Che fare davanti al coronavirus? La domanda non porta con se l’analisi delle scellerate scelte di governo, regione e comune di questa settimana. La domanda è posta ai movimenti sociali, se dovessero affrontare questa situazione anomale da potenziale pandemia da virus mai conosciuto prima. Ribadiamo, a scanso di equivoci, che non parliamo della nuova peste, ma nemmeno di un raffreddore di stagione.

Spesso nella critica al contemporaneo e all’azione governativa e filo capitalista manca una parte di ragionamento sulle necessarie forme d’azione per reagire, resistere, rispondere ad una novità.

Nel mio piccolo mi pare interessante pensare di portare l’emergenza ad un livello totale, senza generare allarmismo ma nel nome della tutela di un bene comune e collettivo, la salute. Pretendere il blocco totale delle attività lavorative, per 7 o 10 giorni. Spiegare che la riduzione di contatti tra persone può limitare la propagazione del virus, e una minore propagazione del virus significa evitare di riempire le corsie d’ospedale, oltre che ridurre il numero dei morti. Quindi senza militarizzare alcun territorio. Fermare il tempo della produzione e del capitale. Riprendersi il tempo. Liberarsi dall’obbligo del lavoro e dagli obblighi più in generale. Rifiutare i tempi pazzeschi e l’ultra attività. Capire come sostenere una necessità collettiva alla salute, ribadendo la sua centralità oltre al fatto che la salute è un processo a cui tutti possono contribuire. It’s up to you direbbero altrove. Uscendo dai ricatti. Perchè, si, in questi giorni di coronavirus oltre ad averci mostrato, nuovamente, l’asservimento della politica all’economia ci ha mostrato come il capitalismo moderno, la sua dottrina, genera forme di ricatto individuale fortissimo nella differenza di diritti e possibilità di accesso al reddito, ma ci mostra anche come il tanto mitizzato privato scompare quando c’è un’emergenza, e il tanto vituperato pubblico torna ad essere elemento di tutela. Forse capiamo anche perchè, parrebbe, che il discorso di Bernie Sanders, negli States stia trovando riscontri. A Miami è stato denunciato come un uomo andando a farsi curare perchè dubbioso di aver contratto il coronavirus ha dovuto pagare oltre 3000 dollari per tampone e analisi[1].

La pubblicità della sanità e l’accesso ad un reddito universale (inserito in un welfare state) meriterebbero campagne politiche, la voce dei corpi intermedi alzarsi e gridare, e immaginare un futuro diverso.

Ma quella voce però è debole. Forte è la voce della paura, che dentro e a cavallo le storture istituzionali si polarizza tra la denuncia di stati d’emergenza e d’eccezione permanente (davanti alle insufficienti misure di limitazione del virus) e l’allarmismo da “la città sarà distrutta all’alba”. La paura non è mai foriera di lucidità. La paura non fa inquadrare il nemico, nemico che resta uno: il capitalismo.

Questi giorni stanno mettendo a nudo molte ambiguità della nostra società, anche tra gli ambienti che più dovrebbero riflettere sull’alternativa. Davanti all’anomala necessità di affrontare una possibile crisi sanitaria, nell’incognita di non possedere vaccini al virus, come ci si può interrogare su un che fare in senso anti-capitalista? Come si può e si deve pensare di essere voce critica per garantire il rispetto delle iniziative necessarie a “camminare al passo del più lento”. Penso che la chiave di lettura in fasi incognite non possa ricalcare passo passo i manuali già visti e scritti. Serve un pò di ereticità. Il problema è il capitalismo, e la crisi da coronavirus lo sta mettendo in mostra. Con il governatore della Lombardia Fontana che un giorno grida all’emergenza, per poi il giorno dopo tornare sui suoi passi e prima parlare di “poco più di una semplice influenza”, poi ri-aprire i bar dopo le 18.00, ma solo quelli che fanno servizio al tavolo e dentro il limite di coperti che i tavoli consente, e quindi fare un filmato su Facebook, con tanto di mascherina, per annunciare la sua auto – quarantena poiché una sua collaboratrice è malata. Sala, e il governo di Milano, dopo giorni di propaganda ansiogena snocciolano ottimismo sfrenato, negato dai dati di crescita dei contagiati, che ricorda l’Expottimismo con cui la città è stata rimodellata tirando allo stremo lo scontro sociale sull’abitabilità della metropoli. Fa specie che Sala per spingere alla “normalizzazione della città” citi i lavoratori e lavoratrici non garantiti che senza lavoro non mangerebbero…..ascoltandolo pensavo “ma questi stessi lavoratori se domani si ammalassero e dovessero andare in quarantena cosa farebbero?”. E poco dopo ho letto “Il bene comune o la propria sopravivenza? Una scelta a cui non dovrebbe essere sottoposto nessuno”. Mi pare evidente che oggi, in una bolla comune questo problema ha risonanza e quindi possibilità di essere affrontato, tornando alla “normalità” ogni singolo non garantito o non garantita tornerebbe ad essere solo o sola. E quindi abbandonato alla dinamica del capitale. Una campagna per il reddito universale di base? O come dice Non Una di Meno il reddito di autodeterminazione, oltre alla riscrittura delle possibilità di accesso a sanità e istruzione?

Che fare quindi? Come evitare che le già collassate corsie d’ospedale in lombardia, oggi 28.02 a Lodi e Cremona è arrivato l’allarme, si riempiano di più. Il blocco parziale delle città disposto in un primo tempo ha toccato anche la Serie A di calcio, ha limitato l’ultimo giorno di “settimana della moda” ha agito in maniera disordinata aumentando il caos e la polarizzazione tra sottovalutazione e allarmismo ma nella sua caoticità ha colpito anche pezzi di capitale. La militarizzazione della Zona Rossa più che l’imposizione dello stato d’eccezione è la reiterazione di schemi preordinati e già visti, figli dello schema e cultura securitaria del nostro paese. Ovviamente la militarizzazione di quelle aree va negata, ma è altrettanto vero che dentro la zona le persone sono libere di muoversi a loro piacimento. Certo gli viene negato di abbandonare quelle aree, e certamente non è con i militari che chi vive quelle aree dovrebbe, per il bene di altri, limitare la sua mobilità. Oppure la libertà individuale trascende quella collettiva? Il dispositivo è repressivo se pervade la normalità, ma non vi è normalità in una possibile emergenza sanitaria e soprattutto lo stato d’eccezione serve a piegare al capitale un territorio,  massificare guadagni, limitare libertà individuali e collettive. I blocchi disposti, per quando parziali, hanno portato alla sollevazione del capitalismo e la pretesa di decretare lo stato di normalità. Oggi in Italia non ci sono ondate di proteste massicce che spaventano governo e capitale per cui le misure sul coronavirus sono pensate ed usate in chiave oppositoria, come invece successo in Francia quando con lo stato d’eccezione anti-terrorismo si è cercato di fermare le lotte anti-macron.

Davanti ad una anomala e insolita novità, gli schemi logici e politici vanno in tilt, le certezze vacillano, si naviga nel buio, si cerca la luce, e l’osservazione del reale necessità sforzi d’immaginazione freschi, la critica deve essere commisurata e si deve sapere rispondere alla domanda che pose Lenin, “che fare”? Osservando che la corsa all’allentamento delle misure è ciò che il capitale chiede. Il dubbio è che per mesi si sia voluto sottovalutare il problema qui nel vecchio continente, e ora, evitando di applicare con coraggio e forza le norme necessarie a rallentare l’epidemia (non solo in Italia) si tenti di “coprire” una crisi economica profonda….su cui si creare emergenzialità ed eccezione. Oggi mi pare necessario rivendicare il diritto di sciopero e di riunione e quindi pretendere che l’8 e 9 marzo il movimento femminista prenda le strade, anche per capire se davvero c’è un progetto di limitazione dei diritti costituzionali.

Ma la sfida del che fare ci interroga sugli sforzi necessari per rifiutare le opzioni preordinate dal sistema così come cadere nella standardizzazione d’analisi. Davanti ad un’anomalia si aprono campi interessanti, percorsi di lotta e possibili risposte….se si sanno porre le giuste domande.

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Note

[1] Qui la fonte americana

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