E’ uscito di recente per Ombre Corte il nuovo libro di Razmig Keucheyan I bisogni artificiali. Come uscire dal consumismo (2021, pp. 172), nella traduzione italiana di Gianfranco Morosato. Pubblichiamo un estratto dal capitolo settimo, in cui l’autore dedica delle riflessioni più esplicitamente politiche al tema della democrazie ecologica. Ringraziamo casa editrice e traduttore.
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Nessuno, in realtà, sa a cosa assomiglieranno i decenni a venire. La crisi ambientale si farà sicuramente più acuta, ma quanto? Assisteremo a un “crollo” delle società, come prevedono alcuni? La collassologia, o scienza del crollo, sostiene che la carenza di risorse naturali porterà, in tempi brevi, alla scomparsa della vita sociale così come noi la conosciamo e a una grave crisi delle moderne istituzioni politiche ed economiche: parlamenti, Stato di diritto, mercato, sistemi energetici, finanza…. Le democrazie rappresentative continueranno invece bene o male a funzionare?
Tutto dipende da come evolverà la crisi, dalla dimensione che potrà assumere. Se si trasforma in un crollo, non ci sarà più politica, ma solo sopravvivenza. Leggette un po’ di “fantascienza ecologista”, ad esempio la Trilogia climatica di Kim Stanley Robinson, e avrete un’idea di ciò che ci attende in questa eventualità.
Tutti i rapporti sul cambiamento climatico, a partire da quelli dell’ipcc, propongono diversi scenari di crisi più o meno gravi. La complessità dei parametri – naturali, ma anche politici e sociali – rende ardua qualunque previsione. La mia ipotesi? Nessun crollo a medio termine, ma una crescente accelerazione del ritmo della politica. I regimi democratici rappresentativi si sono caratterizzati, dalla fine della Seconda guerra mondiale, per la loro notevole stabilità. Nel xx secolo, le rivoluzioni non sono mai fatte contro le democrazie, ma sempre contro dei regimi autoritari. Questa stabilità delle democrazie è finita, e già oggi se ne vedono i segni.
Se la crisi produce un’accelerazione del ritmo della politica, ma senza crollo, allora potrebbe istituirsi una dialettica conflittuale tra gli enti governativi e una costellazione di collettivi politici “dal basso”, che potrebbe portare a situazioni di “dualismo dei poteri”.
È sicuramente sempre temerario formulare ricette per le “osterie dell’avvenire”, come ci avvertiva Marx nel Libro I del Capitale, ma, in queste condizioni, cercare di proiettarsi nel futuro, anche solo per scongiurare il peggio, diventa inevitabile. Per trovare una bussola nella crisi, non si ha altra scelta che combinare comparazioni storiche e immaginazione politica. Se le comparazioni storiche hanno i loro limiti, esse consentono comunque di ancorare l’immaginazione nella realtà. L’immaginazione politica mira invece a tracciare percorsi che possono portare a un futuro diverso dal disastro. Un abbozzo di futurologia critica è quanto si propongono di tracciare le pagine che seguono.
Scenari di transizione ecologica
Oggi disponiamo di accurati scenari di transizione ecologica. Essi indicano il modo in cui l’apparato produttivo dovrebbe evolvere per diventare sostenibile. Si tratta di strumenti di pianificazione economica nel lungo periodo.
Il più noto di questi scenari in Francia è il Manifesto negaWatt, scritto da ingegneri specializzati in questioni energetiche. Un negaWatt è una unità di energia risparmiata – “nega” sta per negativo. Grazie alle energie rinnovabili, all’isolamento termico degli edifici o all’accorciamento dei circuiti economici, secondo gli autori del Manifesto è possibile creare un sistema economico ecologicamente sostenibile a livello nazionale, e anche oltre. A tecnologia costante, le nostre società contengono importanti “giacimenti di negaWatts”. Una società “negaWatt” è una società della sobrietà, in cui le possibilità di consumo sono deliberatamente escluse perché considerate dannose. La sobrietà comporta una dimensione tecnica – l’isolamento di un edificio grazie a materiali innovativi, ad esempio – ma è anche un concetto politico, che mira a trasformare la vita quotidiana.
Lo scenario negaWatt, e altri dello stesso tipo, sono delle “tabelle di marcia”, che stabiliscono un orientamento alle possibili scelte di produzione e quindi una cornice per la definizione dei bisogni. L’obiettivo dello scenario negaWatt è di portare le emissioni di gas serra della Francia a un quarto di quelle attuali entro il 2050 e di ridurre drasticamente la dipendenza dagli idrocarburi e dal nucleare. Come ogni tabella di marcia, anche questa può evolvere (lo scenario è periodicamente aggiornato), a seconda, ad esempio, delle innovazioni tecnologiche difficilmente prevedibili oggi. Ma è nel quadro delimitato da essa che può avere luogo una deliberazione sui bisogni.
Gli scenari di transizione ecologica consentono quindi di connettere le scelte della produzione ai bisogni. Stabilire questo legame è indispensabile se si vuole evitare il “collasso” delle società nei prossimi decenni.
La questione dei bisogni appare anche nel Manifesto negaWatt. Nella loro riflessione, gli autori distinguono tra bisogni “vitali”, che bisognerà continuare a soddisfare durante la transizione ecologica, e bisogni “dannosi”, di cui ci si dovrà sbarazzare. Il primo gruppo si suddivide in bisogni che essi qualificano “essenziali”, “indispensabili”, “utili” e “appropriati”. Il secondo, in bisogni che giudicano “futili”, “stravaganti”, “inaccettabili”, “egoisti”. E aggiungono:
Un po’ come oggi classifichiamo gli elettrodomestici o le case secondo la “etichetta energetica” che va dalla A alla G, è possibile classificare tutti i nostri bisogni secondo una scala che va dai bisogni “vitali”, quelli di cui nessun essere umano può fare a meno, ai bisogni “dannosi”, quelli la cui soddisfazione ci procura un piacere spesso egoistico e irrisorio rispetto ai danni che producono direttamente o indirettamente sull’ambiente o sugli altri, oggi o domani.
Ma la riflessione si ferma qui. Non si sa nulla di più sulla definizione di queste due categorie di bisogni e sulla loro legittimità agli occhi del più gran numero di persone. Il consumo di energia di un elettrodomestico può essere misurato oggettivamente, quantificato, ma un bisogno? Si possono calcolare le calorie necessarie alla sopravvivenza di un organismo umano e anche i passi che si devono fare al giorno per rimanere in salute. Ma oltre a questo?
Ci sono bisogni chiaramente vitali – nutrirsi, ripararsi – e bisogni chiaramente dannosi, come illuminare tutta la notte una strada che nessuno frequenta o usare la propria auto per percorrere qualche centinaio di metri. Ma una volta enunciate queste evidenze, nascono subito delle divergenze su ciò che appartiene all’una e all’altra di queste categorie, divergenze che devono comunque essere risolte.
L’urgenza è di mettere in discussione i bisogni che dipendono da settori economici il cui impatto sull’ambiente è più elevato. Secondo l’ultimo rapporto ipcc, la ripartizione delle emissioni per settore si presenta così: il settore energetico rappresenta il 35% delle emissioni, l’agricoltura e la silvicoltura il 24%, l’industria il 21%, i trasporti il 14% e gli edifici il 6%. Ripartire l’economia in questo modo è forviante perché, ad esempio, energia e trasporti sono strettamente intrecciati. Comunque sia, la prima di queste cifre mostra che la lotta ai cambiamenti climatici è intrinsecamente legata alla questione energetica. È qui che dovrebbero essere rivolti i primi sforzi.
Il problema è come introdurre la politica – il conflitto e la democrazia – in scenari di transizione ecologica che, per lo più, rimangono “tecnocratici”. Che spesso siano elaborati da ingegneri non è probabilmente estraneo a questo.
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Municipalismo libertario e potere dei consigli
I movimenti dei consumatori delle origini – fine del XIX secolo e inizio del XX – non separavano le questioni del consumo da quelle della produzione. Un secolo dopo, la crisi ambientale rende urgente rilanciare questa strategia, la sola che consentirà di lottare efficacemente contro il produttivismo e il consumismo capitalisti, principali cause della crisi. Da qui l’idea di costruire una federazione di associazioni di produttori-consumatori, da parte dalle attuali associazioni dei consumatori, ma che convergeranno con i sindacati. Lo scopo di queste associazioni sarebbe quello di deliberare sui bisogni: cosa produrre per soddisfare quali bisogni? E di imporre ai capitalisti, attraverso il rapporto di forza, una struttura dei bisogni sostenibile e universalizzabile.
Bruno Latour ha ragione quando dice che la crisi ambientale ci impone di ripensare la sovranità moderna, di non affidarci più interamente agli Stati. In un’altra prospettiva, il pensatore anarchico Murray Bookchin sostiene che la transizione ecologica avverrà solo se la vita sociale sarà rilocalizzata a livello regionale o cittadino, “al di sotto” dunque del livello statale-nazionale.
Le associazioni di produttori-consumatori potrebbero organizzarsi sul modello del “municipalismo libertario” sviluppato da Bookchin negli anni Settanta. Per lui, l’emancipazione sarà urbana o non sarà. Solo che le attuali megalopoli non sono adatte alla politica rivoluzionaria:
New York o Londra non avrebbero i mezzi per riunirsi in assemblea se volessero imitare l’antica Atene, con il suo corpo relativamente piccolo di cittadini. Queste due città non sono più, infatti, città nel senso classico del termine, né municipi secondo gli standard urbani del xix secolo. Guardate da un punto di vista strettamente macroscopico, sono selvagge proliferazioni urbane che ogni giorno inghiottono milioni di persone.
New York o Londra sono costituite da distretti “organici”, che dispongono di una certa coerenza territoriale e culturale. È su questa scala ridotta che deve essere istituita la “comune”, prima che la necessità di un coordinamento logistico, commerciale o sanitario di questi distretti crei una federazione. Bookchin riscopre per altre vie un modo di organizzazione politica sperimentata un secolo prima durante la Comune di Parigi.
La prima apparizione di consigli di quartiere nei tempi moderni risale in effetti alla Comune del 1871. È allora che si cristallizza l’idea che la democrazia deve ancorarsi in uno spazio fisico il più vicino possibile ai cittadini. Durante la Comune, questo spazio fisico fu quello dei distretti che si federerano all’interno del “Comitato centrale repubblicano dei venti distretti di Parigi”, organo di direzione dei primi tempi della sollevazione. La democrazia “comunarda” si forgia in un contesto di crisi acuta dello – e anche di opposizione allo – Stato.
La grande novità dei processi rivoluzionari del xx secolo, dalla Russia all’Italia, passando per la Germania, l’Ungheria o più recentemente l’Argentina, è l’opposizione dialettica di questa “democrazia territoriale” a una “democrazia aziendale”, per riprendere la terminologia di Daniel Bensaïd. La Comune si era interessata alla riorganizzazione dell’economia, ma in misura minore. Durante questi processi, l’ancoraggio locale della democrazia è combinato con l’appropriazione collettiva dei mezzi di produzione, in altre parole con una offensiva contro la proprietà privata. Ci si mette in testa di controllare l’economia, di non lasciarla fluttuare a seconda degli umori del mercato.
I rapporti tra queste due forme di democrazia sono necessariamente conflittuali. Il territorio e l’impresa sono ormai fonti distinte di legittimità politica, ognuna con la propria logica. Ma all’inizio, in ogni caso, questo conflitto è portatore di avanzamenti democratici e di uguaglianza materiale.
Se il municipalismo di Bookchin si basa su un principio territoriale, si tratterebbe di aggiungere un ancoraggio all’impresa. Sebbene agli inizi fosse un attivista sindacale, Bookchin non faceva delle lotte sul posto di lavoro una dimensione centrale della sua politica di emancipazione. Nemmeno il controllo democratico della produzione – la pianificazione – era un problema decisivo per lui. Tuttavia, è solo se le sfere della produzione e del consumo (della vita quotidiana) vengono politicizzate congiuntamente che la dialettica del produttivismo e del consumismo conoscerà una battuta d’arresto. Una federazione di associazioni di produttori-consumatori: è questo lo strumento politico di cui abbiamo bisogno per pensare e agire collettivamente nella crisi ambientale.
Durante i processi rivoluzionari del XX secolo, sono apparsi più volte dei “consigli dei lavoratori”. Questi consigli potrebbero conoscere una seconda giovinezza – in una forma certamente rinnovata – con l’accutizzarsi della crisi. Le associazioni di produttori-consumatori potrebbero essere i consigli del XXI secolo, una istanza politica che consente contemporaneamente di combattere e di sopravvivere alla crisi ecologica. Esse darebbero luogo, nello stesso tempo, a un approfondimento della democrazia. Per capire come, è necessaria un po’ di storia.
I consigli operai sono stati spesso caricaturati, anche dai loro sostenitori. Si tratta di una istituzione complessa. Se per esempio osserviamo la rivoluzione russa, periodo durante il quale si diffondono, notiamo l’esistenza di diversi tipi di consigli, o “soviet”: consigli di deputati – in particolare il soviet di Pietrogrado, apparso una prima volta durante la rivoluzione del 1905 e poi nel febbraio del 1917 – consigli di fabbrica, consigli di quartiere, consigli di soldati… Marc Ferro parla di “costellazione di soviet” per descrivere la situazione che prevale in Russia dopo la rivoluzione di febbraio.
Questi consigli non rispondono a un piano predeterminato. Anche se le organizzazioni politiche – bolscevichi, menscevichi, socialisti-rivoluzionari, anarchici… – hanno un ruolo nella loro apparizione, all’inizio essi sono il frutto dell’attività spontanea della popolazione. Ogni tipo di consiglio esercita una funzione particolare. Il soviet di Pietrogrado, o “soviet dei deputati”, è – o vorrebbe essere – il parlamento del proletariato, degli operai e dei soldati, ma fin dall’inizio la sua legittimità è contestata dai partiti e da un potere operaio che si autonomizza con il passare dei mesi.
I consigli di fabbrica vengono dal luogo di lavoro. All’inizio del processo rivoluzionario, stabiliscono un rapporto di forza con i padroni, organizzando fondi per gli scioperi e casse di mutuo soccorso operaie. Poi, cacciati i padroni, assumono la produzione. “Così nacque l’autogestione”, commenta Ferro. Per un certo periodo i consigli di fabbrica costituirono una “cinghia di trasmissione” tra il soviet dei deputati e le masse. Con il crescere dell’onda rivoluzionaria e della delegittimazione del governo provvisorio, si organizzano autonomamente, riunendosi alla fine di maggio a Pietrogrado in una conferenza dei consigli di fabbrica.
I consigli di quartiere sono organizzati su base territoriale, essenzialmente urbana. Le loro funzioni sono numerose: rifornimento, compiti di polizia e di difesa della popolazione, requisizione di appartamenti vuoti per i senzatetto, organizzazione dell’assistenza all’infanzia, assistenza agli anziani… In breve, il loro raggio d’azione è la vita quotidiana. A causa del processo rivoluzionario e della guerra, le istituzioni statali non assicurano più il normale corso della vita sociale. I consigli di quartiere nascono da questo vuoto. Come per i comitati di fabbrica, anche il loro potere si autonomizza e si radicalizza con l’avvicinarsi di ottobre.
Il potere dei consigli dei lavoratori deriva quindi dal loro ancoraggio nella sfera produttiva (consigli di fabbrica) e nella vita quotidiana (consigli di quartiere). Questo primo livello di consigli è limitato da un secondo, che vede soviet di deputati, conferenze “interfabbriche” o “interquartieri” riunirsi a livello di una città o di paese per gestire questioni più globali. Prima che lo stalinismo interrompa la sperimentazione, l’innesto dei consigli assume quindi la forma di federazione.
Tutti i processi rivoluzionari del XX secolo hanno creato delle istituzioni di questo tipo, adattate alle specificità locali. È nei collettivi di questo tipo che la domanda “cosa produrre e per soddisfare quali bisogni?” deve essere sottoposta a un dibattito pubblico e poi la decisione messa in atto. Si tratta di riconnettersi con quello che era l’obiettivo del movimento operaio all’inizio del xx secolo, vale a dire il controllo democratico della produzione e del consumo. Le associazioni di produttori-consumatori sono lo strumento politico per raggiungere questo obiettivo. La deliberazione sui bisogni cui esse dedicheranno le loro energie mira a far evolvere la democrazia nel contesto della crisi ambientale, dotandola di poteri reali, vale a dire di poteri sull’economia.
Gli scenari di transizione ecologica mettono l’accento sul controllo dell’uso delle risorse naturali e dei flussi energetici – la sobrietà – serviranno da quadro per le associazioni di produttori-consumatori. Queste ultime mirano a politicizzare questi scenari, in modo da non lasciarli nelle mani degli “esperti”. Le rivoluzioni del XX secolo sono avvenute principalmente in paesi sottosviluppati o in contesti di scarsità dovuti alla guerra o alla crisi. Questo spiega perché hanno spesso portato a politiche economiche “sviluppiste”, volte ad aumentare la ricchezza materiale senza ulteriori considerazioni. Noi sappiamo che viviamo nelle società dell’abbondanza. Di conseguenza dobbiamo verificare ogni volta che le scelte produttive che facciamo siano compatibili con i dati ambientali.
Le associazioni di produttori-consumatori potranno ispirarsi alle esperienze di “bilanci partecipativi”, che si sono moltiplicati negli ultimi decenni, nei paesi del Sud come del Nord. Il bilancio partecipativo della città di Porto Alegre in Brasile, negli anni Novanta, è un caso paradigmatico, che ha influenzato il movimento altermondialista. Un bilancio partecipativo consente a un’assemblea di cittadini di assumere il controllo di tutte o parte delle finanze pubbliche di una collettività e di decidere democraticamente di destinare questi fondi a un progetto (ad esempio il rimboschimento) piuttosto che a un altro (la costruzione di un’autostrada).
La differenza, fondamentale, è che, nell’ambito di queste esperienze, la deliberazione non riguarda le scelte di produzione. Essa riguarda il bilancio, vale a dire le risorse fiscali create dall’attività economica, che l’assemblea può decidere di orientare in una direzione o nell’altra. È molto diverso. Il controllo della produzione è cruciale per conseguire una organizzazione economica e sociale sostenibile, per arrestare la logica del produttivismo e del consumismo. La connessione tra la definizione dei bisogni e le scelte produttive deve essere istituzionalizzata. Le associazioni di produttori-consumatori sono una modalità di questa istituzionalizzazione.
L’organizzazione territoriale delle associazioni di produttori-consumatori può essere affiancata da commissioni tematiche, che si occupano di argomenti specifici, come i trasporti o la cultura. È così che funzionava il bilancio partecipativo di Porto Alegre. Esse potevano essere composte, ad esempio, da membri eletti dalle associazioni cittadine o regionali. Potevano prendervi parte rappresentanti dello Stato, delle collettività locali, amministratori responsabili dell’attuazione delle decisioni o anche membri di associazioni. Come in ogni esperienza di democrazia partecipativa, la deliberazione sui bisogni richiede un’assistenza tecnica: statistici, informatici, programmatori, avvocati…
Bisogna socializzare il consumismo e così combatterlo. Le associazioni di produttori-consumatori favoriranno la disalienazione cercando di riconnettere le questioni della produzione e del consumo, facendo in modo che siano poste congiuntamente e non separatamente, come impone la logica del capitale. Ma ciò sarà possibile solo se esse aumentano, nello stesso tempo, il potere dell’individuo e la sua autonomia di fronte alla merce, e solo se prenderanno sul serio l’affermazione di Marx secondo cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti. In altre parole, i bisogni collettivi si fondano sempre in ultima istanza sui bisogni individuali, perché sono loro che si tratta di emancipare.
Le associazioni di produttori-consumatori svilupperanno così una nuova critica della vita quotidiana, su scala microsociologica, chiedendosi come far emergere una struttura dei bisogni universalizzabile “dal basso”. Questa critica non può essere che collettiva, non solo a causa della complessità delle società contemporanee, ma anche perché deve portare a delle mobilitazioni, che presuppongono il coinvolgimento del maggior numero possibile. E non può essere che organizzata, vale a dire, strutturata in forme politiche durature.
L’esperienza dei Debitori anonimi e di altri “circoli della semplicità” dimostra che ciò passa attraverso la partecipazione degli individui e dei gruppi. In materia di bisogni, è sbagliato opporre l’individuo al collettivo. Piccoli gruppi, che operano in modo egualitario e in cui nessuna decisione viene imposta dall’alto: questo è il livello più adatto alla deliberazione sui bisogni, bisogni definiti non ontologicamente ma dialogicamente. Il che non impedisce la nascita di federazioni che consentono un livello superiore.
Su questo punto, le associazioni di produttori-consumatori presentano un’affinità con la “pedagogia degli oppressi” sviluppata dal pedagogo brasiliano Paulo Freire. Degli oppressi, Freire dice che hanno “ospitato in sé l’oppressore”. Proprio come nel caso del “nemico interno” rappresentato dall’alcolismo combattuto dalla federazione dei lavoratori antialcolici, l’oppressione ha preso posto nel cuore e nella mente dell’oppresso. Estirparlo presuppone un paziente lavoro di presa di coscienza dei meccanismi dell’alienazione.
La “pedagogia degli oppressi” presuppone paradossalmente di sensibilizzare le persone a qualcosa che in fondo già sanno. Per Freire, la reminiscenza è politica. L’educatore interviene, ma anche lui viene educato nel corso del processo. Non apporta un sapere compiuto “nella presa di coscienza”. Soprattutto, l’apprendimento è inseparabile dall’azione militante, con la quale i soggetti sperimentano il loro nuovo potere acquisito, che consente loro di aggregarsi ancora di più. È a questo prezzo che si guarisce dal consumismo.