Un curriculum inviato, un colloquio che va bene, una breve formazione per distribuire baguette surgelate nell’ipermercato del futuro. Una giornalista freelance, un’opportunità per costruire un servizio, un pass utile a galleggiare per qualche mese, per dimostrare quanto vali. Opportunità da due lire, certo. Opportunità che, però, ti fanno sbarcare il lunario con l’orizzonte di tre o sei mesi. Opportunità di quelle per cui magari rifiuti una chiamata, prendi una stanza in affitto, ti organizzi insomma. Il 30 aprile il telefono squilla e, in breve, sei licenziato. Domani non sarà il tuo primo giorno di lavoro. Il rimpiattino delle spiegazioni corre dalla cooperativa alla società e dalla questura al ministero senza chiarificaizoni pubbliche né riferimeni normativi. Il bilancio del primo mese di Expo 2015 si fa anche qui: il garantismo nei confronti della presidente Bracco, accusata di evasione fiscale per un milione di euro, non si applica ai precari che sorreggono le fondamenta del parco giochi. Tu sei fuori. Ora un passo indietro.
Ci sono due narrazioni possibili di Expo 2015. La prima parla di una disneyland del food e il suo racconto procede per padiglioni, fotografando, tra gelati e selfie, l’affanno di una città che si vorrebbe metropoli, aggrappandosi al volano della kermesse gastronomica. Svolgendo il suo discorso alla città per istantanee, questa prima narrazione è sostenuta dal battage mediatico ma orfana di un tempo storico: esserci, raccontarlo per raccontarsi, essere, nel flusso bulimico di eventi. La seconda narrazione getta uno sguardo sulla storia delle esposizioni universali: linguaggio del capitale nella sua fase industriale, operazione di marketing turistico, oggi cannibalizzata e resa obsoleta dalle stesse innovazioni di cui si faceva lustro.
Questo secondo approccio diacronico, non ebbe fortuna nella Milano della sbornia post-assegnazione. Chi, con la tavola della festa ancora apparecchiata, tratteggiava un bilancio di trent’anni di Expo fallimentari, non poteva che esser scambiato (non senza un pizzico di malizia) per un nimby, quindi un choosy, oggi un gufo. Non si può suggerire la pericolosità sociale di Expo 2015 in termini di indebitamento, consumo di suolo, precarizzazione e spartizione (poco importa qui se legale o illegale) nonché accentramento di poteri, senza farsi terra bruciata intorno in questa pavida città.
Archiviati gli acquerelli dell’expo diffusa e sostenibile, abbandonata ogni velleità d’intervento nello spazio pubblico, svelato il carattere predatorio di un evento che consuma senza sfamare, Expo 2015 si rivela, passo passo, un’ipoteca sul diritto alla città. Il carattere estrattivo di questo dispositivo di governo del territorio si fa presto tridimensionale: si estraggono risorse dal suolo, si privatizzano servizi, si preda la possibilità di decidere e autodeterminare la decisione sul futuro della città e del paese. Non è un caso che nel laboratorio milanese, tra commisssari straordinari e contratti atipici, si modellino i due provvedimenti più importanti varati dal governo Renzi: JobsAct e Sblocca Italia. Sul fronte del lavoro i fiori all’occhiello del sistema Expo sono: il contratto in deroga stipulato con le tre sigle confederali nel luglio 2013, l’accordo interno al Comune di Milano del giugno 2014, la grande opportunità per i più giovani di socializzarsi e promuovere le proprie relazioni attraverso 8500 posizioni di lavoro non retribuito all’interno del sito. Mentre comitati e attivisti portano a casa la battaglia contro l’inutile e nociva via d’acqua, nei varchi che si aprono spontaneamente nei cantieri al riparo dagli ingressi ufficiali, nelle prestazioni lavorative mai retribuite, negli oltre cento incidenti e oltre 70 interdizioni, c’è molto, troppo altro che non va.
Flashforward. Negli ultimi trenta giorni la questura ha dato il responso sui curricula dei lavoratori destinati a lavorare nell’area sensibile del sito di Expo. In anni e anni di cantieri, dentro e fuori il perimetro del luna park enogastronomico, mai s’era verificato un fatto simile. La massa di lavoratori e la disomogeneità contrattuale e linguistica scoraggiò forse il controllo? O c’era dell’altro? A centinaia arrivano i pareri negati. Non si tratta di “nulla osta sicurezza” perché, dalle poche informazioni in nostro possesso, dagli uffici di via Fatebenefratelli giungono solo pareri consultivi. In casa Expo, e nelle imprese interne all’evento, il “consultivo” è preso per buono nel 99% dei casi. Al lavoratore non è offerta alcuna spiegazione ulteriore, se, da giornalista, provi a telefonare alla fonte, nemmeno ti richiamano. Nessuno si assume responsabilità, lo stesso viceministro non era informato ma ha totale fiducia nell’operato degli orani competenti. I sindacati, destati dal lungo torpore, si arrabattano per fare la “giusta causa” e difendere lavoratori mai entrati in servizio ma già licenziati. Sul fronte dei media qualcosa si smuove dopo settimane in una parabola dell’attenzione che sarebbe presto scemata se oggi la presidente in persona Diana Bracco, non fosse accusata di evasione fiscale e appropriazione indebita. Due pesi (due coke fresche) e due misure nella Milano che nutre il pianeta, dando energia alla vita.
L’acromatopsia congenita è una malattia che permette di vedere solo in bianco e nero. Chi ne è affetto non soltanto non percepisce i colori ma soffre di abbagliamento e di perdita dei particolari. Nei primi giorni di maggio in molti ne sono stati affetti evidentemente: chi vede solo il nero, ha risposto col bianco. Le sfumature, i particolari, le implicazioni, parevano essersi smarrite. Oggi, di fronte ad un modello emergenziale che si fa norma, a partire dalle resistenze del territorio, dentro e fuori la fabbrica del lavoro, cade il velo di un progetto questo sì eversivo, di governance delle nostre vite. Nella denuncia del metodo discrezionale con cui a Milano, si nega prima la libertà d’opinione, quindi il lavoro, occorre un nuovo protagonismo, polifonico e policromatico, delle lotte contro e oltre il modello che, dalle nostre parti, chiamiamo Expo 2015.
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