Io nelle scosse/Delle sommosse/Tenni per ancora/D’ogni burrasca/Da dieci a dodici/Coccarde in tasca – Giuseppe Giusti (Versi, Bastia, 1845, p. 77).

Si avvia, pur con qualche sussulto, verso la naturale scadenza questa XVII legislatura, iniziata con la seduta di venerdì 15 marzo 2013, dopo le elezioni tenute nei giorni 24-25 febbraio. Le due Camere sono state elette applicando una legge elettorale giudicata dalla Consulta contraria ai principi costituzionali; eppure deputati e senatori si sono ben guardati dal rassegnare le dimissioni e neppure hanno ritenuto di procedere a scioglimento anticipato.

In questi cinque anni tre governi hanno trasformato un tradizionale ordinamento statale fondato sui principi, liberali e democratici, delle democrazie europee in una pericolosa struttura autoritaria, con sempre più evidenti connotazioni di prepotente dispotismo. Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni rappresentavano un partito minoritario, ma hanno poi costruito la maggioranza necessaria per il voto di fiducia arruolando esponenti avversari che senza esitazione si erano affrettati a tradire ogni precedente impegno e la parola data ai loro elettori. La sinistra radicale si è mostrata estremista solo nel mendicare un qualche accesso all’area di potere; il voto alla lista SEL, decisivo per far scattare il premio (anticostituzionale) di seggi (illegittimamente) conseguito dalla coalizione a guida PD, ha prodotto la nomina di Gennaro Migliore e degli altri sostenitori delle larghe intese con la destra di Alfano e Verdini.  Tutti insieme (destra e sinistra) hanno approvato la più vasta operazione di macelleria sociale dell’intero secondo dopoguerra. Renzi ha congiurato contro Letta e lo ha sostituito, senza modificare di una virgola la linea di totale resa alle direttive segrete della BCE; a sua volta, dopo la bruciante sconfitta referendaria, ha dovuto subire l’avvento di Gentiloni, consapevoli entrambi di vivere dentro una lunga teoria di trame e di complotti nel palazzo. Questa è gente totalmente priva di scrupoli e non lo nasconde.

Raccontano gli studiosi di antropologia come in certi paesi l’abitudine abbia reso gli esseri umani capaci di sopportare il fuoco. Qui in Italia è riuscita ad incallirci verso cose che i compagni temevano più del fuoco. Si detestavano la servitù e la mancanza di dignità, ancora di più per la loro incompatibilità con la fratellanza e la solidarietà. Oggi ci siamo dentro fino al collo e non ce ne accorgiamo nemmeno.

L’opzione autoritaria è penetrata a fondo in ogni segmento di vita quotidiana sociale, regola i rapporti contrattuali di lavoro, determina il progressivo isolamento dell’opposizione antagonista, dirige l’economia finanziarizzata producendo, secondo una programmata consapevolezza, disuguaglianza e controllo sull’intera esistenza, messa a valore per estrarre ricchezza. Le elezioni del 2018 si terranno all’insegna dell’ormai compiuto processo costituente e della modifica intervenuta nella costituzione materiale, nonostante l’esito del referendum. Non sono tollerate interferenze.

Il 5 luglio 2015 il popolo greco aveva respinto il ricatto della BCE, con il 61,31% dei voti. Tuttavia  il clamoroso OKI  fu vanificato, BCE e FMI imposero le loro condizioni, con la forza e con il terrore economico. Fra pochi giorni si terranno strane elezioni in Catalogna, con alcuni candidati in galera e altri in esilio. Mariano Rajoy Brey, primo ministro, si è guardato bene dal dichiarare che accetterà il verdetto delle urne; e questo significa che certamente non accetterà un risultato sgradito. Alcuni dissidenti hanno preannunziato posizioni aventiniane senza peraltro provocare alcuna reazione delle forze in campo. Si discute molto sulla natura di questa rivendicazione d’indipendenza, non riconducibile alle sostanze e non spiegabile neppure con gli accidenti. Pablo Iglesias e Ada Colau, filosofi neoaristotelici, non comprendono dunque se la nascita di una repubblica catalana sia cosa di destra o di sinistra  e su questi fondamenti evitano di prendere precauzioni, preparando la propria sconfitta, comunque vada. Si comportano come Don Ferrante al tempo della peste: soccombono prendendosela con le stelle.

In Francia Macron ha raso al suolo con un sol colpo la CGT, il partito socialista e la coalizione di Melenchon; ma la lezione non è risultata sufficiente. Basta vedere la leggiadria con la quale Martin Schulz si appresta ora a distruggere, dopo 150 anni, quel che resta di SPD, consegnandosi ad Angela Merkel, a prescindere dal risultato elettorale; cade così l’opposizione socialdemocratica, sopravvive ora in Germania solo il dissenso dei razzisti. L’opzione autoritaria non si limita al controllo del governo, esige anche l’asservimento dell’opposizione, emarginando qualsiasi elemento di disturbo antagonista. La storica formula del ricambio nella gestione dell’apparato statale si fondava sul reciproco riconoscimento all’interno del cosiddetto arco costituzionale con poche esclusioni. L’odierna struttura di una finanza priva di confini nazionali certi e caratterizzata dalla rapidissima mobilità esige, per sua natura, il controllo dell’esistenza dei soggetti, ovunque si trovino, costantemente piegati e sussunti dentro il processo di valorizzazione. Le medesime ragioni che ci inducono a porre come centrale per il movimento antagonista la questione del reddito incondizionato di esistenza in vita sono alla base del processo costituente autoritario perseguito dal capitale finanziarizzato. I soggetti debbono essere precari, destabilizzati, atomizzati, senza risorse certe, sempre pronti e disponibili per il loro uso dentro una cooperazione sociale costantemente espropriata. Le prossime elezioni italiane sono costruite con questo preciso scopo.

Le camere, elette con una legge dichiarata contraria alla Costituzione, hanno approvato, in chiusura, un ulteriore meccanismo che assicuri, quale che sia l’esito, la continuazione del cammino intrapreso per indicazione della BCE e del FMI. Poco importa se di nuovo la Corte Costituzionale dichiarerà illegittimo il sistema di voto; come nella passata legislatura tutti gli eletti rimarranno al loro posto. Il piano risulta chiarissimo; si tratta di impedire sia il formarsi di una vera alternativa di contrasto al neo-liberismo imperante sia un governo legato alla protesta popolare raccolta dal movimento a cinque stelle. Il partito democratico ha scelto senza manifestare dubbi: o larghe intese con Forza Italia o un governo di centro destra. Eugenio Scalari ha semplicemente confermato questa posizione dell’apparato di comando: Berlusconi meglio di Grillo (ma voleva dire anche: meglio Berlusconi meglio di Landini).

Dopo il disastroso risultato referendario Matteo Renzi ha evitato le elezioni anticipate, sperando di recuperare consenso durante il governo Gentiloni; ma questo intermezzo è servito invece a rinsaldare le file della destra. In questo ultimo anno si è consumata anche la scissione fra le due anime della comunque indebolita compagine di governo. Accettando ogni compromesso e approvando la manovra complessiva di smantellamento dello stato sociale l’intera sinistra ha perso ogni credibilità. Oggi non è in grado di raccogliere la protesta sociale; la decisione di affidare la guida della coalizione a un uomo d’ordine come Pietro Grasso è il segnale non equivoco di una vocazione minoritaria fondata sulla resa incondizionata e sull’abbandono definitivo di un programma antagonista (o almeno alternativo). Difficilmente sono magistrati e poliziotti a preparare i rivolgimenti politici, di solito hanno il compito di tutelare l’esistente.

Matteo Renzi  ha concordato e imposto un meccanismo ritenuto adeguato alle circostanze. Nessun ballottaggio, ad evitare sorprese; nessun voto disgiunto fra liste e candidati di coalizione. Controllo assoluto dei nominativi, nel maggioritario e nel proporzionale. La grande frammentazione dell’elettorato condanna questa sinistra, senza programma e senza principi, ad un ruolo ancora più marginale di quello a cui si era spontaneamente condannata, nel corso della passata legislatura.

La coerenza inossidabile dell’opposizione a Cinque Stelle consentirà probabilmente, ma non certamente, di rimanere il partito più votato pur se privo di un numero proporzionale di rappresentanti; e, possiamo starne certi, inizieranno le proposte allettanti di ingresso nella maggioranza, cui non tutti sapranno presumibilmente resistere. La destra viene, al momento, lasciata libera di arruolare nelle proprie formazioni ogni raggruppamento razzista, fascista, nazista, nella migliore delle ipotesi soltanto (si fa per dire) integralista o reazionario. In caso di piena vittoria politica della destra un alto numero di suffragi raccolti dagli squadristi potrebbe determinare conseguenze disastrose, oggi neppure del tutto prevedibili. Possiamo solo sperare che non accada.

Di fatto lo scenario, per nulla invitante, prevede tre sole possibili varianti: a) una fortissima articolazione del voto che impedisca la formazione di qualsiasi maggioranza, b) il prevalere della destra con un governo diretto da Forza Italia e l’opposizione morbida del Partito Democratico; c) un governo a due di Forza Italia e PD. Nel primo caso la maggioranza sarà costruita a tavolino, a prescindere direbbe Totò. Nel secondo caso la soluzione sarà quella di nominare un funzionario (generale o prefetto) cui delegare esercizi muscolari in danno di immigrati e poveracci in genere, e al tempo stesso assicurare piena libertà d’azione ai pirati del neoliberismo. Nel primo e nel terzo caso – quelli al momento ritenuti più probabili – il candidato con maggiori possibilità rimane Travicello Gentiloni, l’uomo che nessuno attacca e che non attacca nessuno.

L’uomo si caratterizza per il suo coerente pervicace silenzio; quando Trump ha comunicato la decisione di spostare l’ambasciata a Gerusalemme Gentiloni pare abbia staccato il cellulare, rimosso anche le pile e la scheda, al fine di non essere rintracciabile, evitando qualsivoglia presa di posizione. Partecipa alla campagna elettorale senza dire una sola parola, una corrente fantasma interna al partito democratico con appendici in tutte le altre formazioni. Favorevole alla legge chiamata jus soli evita accuratamente di consentire che arrivi in aula, muovendo rapidissimo il calendario dei lavori parlamentari come se si trattasse di un gioco delle tre carte. Si dice d’accordo sia con Pietro Grasso sia con Alfano, li ama e li rassicura entrambi. Si tiene lontano dalle polemiche, per non correre rischi evita pure le interviste, specie quelle televisive, considerate oggettivamente pericolose; si reca spesso a prendere ordini nelle sedi istituzionali europee ma quando può preferisce pernottare lontano, per esempio ad Abu Dhabi.

Travicello Gentiloni ama lasciarsi trasportare dalla corrente, quando sente arrivare la burrasca corre subito e per tempo al riparo, con le sue coccarde in tasca. È un eroe del nostro tempo, un simbolo.           

 

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