferimenti meno espliciti è il legame con buona parte dell’elaborazione del pensiero critico degli ultimi anni, soprattutto con quella parte che ha cercato di formulare nuove proposte politiche. Moore intende infatti proporre l’ecologia-mondo come una possibile sintesi di diverse aree di pensiero critico, oltre che come un pensiero capace di offrire una via di uscita dalla situazione attuale. Nel suo discorso si avvicina molto, ad esempio, alla proposta che emerge dalle lotte intersezionali, sottolinea come passaggio necessario la convergenza sulle questioni poste dall’ecofemminismo e sembra riportare il problema alla necessità di riformulare in una chiave neomarxista tutto il complesso delle nuove proposte politiche. In questo quadro propone alcune novità rilevanti anche per l’interpretazione del dibattito interno all’ecologia marxista degli ultimi anni. Seguendo questa idea, ad esempio, la sua riflessione si scontra necessariamente con alcuni passaggi incompiuti del pensiero critico, soprattutto quando prova a proporre il superamento delle grandi categorie ontologiche del pensiero occidentale. All’interno di questo tentativo, ridefinire la natura per come è stata presentata nel dibattito corrente è un passaggio essenziale; non si tratta infatti di una semplice estensione del tentatvio che ha attraversato tutta la modernità, di sottrarre all’azione divina la responsabilità sul creato, ma di rivedere quanto l’idea dell’esistenza di qualcosa definibile come natura fosse strettamente legato ai processi di appropriazione del mondo. La natura è infatti quello spazio opposto alla civiltà che risiede al di fuori della città e che deve essere governato dagli esseri umani. Nell’affermazione storica del capitalismo, l’intera categoria assume però i connotati di un progetto di classe, perché diventa una giustificazione all’espansione dei rapporti sociali di produzione, sostiene la necessità di razionalizzare il funzionamento del mondo, di renderlo omogeneo al modello europeo, ma anche di renderlo funzionale al profitto, non più estraneo alla creazione di valore. Quando afferma «Nature is – and was from 1492 – a class project, an imperial project that fused the production of “surplus value” and “surplus power”», propone infatti una lettura originale, anche più ampia della questione dell’accaparramento delle risorse e dell’estremizzazione dei processi di estrazione di valore. Si tratta di una riflessione che riguarda sia la costruzione culturale propria della modernità sia la capacità del capitalismo di appropriarsi del mondo tramite quel processo di costruzione di definizioni che si radicano nella struttura della società. La natura come progetto di classe corrisponde al processo di espansione dell’Europa, ma si tratta evidentemente di un ampliamento della visione dell’imperialismo ecologico di Alfred Crosby. Un concetto ovviamente preesistente, quello di natura, che però cambia significato, assume connotati nuovi, centrali per la costruzione del potere europeo, soprattutto per sostenere il principio della sopraffazione che guida l’intero sistema. Non è una categoria che può esistere al di fuori della volontà di appropriazione del mondo che guida la società capitalista e che ne scandisce le fasi di trasformazione. Non è altro cioè che quello spazio caotico da regolamentare secondo le modalità di funzionamento del mercato e della produzione. È una questione centrale, perché per compiere un passaggio di questo tipo all’interno di un quadro che sicuramente è definibile come neomarxista, bisogna anche confrontarsi con alcuni elementi centrali del dibattito politico e filosofico che risultano completamente trasformati e sicuramente non più corrispondenti al materialismo storico, quantomeno per come è stato interpretato dalla gran parte del dibattito novecentesco.

Sebbene sia evidente che quella di Moore è una lettura di stampo braudeliano, credo che il riferimento a Paul Sweezy e al presente come storia sia ugualmente importante in questo quadro. Si tratta sicuramente di una scelta che definisce un campo rispetto al dibattito statunitense, ma è anche un riferimento a sostegno della tesi che la world-ecology non è una teoria chiusa, ma una proposta di emancipazione, nella definizione che emerge dall’intervista: una teoria che genera conoscenze emancipatrici. Probabilmente si tratta anche di un’idea che deve qualcosa alle riflessioni sul concetto di natura in Marx realizzate dalla seconda generazione della scuola di Francoforte, a partire da Alfred Schmidt, soprattutto per il ricorso all’idea di emancipazione. La capacità di rileggere il presente è però una delle doti principali della teoria proposta da Moore, che si inserisce in quel quadro teorico che negli ultimi anni ha rifondato in termini innovativi anche le pratiche di analisi prefigurativa soprattutto riferite ai mutamenti del capitalismo.

L’idea forte di Moore è che l’ecologia-mondo sia un metodo di analisi storico-geografica che consente di definire il presente in modo chiaro, soprattutto consente di comprendere le scelte condotte all’interno della crisi ecologica e di identificare i comportamenti che verranno tenuti dal grande potere finanziario. Non si tratta di una semplice lettura dei mutamenti del capitale, ma della costruzione di una lettura che modifica l’impianto del materialismo storico: «There’s a philosophy of history that views the historical geography of webs of life as ontological conditions». L’idea di storia che emerge da questa visione è però del tutto rivoluzionaria, anche più di quanto il suo autore ammetta. La tendenza di Moore ad inserire in termini tradizionali il conflitto di classe nella visione della storia che ne emerge sembra infatti una forzatura evidente, soprattutto perché l’intera teoria viene riformulata dall’inserimento di nuovi elementi. Se bisogna considerare il lavoro non pagato e il lavoro extra-umano, il modello marxista regge sotto il profilo della critica allo sfruttamento, ma l’idea di classe come soggetto sociale depositario dei processi storici va quantomeno ampliata e ridiscussa profondamente. Se bisogna inserire la rete della vita come condizione ontologica della storia, muta il ruolo assunto dal lavoro umano nella costruzione della storia.

Ci sono anche altri nodi che possono sottolineare ulteriormente la proficua ortodossia del pensiero di Moore. Nell’arco dell’intervista emerge ad esempio un legame forte tra le sue riflessioni e il dibattito proprio della critical geography, che possiede in questo anche una sua forte base nella rielaborazione del pensiero critico classico. La world-ecology condivide in effetti con tutto quel dibattito la maggior parte delle tematiche che affronta, come le categorie di oppressione e dominazione o l’idea che la questione ambientale sia centrale per la critica al capitalismo. Ci sono inoltre diversi punti in cui, seguendo proprio questo dibattito, la proposta interpretativa di Moore risulta un tentativo di prosecuzione della riflessione marxiana che riesce però a mettere in crisi alcuni elementi di fondo del marxismo novecentesco. Dal legame tra la geografia critica e il pensiero anarchico deriva probabilmente la necessità di rileggere il ruolo dello stato, non solo in chiave storica, ma anche per quella parte delle riflessioni che intendono diventare una proposta politica. Il discorso di Moore torna implicitamente a diverse considerazioni contenute nel libro terzo del capitale sul legame tra nascita dello stato e nascita del capitalismo e lo fa proprio all’interno di quel dibattito che rivede la questione dell’affermazione spaziale del sistema capitalistico in termini culturali, politici e ambientali, non solo economici. La tesi sostenuta nel quadro della world-ecology è che esiste una relazione diretta tra l’affermazione dello Stato e l’inclusione della rete della vita nello spazio della produzione. Sembra evidente che, se la questione si pone su scala globale in un conflitto tra sistema di accumulazione capitalista e natura, gli stati perdono qualunque ruolo, che non sia di semplice mediazione delle direttive del grande capitale. Le contraddizioni metaboliche del capitalismo non possono quindi essere superate all’interno di una lettura ortodossa, che non tenga in considerazione le trasformazioni spaziali e le interazioni ecologiche del sistema, quelle che costruiscono la storia della rete della vita.

La proposta avanzata da Moore, che ricorre alla definizione di sintesi generativa, per spiegare il suo percorso, è di rivedere le modalità con cui è stato costruito il discorso critico, soprattutto in relazione alle sue capacità performative. Certo non è ancora chiaro se si tratterà di una scelta destinata a collocare la sua riflessione in un campo post-hegeliano o se è destinata a riformulare l’ecologia marxista in una chiave compatibile con il pensiero di Noam Chomsky. In ogni caso proporre le sue tesi come il risultato temporaneo di un discorso aperto, indirizzato a creare una sintesi, significa anche definirle come un campo di azione politica, in cui la realtà viene ridefinita come un complesso ecologico con precise rivendicazioni politiche. L’ecologia-mondo, intesa dal suo autore come prassi rivoluzionaria, deve fare i conti con una realtà differenziata, con una separazione di fondo tra la produzione intellettuale e la partecipazione dei movimenti sociali ai processi di ricostituzione delle comunità. I movimenti ecologisti negli ultimi anni si sono distinti infatti per la loro tendenza a non seguire modelli prefissati di mutamento sociale e a non cercare le soggettività politiche classiche. Probabilmente un passaggio necessario di tali riflessioni sarà realizzare un confronto con le pratiche seguite dalle rivendicazioni ecologiche in varie parti del pianeta.

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