Scarica l’ebook Università critica – Liberi di pensare, liberi di ricercare, a cura di General Intellect.

Questo volume intende riflettere e continuare il dibattito sullo stato della libertà accademica in Italia, prendendo le mosse principalmente da due eventi avvenuti tra il 2016 e il 2017. Da un lato, il rinvio a giudizio di tre antropologi: Roberta Chiroli, Franca Maltese ed Enzo Vinicio Alliegro, deferiti alle autorità competenti per attività connesse ai loro impegni istituzionali di ricerca, e la condanna a due mesi di detenzione, pena sospesa, di una di loro, Roberta Chiroli. Dall’altro, l’assassinio di Giulio Regeni, dottorando presso l’Università di Cambridge, scomparso al Cairo, dove stava svolgendo la sua ricerca sul campo, il 25 febbraio 2016 e ritrovato cadavere dieci giorni più tardi. I segni inequivocabili che il corpo di Giulio presentava hanno immediatamente indotto a pensare che fosse stato torturato da persone esperte, verosimilmente membri della Sicurezza Interna da cui lo studioso era osservato in ragione della sensibilità politica delle sue ricerche sul sindacalismo indipendente nell’Egitto controrivoluzionario.
Questo volume vede la luce proprio nell’estate del 2017, in concomitanza con la notizia del rinvio dell’ambasciatore italiano al Cairo dopo l’iniziale richiamo, segno della volontà del governo italiano di ripristinare le normali relazioni diplomatiche con il regime di Abdel Fattah al-Sisi. Questa decisione evidenzia il prevalere di squisite ragioni di realpolitik su qualsiasi considerazione etica e morale, stante lo stallo totale delle risibili indagini finora svolte, imputabile in larga parte alla strenua volontà del regime egiziano di difendere la propria impunità.
Al di là della macroscopica differenza di magnitudo, della diversità e specificità dei dispositivi repressivi e dei contesti, esiste un filo rosso che unisce questi casi, gli uni preoccupanti, l’altro tragico: la criminalizzazione della ricerca, intesa come libera pratica di indagine e riflessione critica. Il caso di Regeni mostra nel modo più drammatico il modus operandi di uno stato autoritario che ha abdicato a qualsiasi finzione di inviolabilità del diritto e si fa quotidianamente aguzzino di chi lo contesta. La questione della “pericolosità della ricerca” in contesti autoritari dunque, non dovrebbe solo limitarsi a una discussione sulla praticabilità o meno della ricerca sul campo in tali contesti, ma piuttosto ampliarsi a una analisi di come “morire di ricerca” si collochi in un fenomeno di progressivo restringimento delle libertà democratiche a livello globale, in virtù della continua validazione dell’imperativo emergenziale e securitario. Su questi temi è nata una mobilitazione transnazionale che mette in connessione quella parte della società civile italiana che chiede verità e giustizia per Giulio Regeni e coloro che in Egitto si battono contro le migliaia di sparizioni di giovani attivisti e oppositori del regime. È in questo modo che il tema della ricerca viene collocato al centro di dinamiche più ampie, mostrando l’artificiosità della concezione di “eccezionalismo accademico”.
In Italia, i casi di Chiroli, Maltese ed Alliegro hanno mostrato come non esista sempre un nesso necessario tra comportamenti e repressione giudiziaria e come al centro dei dispositivi adottati vi sia la preoccupazione di reprimere narrazioni potenzialmente eterodosse dei conflitti sociali e territoriali (per esempio la lotta No Tav in Val di Susa e quella contro il taglio degli ulivi in Puglia, che fanno entrambe da sfondo alle vicende di cui parliamo). Un’evidenza resa ancora più chiara dalla natura della sentenza prodotta per condannare Roberta Chiroli: un dispositivo giuridico che non si limita ad addebitare, sia pure con molte contraddizioni, i comportamenti illegittimi; ma si addentra nel cuore della disciplina antropologica per estrapolare parti dell’elaborato prodotto dall’autrice, focalizzarsi su uno stralcio di diario etnografico, contestare un brevissimo passaggio fondato su una formula narrativa caratterizzata dall’impiego della prima persona plurale (un “Noi” che, nei resoconti giornalistici e nella percezione del pubblico, diventerà noto come “noi partecipativo”; un modo non specialistico di intendere l’osservazione partecipante) e impiegare queste brevi righe diaristiche come prova di una complicità quantomeno morale nella commissione di un reato. Tali vicende hanno posto le scienze sociali e la società italiana dinanzi all’evidenza di una composita serie di problemi che attentano alle libertà politiche generali, a quelle di ricerca e al lavoro intellettuale, mettendole pesantemente a rischio.
È apparso presto chiaro, infatti, che le denunce e le condanne svelano l’arbitrarietà del dispositivo repressivo nazionale – peraltro già individuato da una vasta letteratura scientifica in materia di polizia – abbattendosi su persone la cui principale responsabilità era costituita dall’essere presenti in scenari di conflitto, dunque dal ruolo “testimoniale”.
Al processo a Roberta Chiroli ha fatto seguito un’ampia mobilitazione collettiva: una molteplicità di appelli, varie mozioni prodotte dalle società scientifiche e da dipartimenti universitari, articoli sui principali quotidiani nazionali, convegni, lettere aperte scritte dai magistrati coinvolti e controrepliche. La vicenda ha determinato processi identificativi pronunciati tra molti studiosi italiani e ha fatto emergere nel panorama nazionale tanto la diffusione di una nuova scienza sociale engaged, quanto la percezione tra i ricercatori di essere esposti a un assedio che si manifesta in una pluralità di forme. Le numerose analisi prodotte hanno così messo a fuoco il modo in cui la repressione penale si combina con l’insieme di dispositivi inerenti la governance universitaria e il reclutamento. In tal senso, le attività giudiziarie e di polizia non sarebbero altro che il polo più triviale ed esplicito di un continuum – iscritto negli atti governativi così come nella sensibilità dei gruppi dirigenti italiani – teso a regolare la ricerca e l’università, indirizzandole, creando gerarchie tra saperi e discipline, “normalizzando” i metodi e le posture, rendendo la ricerca “applicata” e funzionale anziché libera e indipendente.
A tali dispositivi si aggiungono pratiche di repressione, condizionamento della ricerca e soffocamento degli indirizzi critici che quest’ultima può assumere in opposizione ai medesimi dispositivi sopra descritti, dispiegati in diverse discipline, campi di inchiesta e spazi politici.
Questa raccolta rende dunque conto di tale dibattito e di tali riflessioni, presentando una selezione degli interventi discussi nel corso di tre convegni nazionali organizzati nel 2016 rispettivamente all’Università Ca’ Foscari di Venezia (12 settembre), in quella di Modena e Reggio Emilia (1 ottobre) e alla Libreria Cabral di Bologna (14 ottobre). A questi contributi si aggiungono quelli di studiose e studiosi che, stimolati dal dibattito svolto in queste tre sedi, hanno apportato nuovi livelli di riflessione sullo stato del rapporto tra libertà politiche e di ricerca nel nostro Paese. Come vedrete, si tratta di un lavoro polifonico, composto di contributi eterogenei. Data l’importanza del dibattito, ci sembrava indispensabile che questo fosse ampio e molteplice.
L’intento della presente raccolta di brevi articoli consiste al tempo stesso nell’offrire un quadro di questo rapporto e nell’invitare le ricercatrici e i ricercatori che si trovano a combattere le forme di violazione della libertà di ricerca a esporre senza timore le pratiche a cui sono soggetti più o meno esplicitamente. Riteniamo sia importante costituire un fronte comune di resistenza e di protezione della ricerca e del pensiero critico in Italia e crediamo che il primo passo in tale direzione consista nel creare una rete di persone sensibili a questi temi e interessate a divenire parte di un osservatorio per la libertà di ricerca e di pensiero. È per questo che invitiamo tutte le persone interessate a contattarci all’indirizzo email libericerca@gmail.com e a farsi partecipi.
Immagine:  Misha Gordin, New Crowd #54, 2001.