Squillano le cornamuse e corrono i giornalisti quando dall’ultimo capannone dell’IFEMA, la Fiera di Madrid dove si sono tenute le assemblee plenarie della COP25, si mette in marcia un corteo celebrativo capitanato dal ministro dell’ambiente italiano, Sergio Costa, e Claire Perry, che presiederà la presidenza della COP26 a Glasgow; un atto cerimoniale per sugellare l’accordo di collaborazione tra Italia e Regno Unito nell’organizzazione della COP26 nel 2020. Nonostante la mia sfrenata passione verso le cornamuse, la cerimonia non ha potuto che apparirmi come una marcia funebre… Era infatti l’ultimo giorno della COP25 e già si respirava aria d’insuccesso.

Il 25esimo incontro internazionale organizzato dalle Nazioni Unite per negoziare gli accordi sul cambiamento climatico tra i paesi all’interno della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) si è concluso, dopo 48 ore di trattative supplementari, con la dichiarazione della presidente cilena Cristina Schmidt di non aver raggiunto una linea di sviluppo condivisa sull’Accordo di Parigi.

A pochi mesi di distanza dall’evento e in vista della COP26, un’analisi critica sulla situazione attuale e sulle prospettive che si aprono è importante per inquadrare gli obiettivi di questo 2020; anno che sarà molto significativo sia per i negoziati dell’ONU – infatti alla prossima COP l’Accordo di Parigi dovrà entrare in vigore – sia per le mobilitazioni sociali sul clima, che dovranno sfruttare l’ultimo anno utile per poter incidere sugli accordi internazionali sul clima.

Ad essere ancora aperta è la questione posta dall’articolo 6 del suddetto accordo, che riguarda l’ultimo scoglio da sormontare: la definizione degli obiettivi di riduzione delle emissioni e la regolazione dei meccanismi da adottare per raggiungere gli obiettivi preposti da ciascun paese o ‘Nationally Determined Contributions’ (NDCs). Raggiungere tale accordo è cruciale per permettere una riduzione coordinata delle emissioni a livello globale e mantenere quindi l’aumento delle temperature entro il limite di 1,5°C entro il 2030 e raggiungere un livello di emissione netta di gas serra uguale a zero entro il 2050 – limiti definiti grazie al lavoro dell’International Panel con Climate Change (IPCC).

Il nodo cruciale irrisolto, all’interno dell’articolo 6, è quello che definisce come organizzare, regolare e finanziare lo scambio di tecnologie dai paesi industrializzati, maggiormente responsabili delle emissioni, ai paesi più poveri. Tale scambio dovrebbe avvenire attraverso la creazione di un nuovo mercato, il mercato del carbonio, già sperimentato con il ‘Protocollo di Kyoto’. L’Accordo di Parigi ha quindi l’intento di dare agli Stati uno strumento per facilitare il coordinamento nel raggiungere gli NDCs stabiliti. Il mercato del carbonio si fonda sul principio di disaccoppiamento tra crescita economica ed esternalità negative, nonché sul principio di compensazione. Un paese cosiddetto ‘emettitore’ può decidere di acquistare dei crediti carbonio da un altro paese che mantiene bassi livelli di emissioni, generalmente rappresentati da paesi poco “sviluppati” con elevata presenza di ambienti naturali nel territorio; i crediti acquisiti entreranno nel conteggio degli NDCs del paese acquirente e il finanziamento sarà finalizzato a sostenere l’economia del paese che emette i crediti o a sviluppare progetti sostenibili. In questo senso il paese arretrato è in possesso di ‘crediti-carbonio’ che può vendere ai paesi eccessivamente emettitori, per ottenere dei finanziamenti. La sperimentazione svolta con il Protocollo di Kyoto si è conclusa senza invertire il tasso di emissione di gas serra; inoltre il trasferimento dei finanziamenti è avvenuto spesso con irregolarità. L’Accordo di Parigi è il tentativo di correggere lo strumento, ma ancora non si è raggiunta una soluzione condivisa.

Il coro unisono lanciato dalle testate dei più importanti quotidiani nazionali che annunciava il fallimento della COP25 è in parte vero, ma la COP26 sarà il momento decisivo per concludere l’Accordo di Parigi, i risultati raggiunti finora lasciano pensare che difficilmente i negoziati della COP di Glasgow incontreranno una soluzione, ma comunque è ancora troppo presto per poter fare affermazioni di questo tipo.

Effettivamente a Madrid le parole chiave che hanno accompagnato l’intero evento, ‘Azione’ ed ‘Ambizione’, sono state tradite; infatti nella rettifica finale dell’accordo non si è espressa una volontà politica univoca ad intervenire per fermare il cambiamento supportando soprattutto i paesi più deboli; anzi, da una parte ci sono i paesi ricchi che cedono a fatica le proprie posizioni e i propri privilegi, dall’altra i paesi più poveri non demordono con le richieste di sostegno. L’accordo quindi è rimasto aperto, inconcluso e rimandato al prossimo evento. L’Unione Europea stessa, leader dei negoziati di quest’anno, ha dichiarato di preferire nessun accordo piuttosto che un articolo 6 abbozzato.

Anche in questa occasione negazionismo ed interessi economici hanno prevalso sulle necessità e le ragioni dei popoli più vulnerabili, primi tra tutti gli indigeni, che nella conferenza stampa conclusiva han dichiarato che le loro posizioni sono state per la maggior parte ignorate e che le problematiche di migliaia di popoli sparsi nel mondo sono state, per l’ennesima volta, oscurate da una serie di tecnicismi che poco lasciano spazio a questioni socio-economiche non trascurabili, d’interesse soprattutto per questi popoli, e strettamente legate al tema del cambiamento climatico.

Il modello ‘estrattivista’ con cui si è sviluppato il mondo industrializzato si sostiene, in diverse parti del mondo, attraverso la devastazione ambientale e lo sfruttamento di milioni di persone a cui spesso non viene riconosciuta sovranità territoriale; tutto per sostenere i consumi di una minoranza. Se si vuole parlare di azione coordinata a livello globale per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico bisogna affrontare e risolvere questioni che riguardano, nelle sue radici, il modello economico moderno. Bisogna quindi programmare in modo strategico le azioni da intraprendere a livello intersettoriale per risolvere tutte le questioni, ambientali, sociali, economiche e politiche. È una menzogna dire che il cambiamento climatico sia dovuto solo ad un fallimento del mercato: è una questione molto più complessa che non si può risolvere attraverso tecnicismi, ma attraverso un programma strategico e politico che scuota dalle fondamenta i rapporti di forza nel mondo.

Il problema reale che si cerca di oscurare ad ogni occasione è quello di un élite che ai suoi tempi conquistò il mondo generando una società ricca e benestante, a scapito degli altri popoli; oggi quel modello si è evoluto e diffuso portando altri popoli alla modernizzazione, allungandone la vita media, il livello d’istruzione e la ricchezza, generando però una serie di contraddizioni; infatti la qualità della vita che si cerca di raggiungere è minacciata dall’integrità ambientale e, inoltre, tale modello non può avanzare all’infinito poiché si alimenta di risorse limitate.

Altre narrazioni, oggi mainstream, come la ‘Green economy’, la ‘Blue economy’ o la ‘Circular economy’, che dovrebbero fomentare una crescita economica ‘green’, non sono altro che palliativi, soprattutto quando millantate come la ‘ricetta per il cambiamento climatico’, innovazioni tecniche dello stesso modello per renderlo più soft; anestesie che non curano il dente malato, ma solo alleviano il dolore. Anzi, come spesso denunciano i popoli indigeni che vivono sulla propria pelle l’esecuzione di questi progetti, a volte questi marchi celano azioni di ‘greenwashing’ intraprese da imprese multinazionali che altrove sono direttamente responsabili di devastazioni ambientali e danni alla salute umana per l’estrazione di risorse; interessanti a riguardo sono gli ottimi lavori svolti dall’associazione Re:common.

Non a caso l’articolo 6 risulta incompleto per un’altra ragione: uno degli ultimi punti che tratta prevede la possibilità di definire degli accordi tra paesi non basati sul mercato per cooperare nella mitigazione climatica, i cosiddetti ‘non-market based approaches’; poco si sa in realtà di queste modalità di cooperazione, probabilmente perché scarso è l’interesse a riguardo delle parti in gioco. Tali approcci dovrebbero veicolare dei finanziamenti pubblici tra paesi per implementare progetti e programmi strategici rivolti alla mitigazione del clima e ‘teoricamente’ essere scevri da qualsiasi interesse economico di terze parti. Questa dinamica potrebbe quindi essere una buona strategia per tutelarsi dagli interessi economici e di marketing per i quali certe aziende sostengono i cosiddetti ‘progetti verdi’ in quegli stessi paesi in cui si fanno responsabili del depauperamento delle risorse e della popolazione. Non a caso sono soprattutto i governanti dei paesi dell’America Latina e del Sud Globale che, in sede dei negoziati, cercano di promuovere questo tipo di approccio, ma con scarso successo – sempre non per coincidenza. Sono soprattutto questi paesi, insieme a quelli africani, quelli maggiormente succubi degli interessi delle grandi imprese nella gestione del proprio territorio e delle risorse naturali, fino al punto in cui, a volte, viene negato alle popolazioni locali la sovranità territoriale.

Non bisogna farsi ingannare da chi usa metafore false come ‘in tutti gli organismi, l’alternativa alla crescita è solo la morte’; se guardiamo al mondo naturale, soprattutto quello vegetale, vediamo spesso la ricerca ed il raggiungimento di un equilibrio più che una crescita continua ed esponenziale: un equilibrio dove il mantenimento della propria forma e consistenza ha un bilancio energetico netto uguale a zero; il cosiddetto ‘climax’. Per affrontare il cambiamento climatico sarebbe forse bene non ignorare questi principi.

I negoziati non sono ancora conclusi quindi, ma alla luce dell’analisi svolta si può dire che non si sta ancora facendo abbastanza; infatti, anche se l’anno prossimo si giungesse ad una definizione conclusiva dell’Accordo di Parigi, ciò non sarebbe comunque sufficiente a operare una svolta entro il 2030. Occorre una strategia più inclusiva ed incisiva – rimane poco tempo – ma intraprendere azioni politiche come lo European Green Deal potrebbe facilitare le azioni di ‘greenwashing’ da parte delle multinazionali.

Muovendo l’attenzione dai negoziati agli eventi paralleli della COP l’atmosfera non cambia, ma è forse possibile scorgere nuove possibilità. Le migliaia di organizzazioni tra istituti, università, ONG ed altre che lavorano e collaborano per sviluppare progettualità innovative di riduzione delle emissioni, gli attivisti ambientali, fuori e dentro la COP, che mantengono alta l’attenzione su temi come i diritti civili e la giustizia climatica all’interno dei negoziati e le popolazioni indigene, detentrici della maggior parte degli ambienti naturali e dei saperi tradizionali del mondo, possono proporre una via alternativa. Tutto sta nel sapersi ascoltare e coordinare.

La ‘Cumbre Social por el Clima’,  Contra-Cumbre, organizzata presso la Universidad Complutense de Madrid da vari gruppi ed organizzazioni di attivisti, tra cui Fridays for Future, e che ha visto anche la partecipazione delle delegazioni indigene, è stato uno spazio ed un momento importante, iniziato dopo la mobilitazione del 6 Dicembre che ha visto la partecipazione di centinaia di migliaia di persone, e realizzato da tutte quelle rappresentanze che vengono ascoltate poco all’interno della COP.

Questo piano dovrà acquisire maggior importanza, spazio e capacità di influire sul piano istituzionale, creando un ulteriore possibilità di confronto con le altre organizzazioni che partecipano alle COP per generare una maggior capacità di governare i rapporti di forza. Uniti, sarà forse possibile far risuonare le voci dei popoli in rivolta e in resistenza del mondo e di tutti gli attivisti che lottano per il clima e per ridurre le disuguaglianze sociali. È un piano essenziale, questo, da costruire in parallelo a ciò che accade localmente.

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