“War for territory” cantavano i Sepultura nel 1993. Che ci siano conflitti per il controllo del territorio non è certo una novità, così come non è notizia di oggi che questi scontri non passino da guerre guerreggiate, almeno se ci si ferma all’idea tradizionale di guerra. Non sono solo i territori di confine a raccontarci tale tensione, non sono quindi solo i confini tra Cipro Nord e Sud, tra Venezuela e Guyana, tra Siria Iraq e Turchia, o tra le due Coree a trasudare violenza. Un recente studio condotto dall’Uppsala Conflict Data Program (UCDP), programma di ricerca sui conflitti dell’Università svedese di Uppsala, conta 170 conflitti riferendosi ad almeno 54 guerre tra eserciti di due o più stati ma anche ai conflitti tra stati e gruppi armati di diverso tipo, facendo rientrare in questa categoria i conflitti legati al crimine organizzato ed anche le situazioni dove si riscontrano violenze governative verso la popolazione civile. Già prendendo la fotografia appena riportata senza allargarla, cosa che invece faremo tra pochissimo, è evidente, e forse scontato, che la guerra resta elemento strutturale per la replica del capitalismo. Oggi, però, il tutto avviene con maggiore violenza tanto che non solo la guerra tra eserciti torna a soffiare nel mondo occidentale ma assume forme radicate e riprodotte pari pari in diversi angoli del mondo. Prima di proseguire vorrei, senza dilungarmi rompere però un’immagine che si è radicata negli anni, quella della “guerra per l’acqua”. I bacini idricografici condivisi tra due o più paesi, nel mondo, sono oltre 260 e riguardano 146 paesi, quelli sottoposti a conflitto si contano sulla dita di una mano mentre per tutti gli altri si parla di collaborazione e co-gestione. Fatta questa, piccola ma necessaria osservazione, vorrei aggiungere elementi alla mappa delle geografie della guerra e, tornando ai Sepultura, allargare il concetto alla guerra per i territori. Il controllo del territorio è un nodo centrale che a differenza di quanto teorizzato alla fine del secolo scorso vede la centralità dello Stato Nazione e non solo dei “soggetti” interessati al territorio. Mi pare evidente che oggi lo stato è il soggetto che permette l’espopiazione di ricchezza dalle nostre vite e dai sottosuoli che calpestiamo. Ed è forse proprio il ritorno del ruolo dello stato nelle dinamiche di “controllo” dei processi economici e produttivi a certificare il superamento del paradigma neoliberista e il divenire, ancora scomposto, di altro. Dentro lo spazio di crisi del capitalismo, del ruolo dello stato (che resta al servizio degli interessi del capitalismo e che sempre più risponde a tali necessità) e la fine della “politica” (ne “La Quarta Guerra Mondiale è Iniziata” del Subcomandante Marcos si prospettava il ruolo subalterno dello stato agli interessi del capitale ma dentro ad una lettura prospettiva e neoliberista del capitalismo di fine ‘900) si spiegano, secondo me, le dinamiche di crescita, esplicita e narrata, del crimine organizzato – soprattutto in quelle aree della terra dove la presenza di resistenze indigene, femministe, localiste, è radicata e molto forte – e dove l’intervento di stato e forze di sicurezze statali non può “superare alcuni limiti”, a meno che non ci si trovi in contesti di stati autoritari, dove l’assenza di uno stato di diritto e di una “democrazia” permette l’uso della forza anche oltre ai “limiti”. La narrativa della narco-democrazia di fatto è fallace e assolve lo stato, provando così a deviare l’attenzione delle persone (e quindi la possibilità di costruire alternative sistemiche) dai processi in corso e dalla triangolazione esistente tra stato-ecomomie legali-ecomomi e mi pare diventi una sorta di “alter”, giustificativo.

Il crimine organizzato è diventato, già da anni, modello strutturale nelle pratiche di accumulazione del capitale così come è elemento necessario per quelle di espropriazione di ricchezza dai territori occupati. Non è anomalia sistemica, non succede per caso, è uno degli strumenti che il capitale si è dato per occupare i territori così l’idea di “narco-democraizia” fa il paio con “dittatura” ovvero si considera il paese “perso” e quindi ciò che accade in quei territori diventa “figlio” della violenza criminale o statale e non esiste intervento “democratico” possibile. Queste due forme di guerra per il territorio trovano l’avvallo dei grandi gruppi economici che speculano sulla ricchezza dei sottosuoli, sulle vite del persone ma anche sul turismo. Difficile non vedere come parimenti a dove c’è l’esplosione dei conflitti con gruppi del crimine organizzato così dove ci sono governi autoritari c’è una perimetrazione sicura delle aree di turismo e dove i turisti diventano la giustificazione per azioni violente per modellare il territorio ma allo stesso tempo soggetti da tutelare e a cui vendere ogni tipo di prodotto, poco importa se legale o illegale. E così il turismo prospera, si allarga e diventa una chiave di governo, prima, e poi di controllo del territorio. E se apriamo il capitolo turismo vediamo come logiche di controllo del territorio, che sfociano in forme di guerra contro le parti più fragili della popolazione, si vivono e vedono anche nel, supposto, occidente democratico. Forse parlare di guerra sembrerà assurdo ed esagerato, ma anche qui in Europa, dove spesso si annida un pensiero colonialista indiretto, le pratiche di espulsione dalla città di povere e poveri, le politiche anti-migranti, le trasformazioni a misura di turista, la precarizzazione del lavoro, le grandi opere infrastrutturali (anche difese militarmente, si veda la Tav in Val di Susa), i grandi eventi sportivi o del capitale, la gestione delle crisi sanitarie e ambientali o dei “disastri” naturali, sono forme di violenza, anche molto gravi e impattanti. Le città del capitale si impongono con cattiveria cacciando chi non può viverle, le grandi province e periferie stanno piano piano replicando le logiche urbane, e le campagne vivono nell’incertezza. Ai 170 conflitti mappati si dovrebbero aggiungere queste terribili e “accettate” forme di conflitto per il territorio, dove la logica estrattiva non è l’unico paradigma con cui il capitalismo oggi necessità di avere il controllo del mondo.

La guerra nelle sue differenti forme è elemento riproduttivo del capitalismo e così vengono riproposti schemi patriacarli, sessisti, colonialisti, imperialisti ed ecocidi. La guerra impone un modello, un’idea, un progetto di annichilimento delle diversità, dell’ambiente e della giustizia sociale. Più le risorse ambientali vengono sfruttate più la guerra imperversa per accaparrarsi quelle rimaste. Più la guerra si fa dura più le asimettrie sociali si evidenziano e s’allargano, così come le forme di esclusione sociale e difesa dei privilegi. In questo quindi la centrale delle rivendicazioni ecologiste, femministe, de-coloniali e anti-razziste si fanno necessarie.

So che i passaggi sono rapidi e abbozzati, mancano di un legame solido, all’apparenza, se così presentati. L’articolo vuole essere volutamente un grido ed un lancio che necessità di approfondimenti, se si vuole accettarne l’apertura. Parlando di controllo, e allargandone il campo, mi pare necessaria un ultima disquisizione, controllare un territorio oggi significa cancellare ogni alterità, ogni voce critica, ogni forma d’opposizione, ed è proprio per questo che si può tracciare una linee di congiunzione tra le guerre tra eserciti, dove l’altro viene eliminato o conquistato, con i governi autoritari (che siano dittature effettive o false democrazie tipo Turchia o San Salvador), con il crimine organizzato (dove le voci critiche dal giornalismo all’attivismo vengono eliminate) ai supposti stati democratici dove la chiusura degli spazi di espressione di conflitto vengono chiusi e criminalizzati (si pensi alle prime mosse del governo Mieli in Argentina e al tentativo costante di indurire le pene per reati “sociali e politici”, o alle campagne anti-sciopero di Salvini e Renzi in Italia). Aprire oggi una riflessione sulla guerra, sulle necessità e modalità di controllo del territorio da parte del capitale (pensiamo al poco dibattuto caso Guatemala), e su come ancora si possa pensare che “il nostro sabotaggio organizzi l’assalto al cielo e finalmente non ci sarà più quel maledetto cielo” e così la guerra, mi pare davvero fondamentale e la lascio (lancio) a chi ha strumenti d’analisi e visioni, necessariamente de-coloni, ecologiste e femministe, maggiori delle mie e non si ferma ad uno sguardo d’osservazione, e di analisi, giornalistico e non accademico. Nella certezza che solo abbattendo gli scompartimenti accademia/informazione/militanza si possa costruire un terreno d’organizzazione d’alternativa.

 

Immagine di copertina: Salvador Dalì, Composition avec tour (1943)

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