Gaza. Palestina. Mondo.
Sono passati due anni di genocidio dal 7 Ottobre e 77 dall’inizio dell’occupazione della Palestina storica. Un accordo di “pace” è stato firmato. Il popolo palestinese festeggia il cessate il fuoco: la sua resistenza ne ha affermato la vita.
Tuttavia, il piano di “pace” ha condizioni che nessuna persona accetterebbe mai, senza essere sotto ricatto: o il piano di Trump o la soluzione finale. Dobbiamo mantenere alta l’attenzione: gli Stati Uniti non nascondono il loro piano colonialista per trasformare Gaza in una riviera nordamericana.
Non a caso ripropongono lo schema della distruzione, da loro chiamata ricostruzione, già vista in Iraq.
Negli ultimi giorni “Israele”, nel dubbio di avere il tempo contato, aveva intensificato i raid sulla striscia e in Cisgiordania, a Gaza City sono rimaste circa 100.000 persone.
Il cosiddetto “piano di pace”, del resto, non offre alcuna prospettiva di autodeterminazione: non parla della Cisgiordania, non considera l’unità del popolo palestinese, e introduce una forma di protettorato che non sarebbe stata legittima neppure nel 1948. Servirà lottare per una Palestina libera, dal fiume fino al mare.
Il piano trumpiano è la continuazione dell’assedio con altri mezzi, la formalizzazione della frammentazione del popolo palestinese e l’annullamento della possibilità di decidere del proprio futuro.
Le colonie, nel frattempo, continuano ad espandersi: non sono anomalie ma un’estensione organica dello Stato israeliano, parte di una strategia consolidata di colonialismo che da decenni ha due obiettivi centrali, lo sfollamento dei palestinesi e la loro sostituzione etnica.
Questo processo si è alimentato attraverso il settore privato, che ha tratto profitto dalla distruzione e dalla ricostruzione: dalle armi ai macchinari per demolire edifici, dai servizi di sorveglianza al cemento per costruire nuove colonie, fino alle strade, alle reti infrastrutturali.
A sostenere questo circuito sono banche, fondi pensione e università, tutti ingranaggi di una macchina che ha normalizzato l’occupazione e l’ha resa economicamente redditizia.
La ricostruzione è, nelle stesse parole dei ministri sionisti, “un ghiotto affare di real estate”. La violenza non è un’eccezione: è la norma su cui si regge l’occupazione. Gli arresti e le aggressioni agli attivisti della Flotilla sono la punta dell’iceberg di una brutalità quotidiana inflitta ai corpi e alle vite palestinesi nelle carceri e fuori, da ormai decenni.
I governi occidentali, Italia compresa, continuano a coadiuvare l’assedio: invece di garantire protezione consolare ai propri cittadini e sostenere la Flottilla, esercitano pressioni perché desistano; invece di chiedere conto dei crimini di guerra, mantengono accordi commerciali, transiti di merci e perfino di armi verso Israele.
Il Governo Meloni, da ormai due anni, lavora per la prosecuzione della Guerra, contro la pace: nel 2023 ha venduto armi a Israele per 6 miliardi di euro, e in seguito consegnato a Israele 154mln di tasse dei contribuenti, portando lo stato sionista a essere il 2 fornitore di armi per l’Italia. Queste sono prove che la complicità istituzionale resta parte integrante di un sistema, che permette al genocidio di proseguire nell’impunità più assoluta.
La resistenza Palestinese, intanto, non demorde e insegna al mondo cosa significa lottare per la vita: chi continua a combattere in armi, chi pesca con le reti approfittando della distrazione della marina israeliana alle prese con la Flotilla, chi continua a fare giornalismo, filmando e documentando, chi cura i feriti con quello che può, chi lotta per sè e i propri cari.
Italia. Europa. Mondo.
“Sapevamo che la flotilla sarebbe stata fermata. Ma è importante sapere che si muove qualcosa, al di fuori di noi”, ci dicono lx nostrx compagnx nel campo profughi di Deisha, a Betlemme.
Dopo oltre due anni di manifestazioni, di iniziative solidali, di campagne di informazione, la resistenza palestinese ha fatto saltare il coperchio dalla pentola a pressione, che opprimeva il mondo. La Global Sumud Flotilla ha rappresentato il più grande tentativo mai visto di rompere l’assedio. Prima e dopo, le ondate di barche si susseguono nel Mediterraneo. Le onde, lo sanno tutti, presto o tardi erodono anche la più solida delle scogliere.
A terra, una moltitudine si sta ribellando in tutto il mondo.
In Italia, non avevamo mai visto nulla di simile. 1 milione di persone in piazza a Roma.
Oltre 2 milioni di persone pronte a bloccare tutto in ogni città d’Italia.
I numeri riflettono un cambio netto nella postura di un corpo sociale che nella solidarietà alla Palestina si è trasformato in corpo collettivo moltitudinario: insieme dobbiamo fermarli.
Di eccezionale non ci sono solo i numeri. Eccezionale è la determinazione.
Bloccare tutto non è solo uno slogan è una necessità.
C’è chi lo ha fatto sottraendo il proprio corpo alla produzione, scioperando e incrociando le braccia.
C’è chi lo ha fatto mettendo in gioco il proprio corpo insieme all3 altr3, perché ogni goccia è importante per fare un oceano.
C’è chi lo ha fatto boicottando e sanzionando McDonald, Starbucks, Carrefour, Leonardo Spa e ogni altro ingranaggio del genocidio qui ed ora.
C’è chi lo ha fatto bloccando una tangenziale, una stazione, un aereoporto.
C’è chi lo ha fatto assediando Centrale, conquistando metri di strada, non arretrando di un passo, rischiando e subendo identificazioni, fermi, arresti e denunce.
Un fatto però è strano. A voglia a cercare con il lanternino quello sciur che ha detto “eh però la violenza no”. A voglia a cercare con il lanternino quel noto sindacalista che invita a “isolare i violenti”. In queste piazze, la pluralità delle pratiche è stata il riflesso dell’eterogenità della composizione.
E questo sì che fa paura.
Non è un caso che il governo Meloni e la polizia di Piantedosi cerchino di spaccare le piazze. La profilazione razziale insita nelle tecnologie in uso per il riconoscimento facciale di chi manifesta, collegate ai database degli uffici immigrazione d’Europa, come il software Sari, lo provano. Certi giornalisti al guinzaglio del potere, si sono affrettati a importunare l3 ragazz3 di Corvetto lo esplicitano chiaramente: hanno di nuovo bisogno di creare il capro espiatorio, ma stavolta, tutto questo non funziona, nelle piazze eravamo in tant3, i nostri occhi hanno visto e non si faranno confondore dalla narrazione dei media mainstream.
Ci sentiamo di dirlo, con amarezza in bocca: dopo l’assassinio di Ramy, la milano solidale non ha saputo dare un messaggio davvero forte e di cuore contro i razzisti, di strada e di poltrona, ma soprattutto non l’ha saputa dare a quelle migliaia di giovan3, non bianch3, costrett3 nelle periferie di questa città. Il fallimento del Referendum sulla cittadinanza, con particolare riferimento al gap tra chi ha votato “si” ai questiti sul lavoro e “no” a quello sulla cittadinanza, è stato un altro schiaffo in faccia. Il sangue ci si era gelato quando in una scuola lo scorso anno sono comparse scritte come “a morte gli a***i”.
Ecco. In quella stessa scuola, in questi giorni, al picchetto “blocchiamo tutto”, tutt3 l3 student3 cantavano cori per la Palestina in arabo. Quell3 migliaia di giovan3 arab3 e non bianch3, italian3 o meno, hanno altrettante migliaia di persone disposte a scendere in piazza perché le vite palestinesi valgono esattamente quanto le loro. Ma quel che più conta, è che un’intera generazione è scesa in piazza insieme, per la stessa causa: figli3 della stessa rabbia.
Insieme.
E questo sì che fa paura.
Inoltre, queste generazioni eterogenee, si sono trovat3 in piazza e pare proprio che non abbiano nessuna voglia di tornare a casa, ognun* nella propria cameretta per cui paga un affitto lapidario da 700 euro in media, che dissangua e costringe ad accettare un lavoro probabilmente sottopagato e sfruttato, ancor più realisticamente poco appagante, che lascia giusto il tempo di spendere gli ultimi risparmi su un tapis rulant di una palestra. Da sol3.
Il 22 settembre, nonostante (o forse proprio per) i caroselli, i lacrimogeni e le cariche in centrale, migliaia di persone sono rimaste sedute, a resistere, a cantare, a ballare fino a notte fonda. Il 3 ottobre, migliaia di persone hanno mantenuto il blocco di piazzale Loreto e hanno conquistato un corteo fino a Palestro, ballando sotto gli idranti fino a mezzanotte.
Generazioni intere ora sanno che sì, si può fare.
Insieme.
E questo sì che fa paura.
Questo, qualche volta, lo avevamo visto.
Qualch3 compagn3, di qualche anno più di noi, ci racconta che nel 77 il movimento era ampio, complesso e variegato, teneva insieme il movimento femminista, i gruppi creativi ed irriverenti, i lavoratori. Il costo della vita aumentava, i salari rimanevano fissi, il tasso di disoccupazione era uno dei più alti d’Europa e c’era stato il blocco della scala mobile. Ogni sabato, in quegli anni, c’era un corteo enorme, si chiamavano sabati di fuoco, perché in quegli anni le piazze erano decisamente calde, da tutti i punti di vista.
A fine aprile, nel ’77, con un’ordinanza firmata dal prefetto di Roma erano state vietate tutte le manifestazioni. L’ordinanza copriva in tutto 55 giorni. Una misura che non aveva precedenti nella storia italiana dal dopoguerra. L’ordinanza non fu mai rispettata, però, sia perché le manifestazioni del sabato erano un evento politico in senso stretto, ma anche un modo di essere parte di quella generazione, un modo di vivere, di incontrarsi e mantenere vive le relazioni, di uscire dal senso di soffocamento e di vivere un momento di liberazione collettiva. Le manifestazioni andavano avanti fino a sera tardi, nonostante la durezza della polizia di Cossiga.
Sì, forse qualcuno lo avrà visto altre volte. Ma questa volta ha una particolarità: è ora.
Bloccare tutto per bloccare un genocidio.
Provincializzare l’Europa e imparare dalla Resistenza Palestinese.
Liberare la Palestina per liberare il mondo.
Il momento è adesso.
Per una pace degna, fatta di giustizia e di libertà.
Istruiamoci.
Agitiamoci.
Organizziamoci.
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