Recensione di Stefano Lucarelli al testo curato da Cristina Morini e Paolo Vignola, dal titolo “Piccola Enciclopedia Precaria”, Agenzia X, Milano, 2015, pp. 240, Euro 16,00, che raccoglie alcuni contributi importanti apparsi nei 5 numeri dei Quaderni di San Precario.
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Ho letto la Piccola enciclopedia precaria, un insieme di voci a cura di Cristina Morini e Paolo Vignola redatte nel bel mezzo della lunga crisi che siamo costretti a subire, ma concepite grazie un lungo percorso che risale alla metà degli anni ’90. Dopo l’approvazione del pacchetto Treu e prima dei social network, si sono susseguiti gli sforzi per organizzare le battaglie di quei lavoratori atipici ma sempre più presenti che non godevano neanche dell’attenzione dei sindacati: da McDonald’s a Esselunga, dagli ipermercati ai call center, sino al mondo della comunicazione, della moda, della ricerca…. Da questi sforzi emergono le riflessioni, le nuove parole, le parziali prese di coscienza di chi ha bisogno di una narrazione collettiva. Queste non costituiscono una mera denuncia della rimo-zione del lavoro dall’agenda poli¬tica del movi¬mento, ma aspirano a innanzitutto a raffigurare il lavoro per ciò che è, poi a ridefinirlo attraverso nuove forme di lotta.
Questo piccolo grande strumento di consapevolezza non rappresenta al contempo una presa di parola completa da parte degli uomini e delle donne che denun¬cia¬no bassi salari, assenza di diritti sociali e rela¬zioni di tipo ser¬vile. Riflette invece tutte le debolezze, insieme alle potenzialità, che si respirano nei luoghi di lavoro gestiti secondo le logiche delle criticità imminenti e persistenti che caratterizzano soprattutto le imprese italiane. “La parola creatività – ad esempio – è uno di quei grimaldelli con cui ti fottono il cervello”, sembrerebbe costituire il presupposto per ogni esperienza lavorativa, l’unità di misura con cui disciplinare l’offerta di lavoro tutta. Eppure la Piccola enciclopedia precaria mostra come sulla creatività si possa costruire un evento mediatico in grado di aprire degli spazi di mediazione nuovi. La creatività può essere impugnata come un’arma: “26 febbraio 2005. Serpica Naro, stilista anglonipponica, chiude la settimana della moda sfilando sul cavalcavia Bussa nel quartiere Isola a Milano. A un’ora dall’inizio della sfilata affluiscono in gran numero giornalisti filtrati attraverso il cordone delle forze dell’ordine, che controllano le zone adiacenti alla tensostruttura che ospiterà l’evento. L’attenzione e la tensione sono causate dalle agguerrite dichiarazioni dei devoti di San Precario che han giurato di impedire la performance di questa stilista giudicata per molti motivi indesiderata e che si esibisce nel quartiere ove i precari stessi hanno sede”. Serpica Naro non esiste, è l’anagramma di San Precario, è uno scherzo architettato per rendere possibile la denuncia delle condizioni di lavoro nel mondo della comunicazione e della moda. Delle proteste marginali diventano così uno strumento reale di lotta, capace di aprire veri spazi di mediazione. Sono gli eventi costruiti su immaginari positivi che infatti mantengono alti i proventi dell’industria della comunicazione e della moda. Andare a stravolgere il significato di quegli eventi, agendo sugli immaginari di quella cultura, rappresenta una concreta forma di sabotaggio capace di danneggiare il circuito di valorizzazione.
Ma non c’è spazio per il trionfalismo o l’autocompiacimento: pagina dopo pagina, si alternano pezzi di inchiesta e provocazioni intelligenti capaci di scuotere gli animi alimentando la necessaria immaginazione per giungere insieme a nuovi strumenti di lotta e rappresentanza. Si cammina nella giungla della precarietà, dove l’altro è percepito come un suono lontano o un potenziale pericolo, dove alto è il rischio di non riconoscere se stessi per ciò che si è, e di restare soli. La Piccola enciclopedia precaria nasce dalla consapevolezza che i soggetti frantumati che compongono la realtà della precarietà non rappresentano ancora una “composizione politica”. Emblematiche sono le pagine sui free lance, dove l’inchiesta giunge a definire delle soggettività complesse e masochiste: “Il giovane giornalista si ripaga con il fatto che il giorno dopo leggerà il proprio nome in cima a un pezzo … è necessario accettare gli stage e non stancarsi di lavorare”. Viene a legittimarsi “un modello di disoccupazione produttiva utile alla diffusione di forme di lavoro non salariate”. E ancora colgono nel segno le pagine dedicate al lumpen-ricercatore, che ci ricordano “quanto sia importante comprendere che in gioco non è il merito, ma i legami e le relazioni che si creano. … Quel che l’accademia e la militanza distratta nei confronti delle soggettività di ricerca possono distruggere, infatti sono le relazioni tra i soggetti, che nel primo caso sono le uniche dinamiche in grado di creare dissenso e nel secondo, invece, dovrebbero produrre senso e processi di soggettivazione”.
In questi casi siamo ancora di fronte all’esigenza di de-colonizzare l’immaginario che viene imposto dai rapporti sociali all’interno dei quali si è cresciuti, occorre dis-imparare. È allora preziosa l’auto-narrazione riportata nell’ultima parte del libro, un esercizio collettivo finalizzato a riconoscere la propria precarietà: “nel 2010 un gruppo di precari genovesi ha deciso di affrontare la propria condizione avviando un laboratorio dedicato a un’analisi della dimensione precaria dell’esistenza, che avesse come oggetto le ripercussioni sulla soggettività causate dai dispositivi del lavoro, e come obiettivo l’individuazione di possibili percorsi collettivi di ricerca, di resistenza e di salute”. Cinque sono i passi che il lettore si trova a compiere insieme al narratore, nel quale non può che immedesimarsi: 0. parlare di sé per parlare di noi; 1. il lavoro è una merda? 2. Sarà pure una merda, ma dicono sia dignità; 3. E la rabbia?! – Non è un sentimento da precari; 4. Noi al lavoro. 5. Il nemico e il ricatto del futuro. L’ este¬tica del pre¬ca¬riato dove l’agire poli¬tico è rele¬gato a dimen¬sione mar¬gi¬nale, resi¬duo di un pas¬sato da rot¬ta¬mare non appartiene a queste pagine. La strada verso forme di rappresentanza autonoma e soggettiva è lunga ma la costruzione di possibili azioni di lotta capaci di bloccare i flussi delle merci, delle persone e delle informazioni per rivendicare una nuova forma di welfare sociale comune, passa necessariamente attraverso percorsi analoghi a quelli che i protagonisti di questo libro – non solo gli autori delle voci ma le donne e gli uomini che in quelle voci vivono – hanno svolto e hanno messo in comune.
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