Mi a la to’ età saltàa i fossi per el longo

Bepi, 2020

 

Il provocatorio articolo di Bifo apparso su Effimera qualche giorno fa ha senza dubbio sortito l’effetto desiderato dall’autore, sempre che l’effetto desiderato fosse effettivamente quello di rinverdire l’atavico scontro generazionale. La scelta di farlo a quarantena finita mostra comunque un sano senso di conservazione.

Esiste tutto un composito filone di ironia e sarcasmo che racconta questo scontro: i (baby) boomers – figli del dopoguerra e della ripresa economica che nella seconda metà del ‘900 divengono i protagonisti di contradditorie trasformazioni epocali – odiano i millennials – i nativi digitali, o come preferisco definirci io, la generazione con Plutone in Scorpione – perché sono troppo “soffici”, “emotivi”. “Bamboccioni”, è stato detto, ma anche picky – o era choosy? Insomma, per capirci il senso è quello.

Suvvià millennials! Fatevi crescere due begli zebedei. Ribellatevi o rassegnatevi!

Dal canto suo, la generazione Z, prima ancora che venga il suo turno alla gogna, alla gerontocrazia diffusa risponde con sarcasmo, risparmiandosi al momento lo stillicidio riservato ai fratelli maggiori.

La millennial che scrive è stata buona in quarantena per quasi tre mesi. Lavoro infatti a Padova, nella cui provincia si trova Vo’ Euganeo, una delle prime zone ad essere costrette alle misure contenitive. Essendo io una millennial mi sono ritirata nella provincia profonda, vivendo la reclusione con la mia boomer (s)preferita. Ho tentato di tutelarla il più possibile, evitando, anche quando avevo necessità lavorative – talking about DAD, provincia e digital divide – e affettive, di sconfinare. E, per inciso, in casa mia l’odio per i confini è un tratto transgenerazionale. Nella reclusione ero finora riuscita nella nobile impresa di non scrivere nulla sul Covid. Ma l’oggi arriva che si sia pronti o no, e oggi Bifo mi costringe, purtroppo, a scrivere di faccende Covidose.

Il succinto, quasi impudico, provocatorio testo da per spacciate le nuove generazioni, destinate a “lasciarsi succedere tutto”, come ha dimostrato il fatto che abbiano accettato di buon grado le misure restrittive e contenitive, misure a cui l’acorporalità dell’epoca digitale le ha più che egregiamente preparate. Se il Covid19 fosse successo negli anni ’70, mai e poi mai i giovani avrebbero permesso di essere reclusi. Se ne sarebbero andati di casa, avrebbero fondato comuni, reinventato relazioni (anagraficamente segregate ma vabbé dai: Harold se la troverà dopo il Covid la sua Maude se ne avanzano), e via cantando – cantando per inciso pezzi francamente noiosi, manco un po’ di rap, indie o trap, ma questa è un’altra storia.

Noi no, questi millennials sensibilotti hanno seguito le regole, dandosi all’azione sociale diretta e al mutualismo. Hanno offerto il loro aiuto ai geronti che li denunciavano per una corsetta cento metri più in là, e con il loro corpo tatticamente presente e assente hanno fatto da scudo ai loro cari (e meno cari) più vulnerabili. Non solo “i vecchi”, come dice Bifo, ma anche tutti gli immunodepressi, anche a costo di deprimerci un pochino noi.

Perché l’abbiamo fatto? Non riusciamo a staccarci dalla gonna della mamma?

Innanzitutto, la ringrazio della domanda, e se mi è concesso la prendo un po’ come è formulata, un tanto al kilo insomma.

Dunque: un tanto al kilo il Covid negli anni ’70 non c’era. Insieme al Covid non vi era un flusso di persone, dati, e microorganismi quale quello di oggi. Siamo in una condizione di globalizzazione avvenuta, dove un virus che nasce in estremo oriente può mietere il maggior numero di vittime in estremo occidente. Come abbiamo incontrato questo destino di globalizzazione, secondo quali (non) regole questo processo di unificazione è avvenuto, non è certo appannaggio dei millennials.

Qual è la relazione tra le trasformazioni economico/materiali e politiche degli anni ’70, ’80 e ’90 e questo virus? Ma soprattutto, quali politiche internazionali e/o internazionaliste sono state messe in campo affinché potessimo rispondere come una comunità di interesse unica ad una pandemia che, come da meme, sembra ricordarci la scandalosa nudità del re piuttosto che evocare terribili vicende bibliche, fatte di lebbrosi che vagano per le strade e vengono allontanati dalle città. Dal canto nostro, certo non abbiamo curato appestati, ma abbiamo cercato di non escludere nessuno, anche a costo di “autoescluderci”.

Ma cosa rivela l’impudica nudità del sovrano? Nulla, se non che facciamo parte di una comunità politica, quella statale, che ci spoglia del nostro diritto a godere di tutto. In cambio di cosa? Di sicurezza. Una prospettiva realista certo, ma concreta. E non è solo sicurezza personale, ma la promessa che ai più vulnerabili tra noi verrà garantita cura. Personalmente non cederei il mio diritto a tutto per nulla di meno. Eppure, il re è nudo. Qualcuno ha provato a dirci di non cedere la nostra libertà di movimento alla paura e alla psicosi.

Lo hanno fatto Sala e Zingaretti. “Milano non si ferma”? E invece Milano si sarebbe dovuta fermare subito. L’ha fatto Boris Johnson, mentre molti inglesi si mettevano in auto-quarantena. L’ha fatto Confindustria, costringendo al lavoro migliaia di persone, spaventate per sé e per i propri cari, senza misure di protezione. L’ha chiesto Renzi, con insistenza, perché “ce lo chiedono i morti di vivere”. Ognuna di queste voci ha rivelato il corpo ripugnante del sovrano sotto le fittizie vesti pastorali.

Noi invece abbiamo guardato i carri militari portare via le salme da Bergamo e siamo rimasti in casa. È stato detto che le riprese sono circolate apposta, come una “sottile” forma di governo della paura. Ma noi, che nella società dello spettacolo ci siamo nate, sappiamo già che con le immagini si fa politica, e siamo state capaci di sentire il silenzio dei saluti mancati sopra al rumore della macchina mediatica. Abbiamo pianto lacrime per morti che non hanno lasciato ai vivi il diritto al lutto, comprendendo in piccola parte cosa significhi per le famiglie dei migranti lasciati affogare nel Mediterraneo non avere uno spazio, un corpo, un addio. Siamo sensibilotti. Siamo fatti così (siamo proprio fatti così).

Siamo rimasti in casa, uscendo bardati solo per fare la spesa per chi non poteva uscire, recapitandola davanti a casa, senza poter sfiorare una mano nel consegnarla. Forse perché siamo dipendenti? È questo che succede quando non si sa conquistare l’autonomia?

La generazione a cui appartengo si è vista negare una stabilizzazione nel lavoro, pressata nell’anticamera del precariato. È mancato un welfare capace di permetterci di costruire delle vite economicamente autosufficienti, in un mercato del lavoro che continua ad assorbirci ed espellerci, a cicli di cococo, cocopro, voucher, tirocini, contratti a chiamata e collaborazioni occasionali che però magari mi vieni continuamente dato che ci sei, tac, e così via. E anche tenuto in considerazione ciò, la mancata autosufficienza economica non è l’unica ragione per cui in tante e tanti hanno accettato le misure restrittive, talvolta tornando a casa dei genitori e privandosi della sudata indipendenza. Perché in questi soffici millennials, che sono cresciuti a pan di stelle e femminismi, vi è la consapevolezza che l’autonomia non consiste nel vivere al di fuori delle responsabilità e delle relazioni di cura, anche quelle intergenerazionali.

Siamo figli della vulnerabilità ma questo non fa di noi dei deboli. Non è un segno di debolezza chiedere aiuto. Il manifestarsi di forme diffuse di disagio psicologico, su cui si sofferma Bifo, non indica la loro assenza in precedenza, ma l’abbattimento di un tabù e un movimento di riflessività proattiva. Il malessere psicologico, per cui abbiamo smesso di avere vergogna, lo raccogliamo come un fatto collettivo, e la sua cura come un diritto sociale. Chi chiede aiuto apre la strada affinché un domani il diritto al benessere psicologico sia riconosciuto, libero, accessibile e garantito a tutt*.

Ecco, questa generazione verso la quale le precedenti sono un po’ in debito, fosse anche in debito solo di spazio, è stata ore, e ore, e ore davanti a zoom, a fare assemblee, a spiegare a chi aveva bisogno di welfare come accedervi, a confortare chi aveva solo bisogno di parlare, chi si sentiva soffocare, chi temeva di ammalarsi, chi aveva paura per il lavoro, chi aveva perso i genitori, chi non aveva il pc per seguire la didattica a distanza (…). Lavoro sindacale, di cura, emozionale? Di tutto un po’.

Noi ci siamo piegati alla DAD – raccogliendo il disprezzo di un altro “storico”, Giorgio Agamben – pur di non uscire dalle vite delle nostre studentesse, pur di non lasciarle sole in case di cui non conosciamo le storie. Stanche, perché tutto il giorno è diventato lavorativo, e con gli occhi che bruciano, perché siamo tutti videoterminalisti ora.

Ci sono state dette molte cose su questo virus. Non sono un’epidemiologa, né una virologa, eppure ho capito che questo virus riguarda l’ambiente, l’inquinamento, l’allevamento intensivo, lo sfruttamento capitalista. Questo virus riguarda l’impossibilità di accedere ad una cura adeguata nei sistemi sanitari privati, come negli Stati Uniti, dove la malattia segue una linea del colore, di classe e di genere, che si intersecano mietendo il maggior numero di vittime nella comunità afro-americana femminile. Questo virus ci racconta della svolta neoliberale e dei tagli che negli ultimi 30 anni hanno portato allo smantellamento di uno dei migliori sistemi sanitari del mondo. (Sì, il nostro). Noi millennials non c’eravamo, non manifestavamo, non votavamo, non avevamo l’età della consapevolezza e in alcuni casi non eravamo nemmeno ancora nell’orizzonte di possibilità dell’immaginario dei nostri geronti – pardon – genitori. Noi abbiamo ereditato il Covid molto più di quanto non abbiamo ereditato la psicopatologia dell’alienazione di cui parla Bifo. Per il Covid, e non solo, i millennials dovrebbero ricevere delle scuse.

Siamo state resistenti in casa perché sappiamo che il mondo è irrimediabilmente uno. Abbiamo reso le nostre comunità più resilienti assicurandoci il più possibile che nessuno rimanesse indietro, nemmeno i lenti, nemmeno i “vecchi”. Questa non è la nostra sconfitta. Questo è il nostro marchio. Non stiamo chiedendo allo stato di essere qualcosa che (al momento) non è, stiamo materializzando un’alternativa. Transgenerazionale e transpersonale. Intersezionale e consapevole. Stiamo lottando contro il nemico più grande di sempre, che non è il Covid, ma il golem nato dalle sconfitte che ci hanno portato fin qua. Lo vogliamo fare dentro e oltre lo stato, dentro e oltre la classe, dentro e oltre la razza e il genere. Non ci stupisce che non vengano viste le nostre armi, se fossero state riconoscibili avremmo forse ereditato più vittorie. Ma non saper vedere qualcosa non ne decreta l’inesistenza.

Mentre chiudo questo pezzo sento sulla spalla la mano invisibile e delicata di una sorella che non ho ancora conosciuto, una della generazione z, di quelle che il venerdì, fuor di Covid, non vanno a scuola ma a lottare per quel futuro che i ruggenti anni ’70 (e non solo per carità) hanno ipotecato. E del resto, voi volevate tutto, noi solo un futuro per tutt*. La vedo ridacchiare, con quella meravigliosa arroganza di chi non ha tempo per farsi crucciare dal passato, troppo impegnato ad aggredire l’oggi, a conquistarsi un domani. Mi convince ad occuparmi di lei, invece che degli anni ’70. Le faccio cenno di sì, anche se non so come chiudere. Lei sì, lo sa bene, e del resto non mi sarei aspettata meno da una Plutone in Sagittario: non a caso, in rosa…

Ps: si certifica che per quanto sistematicamente ignorat*, nessun appartenente alla generazione X è stat* fisicamente maltratto durante la scrittura di questo pezzo. In quanto millennial, tuttavia, sono consapevole del fatto che la forclusione sia una forma di violenza epistemica, quindi: xdono!

 

 

 

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