E’ uscito recentemente per la collana Culture Radicali di Meltemi Editore il libro di Marco Reggio “Cospirazione Animale. Tra azione diretta e intersezionalità” (2022, pp. 210). Ne proponiamo una recensione a cura di Niccolò Bertuzzi e Alice Dal Gobbo.
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Recensire il libro di un amico, oltre che di un attivista e teorico di cui si ha stima, non è mai cosa semplice. Si rischia di apparire eccessivamente complici e si ha il timore che il giudizio positivo sia influenzato dalla condivisione di alcuni percorsi teorici e traiettorie biografiche. È un rischio dunque di cui è giusto informare anche lə lettorə di queste pagine. Marco Reggio infatti è – ci pare di poterlo dire senza rischiare l’iperbole – un punto di riferimento per il mondo antispecista italiano, sia come attivista diretto sia come teorico estremamente raffinato. Da questo contesto nasce “Cospirazione animale”, che la casa editrice Meltemi ha recentemente pubblicato nella sua collana Culture Radicali, curata dal gruppo di ricerca Ippolita. In linea con altri testi della collana, la riflessione teorica si accompagna alla tensione militante: si tratta di una sorta di diario per episodi, campagne, mo(vi)menti che hanno coinvolto il protagonista. Cinque macrocapitoli (o meglio: “derive”, come indicato nel libro) che partono da episodi concreti per andare l’oltre l’elemento autobiografico e analizzare contraddizioni, dibattiti, problemi e soluzioni elaborate negli anni dalla (variegata) galassia antispecista. Attraverso un livello narrativo molto efficace e di piacevole lettura, si introducono nuclei tematici centrali per il dibattito interno all’antispecismo, ma estremamente utili anche agli altri movimenti di liberazione, quei movimenti con cui – è un tema centrale e ricorrente in tutto il libro – l’antispecismo si trova tuttora molto spesso in posizione di subordinazione e conflitto.
Forse proprio per questa collocazione che apertamente fa da ponte tra esperienza di attivismo e tensione teorica, Reggio limita volontariamente (rivendicandola come prassi) il numero delle citazioni e dei riferimenti bibliografici, cercando quanto più di utilizzare le versioni tradotte in italiano dei libri citati. Si tratta a nostro parere di un valore aggiunto ma anche di una metafora dell’approccio dell’autore, un esercizio anticoloniale e un tentativo di descolarizzare e decolonizzare l’accademia e la riflessione teorica. È un invito che probabilmente andrebbe colto da moltə teoricə e anche dai movimenti. Sicuramente vale per l’antispecismo, un’area – lo dice anche l’autore – che ha visto nascere in anni recenti un profluvio di teorie, spesso estremamente elaborate: ciò è chiaramente un elemento positivo (soprattutto perché molte di queste teorie sono caratterizzate da un approccio intersezionale) ma si scontra con due criticità, una formale e una sostanziale. Quella formale risiede appunto in un certo citazionismo e persino autocompiacimento, che rischia di rafforzare il carattere “tribale” dell’antispecismo. Quella sostanziale è che questo profluvio di elaborazioni teoriche non ha avuto una corrispettiva traduzione in pratiche, azioni dirette, iniziative di movimento di ampia portata, tranne che in poche eccezioni. Questa impostazione rende la lettura estremamente appetibile sia per chi è più navigatə nel mondo antispecista, sia per chi verso di esso ha un generico interesse, magari condito da dubbi e perplessità. Presentiamo allora di seguito un breve riassunto del libro, per soffermarci soprattutto sull’ultimo capitolo, che ci pare forse il più interessante per lə lettorə di Effimera, concentrandosi sul complesso, ambivalente, eppure potenzialmente fruttuoso, rapporto fra antispecismo ed ecologia (politica).
La prima deriva parte dal tragico episodio che vide protagonista Agitu Ideo Gudeta, donna etiope fuggita dal proprio paese in quanto perseguitata politica, protagonista di una storia di emancipazione rara e positiva se guardata con lenti decoloniali e di genere (per quanto spesso descritta in modo paternalista anche in ambito progressista), ma problematica inserendo la variabile di specie, essendo la storia di Agitu legata all’attività di imprenditrice in un allevamento di capre da lei fondato in Trentino, con cui produceva formaggi (dal nome “La Capra Felice”). Come noto, Agitu venne stuprata e uccisa da un individuo clandestino di origine africana, il che portò a una rappresentazione esemplare non solo della figura della vittima ma anche di quella del carnefice, all’interno di registri discorsivi evidentemente razzializzanti. Il caso di Agitu si intreccia nel capitolo con un’altra vicenda che ha interessato il Trentino in anni recenti, quella della detenzione di alcuni orsi presso il Casteller. Attorno a questo luogo, e in particolare alla fuga dell’orso denominato M49, è sorta quella che è stata probabilmente la principale campagna di area antispecista degli ultimi anni in Italia, caratterizzata da azioni dirette ed esplicitamente conflittuali. Il femminicidio di Agitu avvenne a fine 2020, nel pieno della mobilitazione di Assemblea Antispecista contro la recinzione del Casteller e le politiche della giunta leghista che guida la Provincia Autonoma di Trento. Una mobilitazione vissuta con “straniamento” da moltə attivistə e osservatorə, poiché vedeva convergere due movimenti storicamente piuttosto lontani. Però salutata come momento realmente produttivo non solo di alleanze ma anche di narrazioni e discorsi che sapessero andare oltre la mera sommatoria di istanze che erano rimaste separate, verso una teorizzazione (e una pratica) più articolata dell’antispecismo e delle lotte anticapitaliste e per la giustizia ambientale/climatica. La concomitanza dei due eventi ha provocato numerose lacerazioni sia all’interno di Assemblea Antispecista e di chi con quella mobilitazione “simpatizzava”, sia fra lə attivistə antispecistə e il “mondo fuori”. Un’incomunicabilità tipica di tante situazioni simili, ma che l’efferatezza del femminicidio e la concomitante mobilitazione radicale contro le istituzioni e le politiche “di destra” della giunta leghista rese estremamente evidente. Reggio offre una ricostruzione molto accorata e convincente di questi dibattiti inter e intra-movimenti, sottolineando contraddizioni e resistenze fra i vari soggetti coinvolti, senza ridurre questa complessità a poco utili dicotomie bianco/nero, giusto/sbagliato. Allo stesso tempo, l’autore individua anche importanti traiettorie di convergenza che la vicenda di Agitu e quella di M49 potrebbero comportare come quando scrive che “il land grabbing è un fenomeno le cui ricadute sono mortifere non solo per i popoli colonizzati ma anche per i non umani che nelle foreste trovano il proprio habitat” (pag. 34): un’osservazione che introduce al più ampio tema dei possibili “intrecci” tra antispecismo ed ecologia politica. Il capitolo alterna a questi episodi drammatici e/o conflittuali anche racconti di attivismo più espressivo e simbolico, per quanto altrettanto significativi (soprattutto per lə ecologistə politicə!), ancora riflettendo sul conflitto fra sostenitorə degli allevamenti etici e antispecistə, per lə qualə, ovviamente, il concetto di allevamento etico rappresenta un ossimoro. Merita ad esempio di esser citato l’episodio che vide coinvolti lo stesso Reggio (insieme ad altrə attivistə), il fondatore di Slow Food Carlo Petrini e la nota attivista e studiosa di origine indiana Vandana Shiva, in occasione di un evento organizzato proprio da Slow Food, durante il quale venne organizzata un’irruzione di attivistə travestitə da maiali per denunciare l’ipocrisia della retorica dell’allevamento sostenibile e del riduzionismo carneo. A partire dal suo posizionamento (intendendo proprio il fatto che Reggio era l’attivista, mascherato, coricato ai piedi di Vandana Shiva durante il blitz), l’autore si interroga sulle linee problematiche che si incrociavano durante quell’episodio: da una parte un approccio caratterizzato da greenwashing, dall’altro il dubbio su come Vandana Shiva possa aver interpretato quell’irruzione di attivistə occidentali che “volevano insegnare qualcosa sul cibo” a lei, simbolo delle lotte contadine nel sud del mondo.
Ancor più emblematico della natura contraddittoria dell’antispecismo (“negativamente” interpretabile come sua alienazione rispetto alle altre lotte di liberazione, “positivamente” come sua peculiarità di indisciplina, rottura, radicalità, ancor più di altre lotte) è il caso da cui parte la seconda deriva. La contraddizione si gioca intorno a un altro tema “classico” riguardante i diritti animali, e cioè l’antivivisezionismo, a partire dall’episodio di una bambina di nove anni affetta da sindrome di Rett, una malattia genetica rara. Proprio nel mentre di una contestazione contro l’Università dell’Insubria dovuta a un cospicuo finanziamento elargito dal comune di Busto Arsizio per la costruzione di un laboratorio di sperimentazione animale negli edifici dell’ateneo, la madre della bambina in questione rivendicò il diritto della figlia alle cure, e all’utilizzo di animali per i test di laboratorio, facendo lei “irruzione” in questo caso. Reggio guarda di nuovo alle posizioni degli attori umani coinvolti (Università, istituzioni, famiglie, attivistə) e agli espedienti retorici ed emozionali messi in campo per screditare le mobilitazioni antispeciste. Si interroga così non solo sullo statuto dei non umani come cavie o comunque come elemento funzionale alla ricerca e alla salute umana, ma soprattutto sui rapporti fra specismo e abilismo, e sul fondamentale contributo che i disability studies hanno fornito a diverse lotte di liberazione. Inoltre, tema di evidente attualità nella congiuntura (post)pandemica, il capitolo introduce il rapporto fra attivistə antispecistə e medicina. Da una parte una visione macchiettistica del tipo “i vegani non prendono l’aspirina”; dall’altra la rilevanza (per quanto antropocentrica) di stili di vita integrativi, se non apertamente alternativi, all’ipermedicalizzazione del corpo tipica dell’occidente contemporaneo e della medicina allopatica. Chiunque abbia una minima familiarità con i dibattiti militanti, sa che le fratture intorno a temi come vaccinazione, “cure precoci”, distanziamento sociale, protocolli di vigile attesa e simili hanno provocato profonde lacerazioni fra i movimenti, e di certo l’antispecismo non è stato da meno. In questo senso, merita di essere segnalata la riflessione di Reggio sulla tendenza della società medicalizzata e dell’ipertecnologia a voler sconfiggere la morte, con la promessa di scoperte che possono semplicemente eliminare in un colpo e con un artificio tecnico un dolore o anche i “danni” della vecchiaia; ma più in profondità si gioca la partita del rapporto con la vita, la volontà di trascendere la morte, il desiderio umano (anzi, molto occidentale) di essere arbitro della natura a tal punto da volerne sconfiggere il ciclo naturale.
Il terzo capitolo, forse quello di più ostica lettura per la complessità dei rimandi, è tuttavia anch’esso pregevole per l’abilità di intrecciare i vari assi di discriminazione che vengono esaminati. Il “casus belli” in questo caso è il romanzo di Indra Sinha, che racconta la vicenda di un umano, non a caso chiamato Animal: il nome del protagonista corrisponde alla traduzione italiana del volume. Il titolo originale, invece, è più efficacemente “Animal’s People”, a testimoniare la fondamentale importanza della dimensione comunitaria, a fianco degli assi di discriminazione legati a abilità, classe, razza e specie. Come fa notare Reggio, tuttavia, è peculiare che né l’autore del libro né i commentatori dello stesso abbiano prestato effettiva attenzione a quest’ultima dimensione che è invece centrale nel processo di esclusione cui è sottoposto Animal, giovane uomo deturpato fisicamente dal disastro della Union Carbide, industria produttrice di fitofarmaci, avvenuto nel 1984 nella città indiana di Bhopal, che provocò migliaia di morti, avvelenati e individui variamente danneggiati. Il capitolo è ricco di riflessioni stimolanti, anche in chiave di ecologia politica, raccontando la storia di un ragazzo disabile vittima di una strage del capitalismo antiecologico, ponendosi dunque all’intersezione di colonialismo, devastazione ambientale e abilismo. Si introduce qui un tema, che sarà poi preso in considerazione nell’ultima deriva, circa l’interconnessione tra salute umana ed ecosistemica, tra danno ambientale e danno sui corpi.
La quarta deriva consiste in un capitolo, forse il più bello e assolutamente pregnante, su un tema che sta diventando un “classico” in area antispecista, e di cui probabilmente Marco Reggio è la figura chiave a livello italiano. Ci riferiamo alla “resistenza animale”, ossia – banalizzando – i casi di quegli animali che fuggono alle situazioni di cattività e sfruttamento in cui vivono all’interno delle strutture sociali tipiche del capitalismo contemporaneo. Il capitolo riprende una serie di episodi emblematici avvenuti in anni più o meno recenti, alcuni diventati abbastanza noti in area antispecista, come quelli di Scilla, vitello scappato durante il trasporto in Sicilia, o Camilla, mucca scappata da una fattoria in Toscana. Questi episodi sono l’occasione per ridiscutere l’assunto del “parlare per altrə”, tipico di certa retorica animalista, basata su un approccio esclusivamente emozionale, spettacolarizzante e spesso paternalistico. La prospettiva di Reggio, invece, è quella di una “co-spirazione”, di un respirare insieme e al contempo resistere insieme, cercando di aggirare il paternalismo animalista ma senza fuggire le peculiarità dell’attivismo per la liberazione animale. In questa discussione emerge la necessità di ripensare le agentività animali, sottolineando come umani e non umani siano accomunati da forme di espressione e azione che esulano dal paradigma moderno-capitalista della parola e della razionalità, e che tuttavia esprimono la vividezza del desiderio e della volontà di autonomia. Emerge – anche se non forse esplicitamente – il tema della soggettività come luogo chiave per tessere alleanze tra animali umani e diversi dall’umano: soggettività non padronale, non dominante, r-esistente. Non a caso questi episodi sono anche lo spunto per importanti riflessioni sui meccanismi di soggettivazione e assoggettamento di foucaltiana tradizione (Foucault è sicuramente uno degli autori più “saccheggiati” dalle teorie antispeciste contemporanee), in cui oppressione e agentività convivono spesso in un’unica situazione. Come ricorda Reggio, d’altra parte, la questione dell’agentività e la riflessione sulla resistenza animale può offrire chiavi di lettura importanti anche ai “gruppi più marginalizzati, come lə bambinə, le persone disabilizzate o razzializzate” (pag. 139). Alla stessa stregua le modalità di oppressione e stigma, sia quelle più visibili sia quelle più edulcorate, che riguardano i non umani, hanno molto a che vedere con dinamiche simili che interessano gli umani. Un altro spunto importante che emerge proprio in queste pagine riguarda l’intreccio tra storia dell’allevamento e resistenza animale: con “sapore” operaista (ma anche esplicito rimando), si nota come l’evoluzione della zootecnia sia di fatto una storia di risposta alla resistenza animale da parte delle tecniche e tecnologie umane. Nonostante Reggio si concentri più sulla lettura foucaultiana dei processi di soggettivazione, sarebbe interessante approfondirne la lettura anche in quest’ottica e nel senso di un dialogo con altri movimenti, primo tra tutti quello operaio stesso. D’altronde, i critical animal studies hanno sottolineato, ricorda Reggio citando Jason Hribal, che “i corpi e il lavoro degli animali hanno costituito la materia necessaria per l’espansione capitalista e industriale, per l’accumulazione originaria” (pag. 124). In un’ottica di critica sistemica allora si introduce la riflessione sul “dispositivo della grazia”, che l’autore definisce “provvedimento eccezionale e individuale, fondato su un atto di generosità del potere” (pag. 144). Mamoudou Gassama, immigrato clandestino del Mali in Francia, salvò un bambino appeso al balcone del quarto piano di un edificio parigino, ottenendo così il diritto di cittadinanza da parte di Emmanuel Macron; Ramy e Adam sventarono il dirottamento di un bus a San Donato Milanese, e per la loro regolarizzazione si spese l’allora ministro dell’interno Matteo Salvini; Molly, piccolo vitello nero, fuggì dal mattatoio a New York nel 2009, e la polizia dichiarò: “pensiamo sempre che una volta che sono fuggiti, si sono guadagnati il diritto di essere liberi”. In tutti questi casi il riconoscimento (diritto alla cittadinanza, alla vita) coincide con atti di eroismo. Per umani e non umani, l’eccezionalità della grazia riafferma la normalità delle altre situazioni: la fuga (nel caso dei non umani), l’eroismo (nel caso degli umani) si rivelano davvero l’eccezione che conferma la regola, riaffermando le linee esistenti di esclusione e dominio.
Il quinto capitolo tematizza in modo esplicito il rapporto (spesso problematico e conflittuale) fra antispecismo ed “ecologia politica”, anche se l’autore sembra piuttosto fare riferimento a diverse correnti di ambientalismo, ecologismo ed ecologia politica, ripercorrendo anche una storia di questa travagliata relazione, con alcuni momenti di avvicinamento (è classico il riferimento alla deep ecology) e altri di allontanamento, come quello attuale, che l’autore definisce quasi di strappo ed abbandono, nonostante – per molti versi – gli elementi di convergenza non siano mai stati così evidenti e potenzialmente presenti. Inizialmente, e proprio sulla scorta della travagliata relazione tra ecologia e antispecismo, il capitolo ribadisce alcune distinzioni classiche, come quella fra ambientalisti e animalisti o quella fra argomenti diretti e indiretti contro lo sfruttamento animale. Ciò aiuta a mettere in luce i nodi problematici che distinguono approcci come quello (attribuito all’ecologia politica) che guarda agli effetti ecosistemici delle azioni umane, rispetto a quello animalista che invece attribuisce valore intrinseco alle singole vite animali. L’autore prende le distanze dagli argomenti indiretti che supportano l’abolizione del dominio sugli animali sulla base, per esempio, dei loro effetti negativi sulla salute umana o sull’ambiente, svelandone il carattere antropocentrico e strumentale. Tuttavia, come giustamente Reggio stesso sottolinea (p.169), vi è qui una potenziale convergenza prospettica per cominciare a tematizzare l’interconnessione tra violenza sugli animali non umani e violenza sulla biosfera; similmente, si potrebbe aggiungere, gli effetti negativi dell’alimentazione carnea sulla salute umana portano a tematizzare come tutti i corpi – umani e non-umani – sono di fatto investiti dalla nocività del dominio capitalista sulla vita. Ecco allora che si apre una finestra – forse non del tutto esplorata nel libro – per un’analisi sistemica del modo in cui la vita nel suo complesso viene violentemente investita dai processi di valorizzazione capitalista.
Sicuramente, come il capitolo suggerisce, questo ambito di dialogo e convergenza non si è ancora sviluppato concretamente, dato che – come emerge in controluce in tutto il testo – il movimento antispecista continua a trovare difficoltà nelle alleanze con gli altri movimenti sociali, persino con quello che dovrebbe essere per diverse ragioni il più vicino: quello dell’ecologia politica e della giustizia ambientale e climatica. Vi sono per esempio forme di lotta e protesta poco note nei circoli ecologisti ma estremamente rilevanti nella loro radicalità, come i Veggie Pride, importati anche in Italia. Reggio è assolutamente perentorio su questo, con affermazioni quali “spesso chi si batte per la giustizia climatica invisibilizza proprio lo sfruttamento animale e la sua centralità nella crisi ecologica” (pag. 171), oppure “senza l’antispecismo, nessuna genealogia può aspirare ad essere davvero radicale. Senza, ogni critica è un esercizio fine a sé stesso; ogni progetto di sovversione del modello colonialista di sfruttamento del pianeta non è che l’ennesima forma di inconsapevole greenwashing” (frase contenuta nell’ultima pagina del libro). Per questo l’autore offre critiche sia alle retoriche antispeciste, sia a quelle ecologiste, anche a partire da casi emblematici di attiviste vegane, il cui veganismo è spesso – anche da loro stesse – silenziato o almeno momentaneamente accantonato. I nomi sono quelli di Greta Thunberg, Carola Rakete e Angela Davis, per diverse ragioni simboli di lotte progressiste, vegane e antispeciste, aspetto che è parte fondante del loro approccio all’attivismo politico, ma che solitamente viene derubricato a scelta personale – se non disprezzato e sminuito. Alla luce di queste evidenti dissonanze cognitive e militanti, e ribadendo l’ovvio dei danni provocati dalla zootecnia rispetto al cambiamento climatico ma anche rispetto alla pandemia, Reggio puntualizza come il veganismo di Thunberg, Rakete e Davis vada letto “non solo in nome di un moto di compassione, ma proprio in quanto attiviste per la giustizia ambientale” (pag. 173).
In questa quinta deriva, c’è spazio infine per la demistificazione di alcuni topos contro l’antispecismo, che tuttavia non ci è chiarissimo perché dovrebbe essere rilevante nel contesto di una riflessione sul rapporto tra ecologia politica e antispecismo. Un tema spesso usato in chiave anti-antispecista è quello del presunto vegetarismo e della zoofilia di Adolf Hitler. Oltre a criticare la “reductio ad hitlerum” spesso adottata nei confronti degli individui vegan (e, non per coincidenza, riproposta anche in tempi di pandemia verso i critici della governance pandemica), in quanto basata su presupposti epistemologici errati (Reggio cita il noto esempio di Singer: “Hitler aveva il naso, dunque dovremmo tagliarci il naso”), l’autore pone la questione anche su un piano di decostruzione di miti diffusi. Ricorda in particolare come il mito ascetico e puro di un Hitler vegetariano sia stato costruito da Goebbels, precisando che “Hitler non era vegetariano: aveva ridotto la carne per motivi di salute, ma adorava salsicce, fegatini, piccioni e selvaggina. Amava i propri cani in modo a dir poco ambiguo…Quanto alle leggi per i diritti animali, quando salì al potere nel 1933, bandì tutte le associazioni vegetariane, ne arrestò i dirigenti e chiuse le principali riviste sull’argomento pubblicate a Francoforte” (pag 181). La precisazione non è fine a sé stessa e funzionale a decostruire un “falso storico”, ma ha una chiara valenza politica, ribadita dall’autore a fine libro: “è inutile sminuire l’importanza della questione animale con giochi di prestigio come il cane di Hitler o l’agentività delle piante: occorre farci i conti” (pag. 199). Se non possiamo che essere d’accordo con questa affermazione, tuttavia, rigettare tutte le prospettive che cercano di tematizzare le forme diverse di espressività e agentività delle piante semplicemente perché sono state talvolta utilizzate contro gli argomenti vegani, pare semplificare di molto un dibattito che negli ultimi anni ha provato a tematizzare modi di co-esistere sulla terra più sensibili alla potenza del vivente anche nelle sue forme radicalmente altre. Sicuramente, l’esempio del facile supporto della nota pensatrice Donna Haraway agli allevamenti dove si produce “carne felice” è indice delle derive che alcune di queste prospettive “neomaterialiste” possono prendere. Tuttavia, sarebbe il caso di notare che queste sono già state criticate proprio dall’interno dell’ecologia politica per il fatto di dimenticare e/o oscurare relazioni strutturali di dominio e potere, legate a processi di valorizzazione e forme di lavoro capitalisti, patriarcali, coloniali[1].
Ciò che pare mancare in questo capitolo è allora un faccia a faccia più profondo con le voci e le correnti che oggi cercano di tematizzare l’ecologia politica come spazio di intersezione tra ecologia, decolonialità, femminismo e anticapitalismo, poiché spesso si pongono la questione della specie come integrale alla costituzione di quella “matrice di potere” che caratterizza la modernità capitalista. Eppure, come spiega lo stesso Reggio parlando dell’esperienza di Val Plumwood, il dibattito è estremamente vivace, soprattutto nell’ecofemminismo, dove la presa di coscienza del nesso Donna/Natura/Animale è stata una base forte per rivendicare esplicitamente il vegetarismo, e come forma di lotta antipatriarcale, decoloniale e antispecista che però non può non fare i conti con il tema del capitalismo e di come esso strutturi le relazioni (di specie) presenti. L’autore accenna alle potenzialità di un “incontro” tra ecologia politica e antispecismo dentro una problematizzazione anticapitalista, ma è bene sottolinearlo: si tratta forse di uno degli spazi più fruttuosi entro cui tematizzare un dialogo e una “cospirazione” tra questi movimenti, a partire – come si accennava prima – dal modo in cui le dinamiche violente di produzione ed estrazione di valore tipiche delle relazioni socio-ecologiche capitaliste investono umani, non-umani, biosfera. Se lo specismo non è di certo un fenomeno esclusivamente legato alle società capitaliste, esso vi trova un’articolazione specifica e particolarmente violenta – da analizzare e contrastare. Da questa prospettiva, antispecismo ed ecologia politica si trovano insieme ad osservare le modalità in cui la vita, le vite, sono messe-a-lavoro e sacrificate al profitto. Ridotte a mera risorsa, cosa, quantità da utilizzare e scambiare… tutte le vite e le loro forme di espressione, così come la vita nel suo complesso, vengono svalorizzate e scartate se non funzionali[2]. Sia le istanze animaliste/antispeciste sia quelle dell’ecologia politica sottolineano la necessità del rispetto del vivente a prescindere da qualsiasi imperativo strumentale o di “sostenibilità”. Gli “argomenti indiretti” in favore dell’abolizione dello sfruttamento degli animali non umani, così come quelli pietistici del “dare voce a chi non ce l’ha” sono pericolosi per questo: antropocentrici e strumentali, tendono a riprodurre le logiche del dominio invece che romperle, rendendo forse più difficile una presa in carico affettiva e cognitiva della realtà della violenza sugli animali non umani.
In linea con le intuizioni dell’ecologia politica, parlare di giustizia ambientale e inter-specie chiama in causa proprio questi dispositivi che alienano la soggettività umana rispetto al resto del vivente. Si tratta allora di decostruire proprio le premesse di questa presa di distanza. E ciò non è possibile senza considerare – come d’altronde l’autore fa attraverso tutto il testo – i dispositivi moderno-capitalisti che ne sono alla base. Un tema rilevante in questo contesto è quello della decolonizzazione. Nel campo nell’ecologia politica, decolonizzare le categorie di pensiero e pratica sta diventando un nodo centrale. Non si tratta semplicemente di criticare il permanere di relazioni (neo)coloniali tra “centro” e “periferia”: piuttosto, di superare quel dispositivo che nasce dalla colonia ma che caratterizza poi le società moderno-capitaliste nel loro complesso – la creazione di dicotomie gerarchiche e l’utilizzo del confine come strumento di alterizzazione. Allora, antispecismo ed ecologia politica si trovano insieme nella critica di ciò che Stefania Barca chiamerebbe la Narrazione Padronale: l’eccezionalismo umano come strumento dell’uomo bianco abile e proprietario per inferiorizzare e sfruttare tutto ciò che è altro da sé[3].
Nella soggettività minore, non egemonica, dunque, un luogo di cospirazione. “Respirare insieme”, riconoscendo continuità con le altre forme di vita ed espressione, pur nella loro radicale diversità. Luogo in cui riconoscersi altrə-da-sé, alleatə di soggetti altrettanto minori, radicalmente inadattə alla macchina produttiva (e distruttiva) della tanto decantata “economia”. A-umanə, lontanə da questo paradigma violento, assieme a tutte le soggettività minori che sono state relegate al di fuori del confine della normalità e quindi dominate: lə folli, lə non-e-meno-che-umanə, lə razzializzatə e disabilizzatə, femminilizzate, non eteronormatə… A partire da questo margine produttivo di autonomia, saperi non-padronali e non-dominativi, pratiche di cura radicale è possibile cominciare ad articolare alternative alla violenza del sistema socio-ecologico presente. Lo suggerisce uno dei passaggi più significativi del libro, che richiama proprio la follia come carattere del movimento antispecista, tanto come modus operandi quanto come attribuzione da parte del mondo benpensante. Reggio la rivendica, con orgoglio, proprio come deriva creatrice, straniante, di rottura rispetto ad una “normalità” violenta:
[Una] follia molto concreta, che conosciamo bene per averla vista manifestarsi in modo anche violento, inarrestabile, tutte le volte che qualcunə ha scavalcato un muro di cinta per liberare degli animali prigionieri ignorando nella maniera più radicale possibile le conseguenze legali; tutte le volte che qualcunə si è accollato cani, gatti o altri animali abbandonati, malati o portatori di innumerevoli problemi di gestione in qualche inadatto monolocale rovinandosi la vita perché non poteva accettare di lasciarne indietro nessuno; ma anche quando siamo scesə in piazza con un megafono per urlare al vento la tragedia dell’olocausto animale con parole evidentemente fuori dall’ordine di qualsiasi discorso di lotta, disperatamente grottesche, incomprensibili anche all’attivista del gruppo più marginalizzato che si possa immaginare. Tutte scelte, o meglio impulsi, criticabili, e che abbiamo spesso criticato invocando una razionalità militante in grado di preservare la comunità dalla valanga emotiva di una situazione insostenibile. Ma, al netto delle considerazioni strategiche, questo mondo della sragione, palpabile, è sempre stato in qualche modo accettato come una realtà con cui fare i conti. È sempre stato ammesso come desiderio legittimo, è sempre stato autorizzato a manifestarsi