Da un punto di vista storico è corretto sostenere che la fame o più genericamente le sofferenze materiali non sono mai state levatrici di rivoluzioni, neppure di trasformazioni sostanziali o di mutamenti radicali. In assenza dei mezzi per provvedere al proprio sostentamento poca attenzione si finisce per prestare al contesto generale, a struttura e sovrastruttura, oppure alle condizioni in cui versano gli altri, intorno. Le sommosse per il pane dell’Ancien régime sono state certamente un potente indicatore di conflittualità sociale, tuttavia il significato politico di tali azioni è spesso subordinato a quello scenico, comunque condizionato dalla rivendicazione delle briciole, di un piccolo spazio di sopravvivenza, senza grandi orizzonti. Detto questo in termini molto stringati e banali, sarà anche necessario specificare che, pur nel grave e progressivo accrescersi delle diseguaglianze, non è possibile paragonare la nera miseria che ha attanagliato anche questo Paese fino al secondo Dopoguerra con l’odierna condizione della maggior parte della popolazione occidentale, ambito dal quale parliamo. Di tali cornici credo valga la pena di tenere conto, senza troppo farci condizionare da visioni eccessivamente miserevoli che sottostanno a logiche assistenziali che non ci appartengono.
È completamente vero che all’interno degli ambiti teorici e politici di movimento sembra crescere l’attenzione per quella che Antonio Alia, in un ottimo articolo pubblicato su Commonware, ha definito “politica del bisogno”: si intende con essa un insieme di “pratiche sociali che si pongono prima di tutto, se non esclusivamente, il problema del soddisfacimento di un bisogno (la salute, la liquidità, una buona alimentazione, ecc.) che il mercato o lo stato non riescono a garantire”. Da qui l’evocazione, non sempre politica, non sempre radicale, fino ad ora mai collegata, di “un composito ed eterogeneo arcipelago di pratiche di cooperazione sociale, autogestione e mutualismo che alludono alla riappropriazione di attività di produzione, riproduzione e distribuzione: dalla sanità, all’educazione, dall’agricoltura alla produzione industriale fino alla gestione della moneta”.
Questa tendenza mette in luce due ordini di questioni.
La prima è connessa alla considerazione che sta guadagnando, in termini sempre più ampi, il tema della riproduzione sociale. Il piano della riproduzione è il contesto dove si è aggiornata la dinamica dello sfruttamento contemporaneo fondato sull’appropriazione di beni naturali, facoltà umane (del pensiero, del linguaggio e del corpo) e cooperazione sociale, dando rilievo al carattere sociale, relazionale e cognitivo della produzione del presente – pur non esaustiva della totalità delle dinamiche produttive contemporanee. Le analisi femministe sulla riproduzione sono fondamentali per rimarcare la necessità di collocare la sfera della riproduzione all’interno dei processi produttivi.
Suggestivo, a questo proposito, un testo di Paola Tabet, tratto dal saggio Fertilité naturelle, reproduction forcée (1995) (qui la traduzione italiana di Vincenza Perilli, Lo sfruttamento della riproduzione), che coglie il corpo femminile durante lo sforzo della gravidanza e poi dell’allattamento proprio come fosse una vera e propria macchina che lavora, sintetizzando nuovi tessuti, con relativo dispendio di energia (lavoro):
“Nella riproduzione, l’oggetto del lavoro non fa parte di un mondo fisico distinto ed esterno al lavoratore ma fa parte del suo corpo stesso. Il processo che si svolge all’interno del corpo materno con materiali metabolizzati da esso ha come oggetto l’embrione, il quale compie il suo programma genetico per mezzo del lavoro dell’organismo materno
Nuovi elementi, mi permetto di ricordare, sono stati immessi, più di recente, dalle teorie sul capitalismo biocognitivo, ma Tabet nota assai bene la singolare assonanza tra il lavoro riproduttivo, biologico, del corpo materno che viene preso a modello, e il “lavoro intellettuale” dove, egualmente, gli strumenti di lavoro non sono esterni al lavoratore/lavoratrice ma ne sono parte integrante: tutto avviene all’interno del corpo-mente, “le idee si pensano da sole”, con il cervello come unico strumento. In questi contesti, l’idea di lavoro non risponde pienamente agli assiomi marxiani poiché non può essere intesa come un processo che si svolge “tra l’uomo e la natura” (vista la sua internità ai corpi-mente), né è “dotato di intenzionalità”, dal momento che si compie senza un preciso coinvolgimento della volontà.
D’altro lato, aggiungo, il concetto di forza-lavoro che considera anche il valore d’uso[1] (dunque la capacità di soddisfare i bisogni umani) può aiutarci a cogliere, nella precarietà esistenziale del lavoro cognitivo, lo scardinamento del fattore tempo che traduce il lavoro in tutti gli interstizi temporali della vita e con ciò favorisce, altrettanto significativamente, una dinamica di “appropriazione delle persone riproduttrici”:
“Il proprietario della forza-lavoro la vende sempre e soltanto per un tempo determinato; poiché se la vende in blocco, una volta per tutte, vende se stesso, si trasforma da libero in schiavo, da possessore di merce in merce”[2].
Seguendo tali letture, mi interessa sottolineare come il lavoro di ri-produzione, pienamente ricompreso dal capitalismo bio-relazionale, si confronti con processi di alienazione inediti. Charis Thompson fa notare che “nel modello industriale di produzione capitalista, i lavoratori rischiano di essere alienati dal loro lavoro. Nella modalità biomedica di riproduzione le/i pazienti rischiano di essere alienati dalle loro parti del corpo”[3]. In un certo senso, in modo simile, possono essere interpretati sintomi psico-sociali come depressione e burn-out, tra i lavoratori della conoscenza. Secondo una ricerca molto interessante condotta in Francia da Marc Guyon tra un gruppo di ricercatori nelle materie scientifiche del Cnrs, la tensione incalzante della competizione, la stretta ossessiva dei criteri di valutazione e l’obbligo a dover intercettare fonti di finanziamento per la propria ricerca, altro non sono che tecnologie governamentali atte a far fallire il desiderio di riconoscimento di tali lavoratori, evidenziando la profonda dissociazione esistente tra la realtà della valutazione (imposta come oggettiva) e le motivazioni (soggettive, creative, passionali) che stanno dietro l’impegno professionale: “Come nel supplizio di Sisifo tale desiderio non viene mai veramente realizzato ma si amplifica, prodotto dalla sofferenza”[4]. Eternare questo desiderio significa generare un individualismo strategico dilagante.
Pur consapevole delle differenze, mi pare che la prima ricomposizione del lavoro a cui dobbiamo puntare debba passare da qui, dalla ricomposizione tra mente e corpo visto lo scopo uniforme del sistema: lo sfruttamento integrale della persona. L’interrogarsi di Antonio Alia ci conduce sulla strada giusta che per me significa recuperare a pieno il significato del valore d’uso, basato sui bisogni umani.
Esseri umani e macchine
Più vistosamente e drammaticamente che in passato, insomma, i mezzi di produzione siamo noi medesimi a scapito del “nostro” tempo di vita, cioè una delle caratteristiche del nuovo capitalismo è la perdita di importanza del capitale fisso (la fabbrica, i macchinari) mentre ne acquisisce “il corpo della forza-lavoro”. Gli aspetti classici, storici, del lavoro riproduttivo, introdotti dalla critica femminista e poco considerati dall’analisi marxista che si è tutta centrata sul lavoro produttivo – come notavo prima – restano fondanti ma vanno anche obbligatoriamente aggiornati, tenendo conto dei “nuovi sistemi tecnologici e sperimentali nei quali siamo immersi”[5]. Tutto va perciò inquadrato nelle estensioni cognitivo-corporee, sempre precarie, assunte dalla specificità del lavoro femminilizzato contemporaneo, che si allarga e dilata fino ai terreni, più complessi da cogliere, dell’innovazione bioeconomica (medicina rigenerativa; medicina riproduttiva). Muovendoci all’interno di questi nuovi paradigmi, notiamo anche di non essere più di fronte alle forme classiche della divisione del lavoro cui ci ha abituato il passato, sia che noi si parli di divisione sessuale del lavoro che di divisione smithiana per mansioni: prevale, in questo tempo, una nuova forma di segmentazione collegata alla disponibilità, ai saperi e soprattutto alla reputation che ciascuno e ciascuna è capace di costruirsi, mettendo a frutto il proprio individualismo strategico.
In questo senso, il tema delle forme di riappropriazione e auto-organizzazione della capacità ri-produttiva umana (competenze, talenti, saperi, evidentemente mai disconnessi da energia emotiva e dimensione corporea), nonché quello della liberazione del tempo del lavoro vivo contemporaneo colonizzato dal capitale e del sovvertimento delle paradossali forme di alienazione da sé imposte dalla bioeconomia, assumono rilevanza e attualità, diventano politicamente centrali. Occorrerà, in ogni caso, evitare l’idealizzazione di comunità rurali o indigene, non affidarsi a pratiche comunitarie nostalgiche, pre-capitaliste e circoscritte, né puntare su esercizi di esodo che possono finire per risultare marginali, autarchici, quando non corporativi.
Ho già introdotto, insomma, la seconda riflessione: mi sembra quanto mai necessario avviare una discussione politica sulle possibilità di rendere effettiva e reale l’autonomia del lavoro vivo, al di fuori di qualsiasi subalternità materiale (ricatto del bisogno), culturale e sociale (necessità di riconoscimento per scalare i gradini del merito). Quali sono le pratiche politiche che abbiamo bisogno di realizzare per riuscire a individuare quanto meno le premesse di tale trasformazione? Non è rilevante immaginare e testare, rimanendo, laicamente, consapevoli del loro carattere euristico, ambiti sperimentali in grado di promuovere la rottura dei meccanismi di cattura delle soggettività? Il malessere può imboccare la strada della trasformazione solo se si prende atto che lo Stato e l’attività di impresa svolgono sempre meno una qualche funzione socialmente utile. Rispetto alla speranza che l’innovazione sociale del capitale (è questo il vero core business della contemporaneità) possa migliorare la nostra condizione, non è forse più salutare favorire una ri-appropriazione delle “persone riproduttrici stesse”, interrogandoci seriamente su quali contesti ri-produttivi potremmo sostenere, innescando circuiti per favorirne la sostenibilità? “Scatenare” il lavoro cognitivo oggi vuole dire anche renderlo cosciente delle imposizioni auto-normative e performative che si infligge e che sono sottese all’introiezione/accettazione dell’essere la nuova macchina del capitale. Un complesso dispositivo che si presenta come pungolo a subire forme aggiornate di taylorizzazione del lavoro, implicite nella organizzazione capitalistica contemporanea, ottenute attraverso l’auto-disciplinamento. Nella ricerca che citavo sopra, Guyon definisce il ricercatore come “un imprenditore ‘ipercapitalista’, indaffarato come è a sviluppare la sua ricerca, aumentando le sue reti e impegnandosi continuamente a reinvestire i propri crediti”. Si tratta di dare forma a processi alternativi, coordinati e integrati, altamente capaci di essere attrattivi: quali lavori siamo capaci di sostenere, quali potenzialità possiamo mettere in azione, quali forme di auto-valorizzazione, inconoscibili al capitale, possiamo produrre, innescando, con ciò, un processo progressivo di “declassamento volontario, espressione di un rifiuto dell’alienazione del lavoro cognitivo e della logica del divenire imprenditori di se stessi”? Quali esempi già esistono – se esistono -, da quali modelli possiamo farci ispirare?
Convengo con Salvatore Cominu, che ci invita a notare ancora la subalternità eterodiretta della gran parte del lavoro cognitivo. Penso che per talune fasce di lavoratori con più scarse competenze e conoscenze globali, in linea con l’arretratezza del capitalismo cognitivo italiano, vadano notate la mancanza di alternative e la paura di restare senza reddito. Se facciamo riferimento ai settori di lavoro cognitivo a più alta autonomia e a più massiccia precarietà, l’autore stesso nota come sia proprio la “perifericità di coalizioni alternative stabili” a “rafforzare i dispositivi impressivi e l’incentivo ad agire conformemente alle ingiunzioni negative (vincoli) e positive (incentivi) che ne orientano l’azione in termini funzionali alla riproduzione del sistema”.
In tutti i casi, la domanda relativa a come attuare la rottura della dipendenza accettata dell’autorità va affrontata. Ad essa bisogna rispondere soprattutto, innanzitutto, per cercare di dare soluzione politica agli attuali punti di blocco della soggettività: aprire lo spazio sufficiente per favorire processi di soggettivazione in proprio. Questo è il problema principale, al momento. Tracciare lineamenti di autorganizzazione, cooperazione, mutualismo che vanno intesi perciò, in primis, come attività trasformatrici (anche intermedie) in grado di sviluppare al tempo stesso attività e relazioni, e di combattere, sul suo stesso terreno, il mito del riconoscimento neoliberista, indicato illusoriamente come occasione di libertà soggettiva. È necessario provare a intervenire sui processi di soggettivazione grazie alla creazione di attività creative autonome, utili a sviluppare una capacità attrattiva che punti sulla valorizzazione di competenze fintamente evocate ma viceversa completamente frustrate (alienate) dalle compagini neoliberali. Diversamente, la situazione è nota: da un lato il ricatto del reddito (la pancia vuota), dall’altro l’obbedienza, una sorta di vassallaggio psicologico, di interiorizzazione della situazione esistente che costringe a desiderare lo sguardo benevolente del potere (il “riconoscimento”), nutrendosi nel frattempo di parole su ciò che verrà (l’economia della promessa). Tutto ciò favorisce l’emergere di soggetti che si pensano autosufficienti e che non contrastano ma viceversa rilanciano l’ordine vigente, vale a dire l’imperativo del lavoro perenne in povertà e competizione.
I legami sociali rappresentano invece, precisamente, la posta in gioco della costruzione di una teoria politica del comune a cui stiamo pensando, a cui dobbiamo meglio pensare,
“la loro salute diviene l’obiettivo di una sperimentazione etica di tale teoria […] L’ipotesi di forme di “condivisione”, alternativa alla logica del capitale ma anche a manifestazioni del potere asfitiche e autoreferenziali che guastano la militanza e corrompono il comune, può farsi prassi materiale, capace di produrre concatenamenti immaginifici in tutta la loro dirompenza, qualificandone la portata politica. Purché, innanzitutto, si decida di marcare, senza ingenuità, una distanza nei linguaggi e nelle modalità da quella sorta di darwinismo sociale sul quale si fonda il biopotere”[6].
Finanziare il comune
Mi rendo conto di essermi mantenuta, fino a qui, dentro un piano un po’ astratto. Concretamente, credo che i circuiti finanziari alternativi possano aiutarci ad articolare un piano. “La moneta del comune”, scrive Andrea Fumagalli, “non viene creata per essere spesa ma per remunerare e finanziare la produzione di valore d’uso, sia essa all’interno di circuiti culturali o di esperienze di auto-organizzazione e autogestione produttiva. Da qui è necessario partire”[7].
Se oggi siamo almeno parzialmente nelle condizioni di rispondere al problema della proprietà dei mezzi di produzione, che appunto, tra corpi e idee, possediamo, possiamo anche ipotizzare nuove forme di finanziamento, come sostenuto, recentemente, da Carlo Vercellone. Si tratta, cioè, della possibilità di “usare il capitale contro se stesso” in modo da consentire d’organizzare la produzione “in modo autonomo rispetto al comando del capitale stesso”. Vercellone ci invita a “pensare la moneta del comune come una moneta non più endogena al solo capitale ma anche alla forza lavoro, una moneta che permetta cioè di rendere la sua riproduzione più indipendente dal ciclo di valorizzazione del capitale e quindi dalle decisioni dei capitalisti in termini di produzione e di livello dell’impiego”. Tale nuovo circuito finanziario del comune può erogare un social basic income e, con ciò, liberare tempo, rendendo sostenibile lo sviluppo di tutta una serie di attività produttive autonome che oggi “sono proprio ostacolate dall’assenza di tempo e di risorse di cui soffrono i precari del lavoro cognitivo impedendo loro un investimento più attivo nella logica non salariale e non mercantile dei commons”.
Ecco, insomma, alcune tracce. Vanno pensate meglio e soprattutto vanno rese concrete. Perché un movimento si produca ci vogliono nuove idee, ad animarlo. Quando scrivo nuove non intendo, ovviamente, “sorte dal nulla”, poiché siamo sempre all’interno di processi storici e di accumulazioni progressive del pensiero e delle pratiche. Intendo, coniugate nel nuovo dei bisogni, delle sfide e delle sensibilità. Capaci perciò di esaltare gli immaginari e di dare vita a una cultura delle qualità umane, relazionali, cognitive, nonché a una più ampia considerazione per l’interdipendenza che ci lega sempre, gli uni alle altre, base imprescindibile per costruire una società più vivibile.
NOTE
[1]K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1964, Libro I, pag. 200. È necessario notare che per Marx la forza-lavoro diventa “produttiva” solo quando si rapporta socialmente con il capitale, generando plus-valore.
[2] Ivi, pag. 202.
[3] C. Thompson, Making Parents. The Ontological Coreography of Reproductive Technologies, MIT Press, Cambridge, MA 2005, citato in M. Cooper e C. Waldby, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera, DeriveApprodi, Roma 2015, pag 135.
[4] M. Guyon, “Le travailler des scientifiques : contradictions de l’engagement de la subjectivité dans le travail”, Travailler, 2014/2, n° 32, pagg. 75-98.
[5]M. Cooper e C. Waldby, cit., pag. 147.
[6] C. Morini e P. Vignola, “Introduzione” in C. Morini, P. Vignola (a cura di) Piccola enciclopedia precaria. Dai Quaderni di San Precario, Agenzia X Edizioni, Milano 2015, pag. 20.
[7]A. Fumagalli, “Moneta del comune e mercati finanziari” in A. Fumagalli, E. Braga (a cura di) La moneta del comune. La sfida dell’istituzione finanziaria del comune, Alfabeta2-DeriveApprodi, Roma 2015, pag. 55.
Articolo pubblicato su Commonware.
Immagine in apertura: “Untitled” (Your body is a battleground), Barbara Kruger, 1989.