Il diavolo è un ottimista
se crede di poter peggiorare
gli uomini
Karl Kraus
Solo chi è prigioniero dell’ideologia dominante può accettare con felice soddisfazione l’odierna struttura dell’economia e dei rapporti sociali. Il sistema di comunicazione costruito dal liberismo contemporaneo ha trasformato la rappresentazione in realtà e il mondo sembra, nonostante tutto (come sussurrano prudentemente i più critici), un porto felice, o, quanto meno, l’unica vita possibile nel terzo millennio. La servitù volontaria, nata per contrastare il timore dell’esclusione e della miseria, rende ciechi, impedisce di vedere gli effetti di una quotidiana violenta prevaricazione che caratterizza il meccanismo di estrazione del valore. L’esame, nudo e crudo, dell’esistenza di gran parte delle persone che ci circondano dovrebbe invece rendere palese la verità: quella di un oggettivo accanimento, di uno sfruttamento crudele e senza freni inibitori, a volte perfino inspiegabile nella sua sostanziale irragionevolezza. Non a caso viene evocato il concetto di neoschiavitù per descrivere le insostenibili condizioni in cui si trovano i soggetti soggiogati dai funzionari del capitalismo ultraliberista.
Era prevedibile questo scenario, a ben pensarci. La concezione liberista della società tende ad esasperare ogni cosa, perfino le modalità dello sviluppo e l’idea del cosidetto progresso. L’esasperazione travolge davvero tutto: il libero arbitrio dell’imprenditore, del padrone e del sottopadrone, del caporale, e ancora omologa i comportamenti dei gendarmi, dei lobbisti, dei politici e delle banche. Tutto si tiene ancor più di prima. L’abuso e la violenza sono tornati ad essere, come spesso accade nel tempo delle transizioni, lo strumento istituzionale, percepito come necessario e non evitabile, richiesto ai funzionari delle polizie e ai tutori dell’ordine pubblico. Il popolo degli illegalismi esprime uno stato che li garantisce e approva sia le grandi opere devastatrici come la TAV sia l’accanimento dello sfruttamento. Un ordine che pubblico non è di certo e che coincide invece con la rimozione di qualsiasi ostacolo si frapponga alle esigenze dello sfruttamento; dunque è sua logica conseguenza la crescente predilezione per l’intolleranza (tolleranza zero), per la punizione esemplare, per l’esclusione, per il carcere per chi cerca di resistere anche se è una 73enne come Nicoletta Dosio. Sempre più spesso i soldati del sistema liberista si abbandonano ad esporre le loro prede come un trofeo, utilizzando perfino lo strumento del media mentre l’impunità per i loro illeciti garantisce la legittimità dell’agire per il supersfruttamento.
Lo sapevamo. In un quadro complessivo come quello attuale il cosiddetto “sviluppo dell’imprenditorialità degli immigrati” tende a produrre, insieme, un nuovo caporalato etnico, strumento ideale per il supersfruttamento e per la neo-schiavizzazione di lavoratori con le stesse origini etniche dei loro caporali. Siamo costretti a constatare come la realtà sia andata oltre l’immaginabile. Il recente caso degli appalti navali Fincantieri, a Marghera e Monfalcone, dimostra che si è consolidato ormai un sistema di reclutamento e gestione della manodopera a carattere transnazionale. Non si tratta solo di mazzette cospicue versate per ottenere gli appalti o di lauti compensi pagati a chi organizza il rastrellamento dei lavoratori stranieri, ma di uso spregiudicato e criminale del corpo stesso di chi viene piegato al lavoro, di chi subisce le conseguenze di questa spietata estrazione di profitto. I caporali del liberismo, per garantire livelli estremi di produzione, non esitano a somministrare alle loro vittime bengalesi pastiglie di Yaba, la cosiddetta droga di Hitler con cui i militi del terzo Reich vincevano la fatica. Buste paga falsificate e spaccio di metanfetamina sono la cassetta degli attrezzi impiegata dal neoliberismo; e il furore di sfruttare rende i loro funzionari indifferenti rispetto alle conseguenze, agli accertati fenomeni di suicidio per l’ansia, la depressione, la disperazione provocate dai farmaci (come accaduto pure ad alcuni Sikh nelle campagne di Latina). Un altro recente caso scoperto riguarda il supersfruttamento e il caporalato anche etnico in Calabria sempre nello stesso posto dove da anni si sa delle condizioni allucinanti di lavoro e di vita degli immigrati destinati alla raccolta degli agrumi (sempre attraverso la rete di cooperative e caporalato). “I braccianti erano costretti a lavorare giornate intere nei campi e negli agrumeti della Piana di Gioia Tauro, 7 giorni su 7, festivi compresi, per 10-12 ore consecutive, con pause contingentate e sprovvisti di qualsivoglia dispositivo di protezione individuale e di tutela della salute per 1 euro a cassetta o qualche decina a giornata, senza limite di orario se non quello imposto dalle ore di luce. Una giornata di lavoro infinita, che iniziava rischiando la vita sui vetusti e stracarichi van con cui i caporali li accompagnavano nei campi, costringendoli a viaggiare persino nel bagagliaio o su sedili inventati con un secchio o un asse per massimizzare i profitti del trasporto. E anche fra le tende del ghetto c’era sfruttamento. Diverse donne – è emerso dall’indagine della magistratura- erano costrette a prostituirsi da un uomo di origine liberiana ogni sera le portava come pacchi al ghetto, mettendole a disposizione di chi ne avesse voglia. Schiave in tutto e per tutto dell’uomo, le ragazze erano poi costrette a versare anche la maggior parte dei compensi ricevuti” (vedi qui).
La formazione dei professionisti del sommerso
Mentre celebri sociologi inneggiavano al genio italiano, elogiando i “distretti” della “terza Italia” e magnificando il made in Italy, già negli anni Ottanta e ancor di più negli anni Novanta si è consolidata e legittimata l’economia sommersa, è nato – e presto cresciuto – prima un caporalato postmoderno, poi anche quello etnico. Fra Firenze e Prato abili avventurieri cinesi hanno preso il posto dei tradizionali artigiani locali, sino a sviluppare un “distretto” semisommerso di enorme dimensione, hanno introdotto con disinvoltura, arroganza e violenza una nuova schiavitù che produce sia per le principali imprese sia per le vendite ambulanti abusive, così da raggiungere una rete diversificata di consumatori (si vedano fra altri vari videoreportage anche su youtube e fra essi quelli di RAI Report già negli anni ’90). Un processo similare è avvenuto in Campania (nel territorio napoletano specialmente) e nella pianura padana. Esigenze di spettacolo politico hanno scatenato, al tempo stesso, una sorta di caccia spietata ai venditori di merci qualificate come contraffatte, ma in realtà quasi sempre del tutto identiche a quelle vendute nelle boutiques di lusso o consegnate mediante ordine on line nel circuito di Amazon. La caccia all’abusivo, con rumorose pressioni sui sindaci e sull’apparato di polizia, rassicura l’acquirente della merce offerta clandestinamente (si convince del buon affare) e al tempo stesso gratifica il consumatore ligio alle norme che paga e al tempo stesso invoca punizioni esemplari. Nella società dello spettacolo anche la merce esige una messa in scena, nella produzione e nella vendita.
Nei laboratori emiliani capi di abbigliamento asiatici o africani vengono ritoccati da bengalesi e pakistani; con l’aggiunta di un bottone, di una qualche etichetta, di un fregio, o del chip delle grandi marche: diventano firmate e ad ogni effetto made in Italy. E i caporali delle cooperative, spesso con l’aiuto militare della criminalità, ricavano profitti milionari. Li affianca un nuovo stuolo di professionisti, specializzati nell’offrire sotterfugi e idee al fine di facilitare le cosiddette delocalizzazioni, a cascata, senza sosta sia in Italia sia in diversi paesi “terzi”. Non esiste più il tradizionale luogo della prestazione e non esiste più neppure orario o salario. Il movimento è costante, l’esercito dei lavoranti si sposta con rapidità, muta la sua composizione, si sostiene con le metanfetamine, accetta le condizioni imposte; arrivano le commesse e la struttura si adegua cambiando ciò che va cambiato, senza più certezze. Nel sommerso agiscono magliari postmoderni, inventori e sperimentatori di truffe, maestri dell’evasione fiscale e di reati finanziari, magari esuli provenienti da lontani paesi per sfuggire alle condanne e collegati a partners in territorio italiano. Sono i nuovi negrieri, gente senza scrupoli, pirati con il furore di accumulare ricchezza sfruttando il prossimo, incuranti di corpi e destini. Sono persone in grado di trovare a chi vendere un’intera fabbrica di scarpe o a chi subappaltare la produzione di prêt-à-porter in Tunisia o in Turchia o altrove, di costruire un quartiere, di movimentare merce, di assemblare pezzi. Ma sono anche persone capaci di organizzare i trasferimenti dei pagamenti tramite banche (non solo svizzere) e di raggiungere i paradisi fiscali.
In piccolo, a volte in forma un po’ raffazzonata, ci troviamo di fronte ad una sorta di imitazione del sistema Benetton, quello che produce tutto delocalizzando, grazie anche alle connivenze nelle dogane estere o italiane, ma sempre lasciando ad altri, in silenzio, simili necessità. L’importante è evitare ogni violazione delle norme comunitarie, delle regole di mercato, sottraendosi alle sanzioni nazionali e internazionali. La piattaforma provvede, senza ideologia, a distribuire il lavoro e a coniugare il massimo profitto, il miglior rapporto fra prezzo e qualità della merce da piazzare. E’ un sistema capace di utilizzare lavoranti a domicilio in sperduti villaggi tunisini o grandi fabbriche, come Rana Plaza (Bangladesh), quella che nel 2013 rovinò e lasciò senza vita 1.129 lavoratori, oltre a 2.515 feriti, vittime inermi e rimaste senza giustizia. Persino qualche piccola impresa del varesotto, già all’inizio degli anni Novanta, aveva scoperto la via della delocalizzazione, collocando in paesi a basso costo la produzione di biancheria intima. Il proprietario era a modo suo un esploratore, non parlava alcuna lingua straniera e non sapeva nulla di come funzionava giuridicamente l’operazione, ma il profitto lo aveva visto subito. Abili intermediari si occupavano di tutto, a costi convenienti, quasi senza rischi, visti i guadagni tratti da tale scelta e il benefit ulteriore connesso al mancato pagamento di tasse e contributi. Grazie alle novità del neoliberismo si potevano godere i benefici, senza il fastidio di personale costoso e riottoso, con pochissimi addetti d’ufficio, in uno stabilimento pulitissimo, supermoderno in cui la merce veniva solo inscatolata (naturalmente dai somministrati o dai soci di cooperativa).
La gran parte di queste delocalizzazioni, siano esse piccole, medie o grandi, non si sono realizzate certo per virtù dello spirito santo e neppure sono il frutto di casualità e improvvisazione. Sono invece opera di uno stuolo di professionisti specializzati, di esperti nel settore dell’economia sommersa, organizzati in gruppo e capaci di intrecciare le milizie del caporalato con le catene migratorie in questo costante processo di smantellamento dello stato sociale, attuando al tempo stesso astute pratiche per realizzare in concreto elusione del fisco e in generale sottrazione ai controlli. Tutti i settori d’attività sono pervasi dall’intreccio fra lecito e illecito, semi-sommerso e sommerso. Così come i prodotti dei grandi marchi sono fatti in fabrichette semi-clandestine, la produzione agricola intrisa di caporalato alimenta le grandi catene di supermercati. L’illegalità diviene così una componente stabile dell’apparato economico legittimo, al punto che la stessa Comunità europea chiede di inserire nel calcolo ufficiale del prodotto interno lordo anche la stima del sommerso (ma spesso solo della metà e i sindacati prendono per buono quanto dice l’Istat in proposito). Il processo penale a carico dei dirigenti ENI o Finmeccanica, a prescindere dalle responsabilità personali di singoli soggetti, ha chiarito la necessità della corruzione per l’acquisizione dei contratti e per ottenere concessioni o appalti. I tecnici debbono non solo conoscere in dettaglio la materia, ma anche chi corrompere, al momento giusto e nell’ingranaggio giusto, muovendosi all’interno delle dogane, dei ministeri, degli ispettorati del lavoro, delle trattative sindacali, sia in Italia sia all’estero, in Europa e nel pianeta.
La vicenda di Fincantieri merita attenzione per comprendere appieno l’articolazione stupefacente di un’attività svolta al confine fra lecito e criminale. Alì Md Suhag è un bengalese di 35 anni, con il ruolo di legale rappresentante della società appaltatrice Venice Group srl; si incaricava di effettuare lavorazioni di carpenteria sulle gigantesche navi crociera negli stabilimenti Fincantieri di Marghera. Alì è diventato uno dei personaggi-chiave che caratterizzano l’inchiesta giudiziaria della procura veneta nel corso della quale va emergendo una sequenza di fatti davvero eclatanti. Per ottenere gli appalti da Fincantieri, e poi il successivo rinnovo, era necessaria la copertura complice dei funzionari della committenza che dovevano di fatto accettare mezzi illeciti di gestione dell’attività. Fincantieri è un’impresa pubblica, controllata per il 71,6% dal ministero delle finanze; il maggiore azionista dunque riveste il duplice ruolo di controllore e controllato! Il suo presidente, Giampiero Massolo, viene dalla carriera diplomatica, era il direttore dello speciale delicatissimo dipartimento delle informazioni per la sicurezza (D.I.S.), il cuore del sistema in materia di tutela amministrativa del segreto di stato. Naturalmente è un membro della Trilaterale, siede nel comitato esecutivo di Aspen Italia, partecipa a Bilderberg. Non possiamo ritenerlo un soggetto ingenuo, distratto, sprovveduto. Tramite funzionari Fincantieri, Alì Md Suhag era il suo interlocutore; per conservare la posizione elargiva doni e somme considerevoli ai funzionari del cantiere di stato, tutti al loro posto. Ovviamente sorgono subito alcune domande a grappolo, quasi ovvie: ma come ha fatto questo bengalese di 35 anni a fondare e controllare un’impresa italiana, a intrecciare relazioni, realizzando compromessi d’affari e corrompendo i pubblici funzionari di Fincantieri? E per quali ragioni questi funzionari hanno scelto fra mille questuanti proprio questa impresa subappaltatrice? Il medesimo meccanismo lo si ritrova anche nelle altre sedi di Fincantieri; appare dunque evidente che non si tratta di un mero incidente di percorso, ma di una strategia aziendale consapevole e voluta. Alle imprese subappaltatrici si chiede innanzitutto di assicurare prestazioni a costi sempre più bassi e un maggior rendimento; il procedimento d’ingaggio comporta qualche mazzetta in favore dei funzionari incaricati di preparare i contratti, è una conseguenza inevitabile, collaterale, da gestire con discrezione, in fondo una garanzia di fedeltà e di disponibilità da parte dell’appaltatore. Ogni singolo Alì deve del resto provvedere alla pace sociale e sindacale nel cantiere, o con la minaccia o con i regali. Il sistema funziona solo se almeno in parte sconfina nell’illegalità.
Alì Md Suhag, con il suo savoir-faire, non cade dal cielo, è un abile faccendiere, un mediatore che ha perfettamente imparato a barcamenarsi nell’universo transnazionale del moderno neoliberismo, amico di sindacalisti disponibili, generoso con gli esponenti politici di destra o di sinistra. Alì ha fatto tesoro delle delocalizzazioni nel suo Bangladesh e si è calato con il bagaglio di esperienza nel vasto bacino dell’immigrazione in territorio italiano; ha ben compreso come l’offerta di manodopera immigrata possa essere molto appetibile, sino a diventare una manna. Lo hanno scoperto anche i dirigenti Fincantieri, sin da quando, già decenni or sono, si sono decisi a utilizzare il subappalto, riducendo via via, il numero dei dipendenti diretti a tempo indeterminato, aprendo le porte al lavoro nero degli operai italiani e stranieri. Alì Md Suhag si è facilmente collegato con i reclutatori, con i fornitori di braccia pronte a sopportare ogni sacrificio, compresa l’assunzione prolungata della droga di Hitler pur di aumentare la produttività. Un trafficante bengalese di immigrati a lui collegato provvede, quasi per caso, anche al commercio clandestino di Yaba. Alì ha bisogno di estrarre la massima efficienza, tagliando i tempi e allungando la giornata lavorativa, per poter rispettare gli accordi con Fincantieri, per tenersi buoni i funzionari collusi, per garantirsi il guadagno; ancora una volta prevale il furore di accumulare e di sfruttare. L’inquadramento di una simile manodopera è per forza di cose connesso alla gabbia etnica, lo strumento che obbliga ad accettare ogni condizione, quindi anche pochi euro per ora, magari per 12 ore al giorno, confidando in una qualche integrazione forfettaria a fine cantiere. Alì Md Suhag sa ridurre al massimo i costi del lavoro, conosce la via per incrementare la produttività, non arretra neppure di fronte all’uso di Yaba, paga senza fiatare cospicue mazzette ai funzionari per non venir estromesso dall’affare. Il corpo dei bengalesi schiavizzati non è affar suo, il loro destino individuale esce dal suo orizzonte, non lo riguarda. Amitar Ghosch, nel suo ultimo romanzo (Gun Island) descrive con efficacia la comunità bengalese a Venezia, l’impiego nell’edilizia, i piccoli uffici in cui vengono assegnati i lavori e si compongono le controversie; a volte il romanziere riesce a cogliere la realtà meglio e più a fondo dei sociologi e degli economisti.
In tutta la vicenda Fincantieri (Marghera, Monfalcone e Genova) appare evidente che non si tratta solo di un piccolo magliaro, di un qualsiasi padroncino, di qualche funzionario e dei suoi caporali; emerge invece un sistema sul quale si regge l’economia reale complessiva, con la parte contabilizzata e quella semi-sommersa; ne fanno parte anche le grandi imprese statali come Fincantieri. I vertici di questa struttura ha consapevolezza degli strumenti utilizzati dai loro sottoposti ma si lascia credere che questo avvenga a loro insaputa; è come credere che Mussolini non avesse idea dei metodi impiegati dal suo generale Graziani nelle colonie africane. I commentatori prezzolati, disposti a scrivere qualsiasi cosa purché a pagamento, cercano di confinare il caporalato alle piccole proprietà: il padroncino etnico serve anche a questo cioè a dire che è colpa degli immigrati. I grandi marchi attraverso i loro power broker piccoli e medi, italiani e stranieri sono invece i committenti della produzione di merci (materiali e immateriali) alle fabbriche cinesi o ai laboratori napoletani e alle diverse imprese subappaltatrici. Sono i neoliberisti che coltivano il loro furore di supersfruttare. E questo vale anche per le imprese, solo apparentemente perbene, della “Valle della Gomma” (un feudo della Lega); quelle che producono guarnizioni per le grandi marche automobilistiche europee usando famiglie a domicilio, “strappa guarnizioni” a 2 euro per mille pezzi. Tale “Valle della gomma” è la Val Calepio sul lago di Iseo, che da distretto industriale degli anni ’80 per le guarnizioni in gomma da vendere al dettaglio si è specializzato come subfornitura per l’automotive e alcune imprese del Sebino stanno delocalizzando in Polonia.
E allora non può sorprendere che le mafie siano oggi sempre più diffuse al Nord.
Il paradigma del caso Bolondi
Le cronache si sono recentemente occupate di un tal Giancarlo Bolondi, un nome che ai più risulterà sconosciuto, pur essendo a modo suo una sorta di emblematico rappresentante di questa nostra epoca. Nel comprensorio di San Giuliano Milanese era ben noto ai residenti già negli anni Novanta; a lui bisognava rivolgersi per trovare un lavoro, vista la sua fitta rete di cooperative e di imprese attive nel mondo degli appalti; e anche nell’area di Monza si era mosso con abilità. Manteneva buoni rapporti con gli esponenti politici e con le banche, godeva della piena fiducia presso le grandi imprese. Certo, non mancava qualche grana giudiziaria (specialmente di natura civilistica, più di rado con risvolti penali), ma nel complesso gli affari e i profitti potevano ritenersi soddisfacenti. Ceva e Premium erano i suoi marchi d’impresa, articolati con sapienza fra cooperative, società di capitale, consorzi, depositi bancari, immobili, investimenti in Italia e all’estero. Giancarlo Bolondi, con residenza in Svizzera, collocava ogni giorno dell’anno molte centinaia di braccia; e stipulava contratti non con settori marginali dell’economia, ma direttamente con i grandi, nonostante già nel 1996, in quel di Monza, non fosse riuscito ad evitare una piccola condanna patteggiata (15 mesi, coperti dalla condizionale). Giancarlo Bolondi reclutava affidandosi al passaparola e sapeva costruire buoni rapporti con i funzionari sindacali accettando di buon grado le raccomandazioni da loro ricevute, per attività da retribuire sia in bianco sia in nero (preferibilmente in nero). Non era certo un clandestino; considerato l’ingente giro di denaro che passava tra le sue mani; i direttori di filiale delle banche più importanti facevano a gara per averlo cliente. E lui sapeva premiare a fronte di un favore ricevuto (scherzava sul marchio Premium che spendeva sul mercato). Riesce difficile credere che polizia, carabinieri, ispettori del lavoro, imprenditori, sindacalisti, magistrati, amministratori locali, senatori, deputati fossero all’oscuro del reale contenuto di questa pluridecennale complessa attività di mediazione sostanzialmente illegale, di caporalato, di riciclaggio. Giancarlo Bolondi faceva comodo all’intero universo di gestione dell’economia neoliberista, e lui lo sapeva perfettamente, traendone le conseguenze; per oltre vent’anni ha goduto di una solida complicità ambientale. Ricordiamo anche che l’organizzazione del lavoro alla Bolondi o alla subfornitura Fincantieri ha sempre caratterizzato il sistema Italia. Già delle ricerche sulle PMi in Val Camonica o nell’hinterland milanese dei primi anni ’90 lo avevano svelato (su AltreRagioni n. 5 e 6: “Lavoro e piccola impresa nell’accumulazione flessibile in Italia”). Ciò che è nuovo oggi e che a questo sistema di sfruttamento (che ha sempre più inglobato i migranti) si aggiungono le piattaforme di intermediazione gestite dal capitalismo digitale (i riders uno per tutti, ma non solo): Il che significa che tale attività di sfruttamento è fortemente in crescita. Bolondi sino a ieri era anche l’intoccabile di Pavia ed esempio dell’imprenditoria pavese… detto il “ras delle coop”.
Per meglio comprendere il paradigma Bolondi sarà bene inserire un paio di esempi utili di come in concreto funzioni la distribuzione illegale di denaro nel circuito dell’economia multinazionale finanziarizzata. Prendiamo una struttura cooperativa costruita per la frode. Dopo due anni dalla cessazione dell’appalto la legge prevede la liberazione del committente, del primo appaltatore e del consorzio; ma l’apparato di controllo è lento nel registrare l’evasione fiscale, quella contributiva e perfino il mancato versamento dell’IVA. La cooperativa fraudolenta dura 12-18 mesi; offre condizioni concorrenziali per l’utilizzo della manodopera fornita, paga meno dei minimi collettivi, soprattutto evade. Duecento addetti a tempo pieno nella logistica, nel trasporto o nei servizi di assemblaggio possono essere messi a disposizione a 15-18 euro orari, una somma che sulla carta non potrebbe consentire alcun margine di profitto. Il contratto viene stipulato per 21 euro lordi e il committente paga la cooperativa su fattura. La cooperativa trasforma il bonifico bancario in contante, o simulando stipendi a persone inesistenti (magari esistenti e inconsapevoli) o con movimenti contabili di vario genere. Poi restituisce in nero il 10% per contanti al committente che può così avere un proprio fondo occulto di emergenza, senza costi aggiuntivi. Paga una media di otto euro orari agli operai, ne rimangono dieci per il mediatore, che provvede naturalmente a saldare amministratori, politici, sindacalisti, controllori, sempre a mezzo di mazzette (un altro 10%). I duecento operai usati per 50 ore settimanali rendono 80.000,00 euro netti a settimana, ovvero 4.160.000 euro netti all’anno. Non ci è dato sapere come Karl Marx avrebbe classificato un simile meccanismo, ma certo il saggio di profitto appare davvero interessante per il nostro imprenditore neoliberista! E, per avere una qualche idea di come si provveda a far girare i proventi, valga quanto accade non di rado nella ricca Lombardia, con il Money Transfer. Dopo una settimana di duro lavoro un mulettista egiziano riceve la paga dalla sua cooperativa. Ma prima ha un compito da svolgere. Riceve cinquecento euro in contante, e manda la somma all’estero, senza che rimanga una vera traccia dell’operazione; chi riceve utilizza il circuito bancario e disperde l’importo. Il mulettista porta in cooperativa la ricevuta e a questo punto (ma solo a questo punto) ha il suo stipendio. L’Italia è il secondo paese europeo, dopo la Spagna, per volume complessivo di spostamento del denaro con questo meccanismo; fra i paesi destinatari delle spedizioni abbiamo nell’ordine Cina, Filippine e Romania. La manodopera, assunta o irregolare, viene