Riflessioni intorno al libro Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale, di Federico Chicchi, Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli (Ombre Corte, 2016)

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Mesi fa incontro in treno un ragazzo che conosco. Bello, sveglio e senza un mestiere, mi racconta che sta organizzando un festival in un centro sociale e mi colpisce con questa frase: “ma com’è che sono disoccupato e non ho tempo neanche per dormire? Stanotte per lavorare al festival sono andato a letto alle tre.”

Il libro “Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale” di Chicchi, Leonardi e Lucarelli (Ombre corte, 2016) mi ha aiutato a capire meglio la frase del ragazzo. Scrivono infatti gli autori nell’introduzione:

“la nostra riflessione si situa precisamente a questo livello – parte cioè dalla presa d’atto che l’estrazione di plusvalore si dà oggi anche attraverso la cattura di azioni sociali che si realizzano all’esterno del lavoro salariato.”

Il libro si compone di tre saggi scritti dai tre autori, da un capitolo introduttivo e una conclusione a firma congiunta, e da un’appendice nella quale è stato pubblicato un saggio del 1978 di Christian Marazzi. Grande è il debito intellettuale dei tre nei confronti del pensiero operaista che, negli anni ’70, andava elaborando concetti che hanno anticipato tendenze in atto. Scrive Marazzi:  

“Nella nuova realtà prodotta dall’egemonia della dimensione cognitiva del capitalismo, i circuiti di valorizzazione si preoccupano piuttosto di catturare il General Intellect o di captare le esternalità positive prodotte dalla forza invenzione propria della cooperazione sociale.”

Ovvero, se ci chiedessimo oggi da cosa deriva la ricchezza delle nazioni, troveremmo più risposte nelle strade delle nostre città che nelle fabbriche di periferia. La ricchezza oggi è ben rappresentata da aziende informatiche e del settore dei servizi, che valgono miliardi in borsa ma che hanno un numero di dipendenti esiguo. Che utilizzano, come fattore di produzione, conoscenze e persone per i quali non viene sborsata una lira.

 “

[l]a dematerializzazione del capitale fisso e il trasferimento delle sue funzioni produttive e organizzative nel corpo vivo della forza-lavoro, è all’origine di uno dei paradossi del nuovo capitalismo, ossia la contraddizione tra l’aumento di importanza del lavoro cognitivo, produttivo di conoscenza, quale leva della ricchezza e, contemporaneamente, la sua svalorizzazione in termini salariali e occupazionali.”

Nel meridione, dove questa storia è ambientata, c’è una grande tradizione di precarietà. Nel boom economico e negli anni successivi, le occupazioni stagionali e la disoccupazione semi-perenne sono sempre state elevate. Perciò mi hanno colpito le parole del ragazzo, perché parlano di una condizione collettiva vecchia e nuova al tempo stesso. Paradossalmente, nelle periferie d’Europa è possibile intravedere il futuro.

La frustrazione è doppia per il disoccupato del terzo millennio: oltre a problemi materiali (evidenti) e identitari (sei quel che fai), il malessere deriva dall’essere un ingranaggio fondamentale della produzione di conoscenza e informazioni (non dormire per organizzare il festival). Se infatti si produce sempre più fuori da fabbriche e uffici, al di là del tempo e dei rapporti di lavoro, il disoccupato oggi è in realtà molto più produttivo di quanto lui stesso creda.

Dice ancora Marazzi, citato alle pagine 48-49:

“Il modo in cui il capitale è riuscito ad aumentare la produttività a partire da un lavoro necessario ridotto al minimo dall’automazione e dall’informatizzazione è stato quello di uscire dal rapporto salariale, appropriandosi di una serie di attività il cui contributo alla valorizzazione del capitale permette di liberarsi dei limiti che il rapporto salariale pone agli aumenti di produttività. È con l’aumento del volume di lavoro extra-salariale, o extra-contrattuale, che si possono oggi ottenere continui aumenti di produttività comprimendo il lavoro vivo sociale.”

Il disoccupato è un ingranaggio fondamentale del mercato, senza il quale l’attuale sistema di produzione e consumo entrerebbe in profonda crisi. È dalla sua attività libera che il capitalismo trae forza, dalle sue funzioni di utente che parte dell’economia si muove.

Cose si è arrivati a questa situazione ce lo spiega Stefano Lucarelli nel suo saggio “L’esplosione del rapporto salariale”. Il collante della classe lavoratrice è stato un tempo il salario, composto, secondo Lucarelli, da una quota di sussistenza, che ti permetteva di soddisfare i bisogni primari, e di un’altra legata alla produttività e ai rapporti di forza tra salariati e datori di lavoro.

“L’imprinting formale […] è descrivibile in prima approssimazione come una partecipazione ai guadagni attesi di natura finanziaria […] A seconda dei casi si tratterà semplicemente dei fondi pensione, oppure di vere e proprie stock options o ancora semplicemente di forme di gestione del risparmio investito in Borsa la cui redditività dipende positivamente dalle ristrutturazioni aziendali volte a contenere i costi del lavoro. […] L’imprinting reale […] è funzione della produttività passata […]; ciò significa che quando nel passato la produttività è aumentata, allora può aumentare l’imprinting reale. Esso rappresenta per lo più un valore simbolico non monetizzabile nell’immediato, ma immaginabile come un’opportunità di guadagno futuro legato ad un particolare status al quale si aspira, oppure, nei casi peggiori, come una forma di protezione dall’esclusione.”

Il capitalismo si trasforma nella sua affannosa ricerca di guadagni immediati. I profitti son sempre più legati alla finanza e le sorti, anche delle aziende che producono beni materiali, dipendono spesso dall’andamento dei mercati azionari e delle borse. Il salario cessa quindi di essere quella forma semi-universale, comparabile e aggregante della classe lavoratrice perché: 1) la produzione è sempre più legata ad azioni e conoscenze create all’esterno del mercato del lavoro; 2) perché i guadagni aziendali (e quindi gli stipendi) dipendono in maniera crescente dalle operazioni svolte sui mercati finanziari.

“Negli anni cupi della crisi globale che ha investito il capitalismo contemporaneo, il valore simbolico della retribuzione domina l’immagine marxiana del salario: si va diradando la forza espressiva del gruppo di lavoratori che, pur svolgendo mansioni diverse, ritrovano la loro compattezza nella conoscenza comune del rapporto salariale e nella lotta che essi possono esercitare a partire dalle rivendicazioni salariali.”

La classe lavoratrice ne esce a pezzi. Le condizioni di lavoro hanno cessato di essere universali per diventare piccoli vasi non comunicanti. Con aspettative, frustrazioni e mansioni difficili anche solo da spiegare. Attività fugaci e immateriali, con poche tutele e compensi non comparabili. La disgregazione è avvenuta perché sarebbe “esploso” quel collante universale che è stato il salario. Dal dipendere in maniera gerarchica dal capitale siamo piombati in un mondo più interessante, dove il lavoro è da inventare e il successo a portata di mano. Ma quindi, lo subiamo o lo agiamo il capitalismo?

Gli autori, ed è il merito principale dell’opera, danno un nome a questa condizione individuale di spaesamento, alle sottili logiche dello sfruttamento collettivo: imprinting. Il termine, traducibile con “imprimere” o “impronta”, introdotto da Konrad Lorenz in etologia, di solito utilizzato nella letteratura psicanalitica, indica quel processo con il quale il bambino o il cucciolo apprendono dall’interazione con gli adulti, dove l’osservazione e la relazione strutturano comportamenti, conoscenze e personalità.

“Il concetto di imprinting serve proprio a far luce su quei casi in cui lo sfruttamento viene a determinarsi senza passare per l’istituzione salario, quindi per il mercato del lavoro. Ed è in questi casi che le condizioni oggettive della produzione espresse dalla cooperazione sociale, fuori dai luoghi tradizionali della produzione, sono potenzialmente sfruttabili dal capitale.”

Impressi e compressi, certo, ma almeno con ampia libertà di scelta.

“Ecco dunque la doppia ingiunzione dell’imperativo categorico del capitalismo contemporaneo: (1) sii ciò che vuoi, agisci la tua autonomia, purché (2) la risultante della tua azione sia traducibile nell’assiomatica del capitale e nelle sue metriche convenzionali in continuo mutamento.”  

Puoi essere quel che desideri, stravagante quanto vuoi purché la tua azione rimanga sempre nel solco e riproduca le logiche della produzione, affermano Chicchi, Leonardi e Lucarelli. Il mercato è ovunque, i desideri sono stati colonizzati e anche lo spazio dei sogni è terra di conquista. Ma viviamo nel più libero dei mondi possibili, interessante, frenetico e in rapido mutamento.

Il termine imprinting parla, da una parte, di come ci sentiamo compressi e stimolati dal capitale che ci vuole sempre all’opera; dall’altro dei tentativi, spesso riusciti, di far soldi con la natura e le fondamenta della vita e della società.

“Per comprendere come il capitalismo, soprattutto dopo il tramonto della società salariale, organizza la sua riproduzione sociale dobbiamo oggi fare necessariamente riferimento a un’altra logica dello sfruttamento che si organizza, in seno alla soggettività e per lo più al di là del rapporto di lavoro salariale, a partire dalla sua capacità di produrre, e quindi governare, il desiderio, in modo tale che quest’ultimo possa trovare libera e apparente realizzazione nel consumo/godimento della merce e all’interno di un campo predefinito (anche se mai una volta per tutte) di possibilità di azione.”

Dove finisce l’amore, sfuma in un’istante di soddisfazione? Controllando il desiderio, strutturandolo, che resta? Se il sogno è vincere contro tutti, siamo tutti persi? La finanza permea di sé il reale con le sue logiche, le sue meccaniche, il suo essere ubiqua e sfuggente. E imprime l’animo, costretto alla rassegnazione di fronte a un mostro tanto grande e pervasivo. Siamo tutti imprenditori di noi stessi.

“Rientrano nel campo del capitale umano qualità generalmente considerate come esterne al processo economico, quali competenze linguistiche, capacità relazionali, propensioni affettive, attitudine alla cura, ecc. Tali qualità divengono pensabili in quanto capitale solo nel momento in cui la razionalità economica letteralmente colonizza tutte le sfere del sociale. Solo allora, infatti, sarà possibile istituire il parallelo tra investimenti in capitale umano (formazione) dell’individuo-impresa e investimenti in capitale fisso (macchinari) delle aziende propriamente intese.”

Ecco l’uomo diventato un capitale da mettere a frutto, per il quale un lavoro semi-gratuito è un investimento sul proprio rendimento atteso e lo status di quasi-dipendente aziendale è sopportato con la promessa di un impiego futuro. Le possibilità sono infinite, ma siamo all’assurdo visto che:

“l’emergere di un imprinting reale che spinge ad accettare la prospettiva di una relazione salariale diversa, perché in fin dei conti più gratificante, almeno nelle attese di chi lo agisce, si traduce materialmente nella impossibilità di ottenere una remunerazione pari al salario di sussistenza.”

Il capitalismo spettacolarizzato di oggi affascina, ma quanta frustrazione lascia in chi è ai suoi margini. La disoccupazione è un baratro nel quale si tradisce quel tacito accordo che ci vuole tutti produttivi, sempre.

Expo 2015 è l’evento dove, secondo Emanuele Leonardi, si manifesta la logica dell’imprinting. E dove il rapporto salariale è esploso con tutta la sua forza:

“la fiera che si è da poco conclusa ha valore paradigmatico, rappresenta cioè il destino che attende milioni di lavoratori. […] ciò che il laboratorio Expo 2015 ha testato sul corpo vivo della società è il lavoro gratuito come condizione normale dell’attività produttiva.”

L’accordo tra Expo spa e sindacati del luglio 2013, afferma Leonardi, è emblematico perché si è deciso l’impiego di lavoratori volontari.

“la società salariale poteva funzionare solo a patto di mantenere l’alterità irrinunciabile tra chi sul mercato vende la propria forza lavoro (in cambio, per l’appunto, di un salario) e chi invece l’acquista (cioè lo anticipa, quel salario). È la differenza di natura tra lavoratori e imprenditori. Ci pare che il paradigma del lavoro gratuito si regga su presupposti molto diversi e implichi dunque una forma di sfruttamento altrettanto diversa. Qui il salario non funge da pagamento di una subalternità (declinabile in moltissimi modi, però una), bensì da investimento sul proprio capitale umano, su se stessi in quanto imprese. I lavoratori non esistono più: ci sono tutt’al più imprenditori che ancora si trovano incastrati nelle rigidità del lavoro salariato. Insomma: la retorica della employability (“occupabilità”) come forma contemporanea del pieno impiego.”

Se siamo capitale da valorizzare, la competizione ci appartiene e non c’è rischio che i disoccupati si organizzino perché per ogni offerta di lavoro si concorre tra mille. La meritocrazia, a ben guardare, rende soli e impotenti.

“Insomma: il conflitto tra capitale e lavoro […] si scompone nella retorica di individui equivalenti in regime di concorrenza pluralistico. È su questo sfondo che possiamo cominciare a comprendere cosa spinge una persona a ‘lavorare per nulla’, per usare l’efficace espressione di Andrew Ross. […] Ciò che vediamo all’opera è un soggetto segnato dalla doppia ingiunzione dell’imprinting: qui entrano in gioco tanto la promessa di un impiego a venire (Bascetta) che la necessità di conquistarsi uno spazio di visibilità per non essere esclusi dai network che contano, cioè working for exposure (Ross), lavorare in cambio di una remunerazione puramente simbolica.”

All’imprinting gli autori ci sono arrivati partendo dal concetto di sussunzione di Marx. La fabbrica aveva grande impatto sulla società e i ruoli erano ben definiti, strutturati e gerarchici. C’era un dentro e un fuori, il lavoro e il tempo libero.

“Abbiamo ritenuto indispensabile leggere lo sfruttamento a partire dalle istanze e dalle categorie che il pensiero marxista ha posto in essere nel mostrare l’inganno che la società di mercato organizza nei confronti della soggettività non proprietaria, senza, però, rinunciare a toccare i limiti metodologici, che questa prospettiva porta con sé, nel momento in cui il paradigma del capitalismo neoliberale segna una discontinuità qualitativa (e non di grado) rispetto ai precedenti paradigmi dell’accumulazione. In tal senso la prospettiva marxista non può essere a nostro avviso mai abbandonata perché questa stessa è lo strumento indispensabile per svelare come il rapporto capitalistico sia costitutivamente fondato sull’iscrizione sociale dello sfruttamento.”

Prestare ancora fede a Marx, si sa, è opinabile. Il mondo attuale sembra parlare un’altra lingua. Nella forma, gli autori utilizzano un linguaggio non accessibile a un pubblico vasto. La tradizione dalla quale il libro nasce rende probabilmente necessario l’uso di un lessico filosofico specialistico. Che però rischia di allontanare anche il lettore bendisposto.

I figli delle classi lavoratrici, con pochi studi e una situazione obiettivamente complicata, alle prese con lavori svilenti e spesso palesemente inutili, nutrono una grande diffidenza verso gli intellettuali e i tecnici specializzati del capitalismo cognitivo. Si scrive tanto di economia della conoscenza e troppo poco di chi da quei processi è escluso. Si è creato un pericoloso solco culturale e politico che, in un mondo in decomposizione, può ricostituire strane alleanze tra classi, come in un passato col quale speravamo di non dover più fare i conti.

Ascoltare le generazioni perdute è un antidoto all’ulteriore frammentazione dei nostri destini, abbiamo bisogno di dialogo e la semplicità del discorso aiuta. Logiche dello sfruttamento è un’opera complicata, ma mi ha dato le parole per capire che la competizione tra individui fa sentire molto soli.

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